Introduzione: qualche cenno sulla questione dello spazio nelle immagini contemporanee.
Non è un caso che la nuova sensibilità interdisciplinare nei confronti dello spazio (qualcuno vi si riferisce parlando di Spatial Turn)1 nasca in una contemporaneità dominata dalle immagini e dalla loro spettacolarizzazione – in cui cioè la cultura del visivo implica «un privilegio delle coordinazioni spaziali rispetto a quelle temporali»2 che investe poi ogni branca della cultura. Ciò che collega la Spatial Turn alla proliferazione e crescente pervasività di informazioni visuali è, semplificando, la natura spazializzante propria dell’atto del vedere: quel confluire del racconto nello spazio «che si traduce in una visione stratigrafica del tempo, di sapore vagamente archeologico».3
L’immagine, è cosa ben nota, non ha storia: in essa i rapporti cronologici hanno come referenti quelli disposizionali, tanto che è nell’organizzazione e nella configurazione dello spazio che si rappresenta il tempo4 –«lo spazio figura sul fotogramma, il tempo no».5 Ecco che il principio ordinatore del vedere, rivendicando la propria centralità sull’astrazione del tempo, spazializza l’oggetto della visione: che il luogo, la mappa e il quadro divengono fondamentali negli studi culturali contemporanei, da quelli più strettamente visuali (dai Visual Studies alla semiotica dei media, dall’indagine cinematografica a quella neurologica) a quelli filosofici, psicologici, economici o sociali; il mondo come preminenza delle relazioni di distanza, visibilità e mappabilità – come istanza geografica e spaziale – emerge dal dibattito culturologico moderno e post-moderno come presupposto e nucleo, come scenario scopico. Esiste soltanto ciò che si vede e che si rappresenta, soltanto ciò che si immagina: esiste pertanto solo ciò che ha uno spazio.
Non sorprende che le narrazioni stesse vengano scomposte, nella prospettiva dell’analisi o della critica cinematografica, ponendo particolare attenzione alla disposizione degli elementi nella costruzione del quadro o nella descrizione e simbolizzazione delle ambientazioni principali del film: se l’immagine è prima di tutto spazio, in essa la descrizione di un luogo reale o virtuale si trasforma in una marca di enunciazione, in un simulacro dell’istanza che ha prodotto (enunciato) l’immagine stessa.
Marche di enunciazione cinematografica: metafore della visione, ovvero simulacri dell’enunciazione che compaiono all’interno del testo. Sopra: Psyco [Psycho, Alfred Hitchcock, 1960]. Sotto: Il filo nascosto [Phantom Thread, Paul Thomas Anderson, 2017]
L’attenzione dell’analista, del semiotico o del critico si sposta, o meglio si estende: dalle metafore della visione (sguardi in camera, specchiazioni significative, voli pindarici di simboli e meta-riflessioni) alle metafore della spazializzazione: abitazioni, geografie, contrasti cromatici, opposizioni interno/esterno, chiuso/aperto, naturale/artificiale e così via. Dal cinema al cartellone pubblicitario, la spazialità dell’immagine si trasforma in una speculazione endemica, ineludibile: non potendo che organizzarsi e distribuirsi a livello tabulare, la visione si auto-rappresenta nei propri spazi.
Una metafora della spazializzazione che riproduce uno spazio finzionale (quello del set) contrapposto a uno reale, immobile ed esterno che lo incornicia (la strada dalla finestra). L’esempio, proveniente da The Neon Demon [id., Nicolas Winding Refn, 2016] è solo uno degli innumerevoli possibili: su queste pagine si è parlato trasversalmente di spazi cinematografici in un gran numero di articoli.
Che dire poi del medium che, tra tutti, pone maggiormente l’accento sulla configurazione dello spazio: il videogioco.6
In esso non s’incontrano soltanto lo spazio iconico (della visione) e lo spazio del quadro (con funzione comunicativa, emergente), che si osservano e si interpretano, che si abitano con lo sguardo: quella videoludica è una sincresi di spazialità continua e proliferante, che nel medesimo istante mescola più domini e più ambienti e li sovrappone freneticamente – si parla spesso, a tal proposito, di ipertrofia di spazialità.7 Si pensi non solo al modo in cui viene composta la singola inquadratura di un videogioco,8 ma anche e soprattutto all’importanza che l’esperienza spaziale assume a prescindere dallo sguardo: il fruitore conosce, esplora, manipola l’ambiente di gioco nel medesimo istante in cui, anche osservandolo, ne capisce struttura e regole. Una coincidenza significativa tra metafora dello sguardo, metafora della spazializzazione e metafora dell’azione che trasforma il giocatore in un’entità simbolica in grado di conoscere e sondare ambienti simulacrali estremamente affascinanti sotto vari punti di vista, in grado cioè di rendersi specchi riflessivi della contemporaneità sfaccettata e soverchiante in cui vengono formulati.
Anziché addentrarci in un’improbabile quanto estesa trattazione generica degli spazi del videogioco e delle loro caratteristiche ci soffermeremo, nel corso dell’articolo, a riflettere su una particolare categoria di spazio videoludico: un’affascinante intersezione iconografica di una pluralità di influssi tale, però, da generare anche una variazione paradigmatica dell’agire videoludico stesso. Lo spazio post-apocalittico.
Lo spazio in rovina, dove vagano i fantasmi.
Il segmento iniziale del secondo contenuto scaricabile di Dark Souls 3 (FromSoftware, 2016), The Ringed City, si ambienta in un luogo chiamato Cumulo di rifiuti.9
È questo uno spazio particolarmente significativo: è un mucchio di architetture collassate l’una sull’altra, tra le quali non a caso si trovano anche ambientazioni già sondate in precedenza (sia nel corso del titolo sia nei precedenti della serie). È un luogo per lo più inesplorabile e funereo, il cui orizzonte è occupato da edifici che lentamente strisciano l’uno sull’altro, silenziosi, accatastandosi. L’utente si trova immerso nella sua vastità uscendo dallo spazio piccolo e chiuso nel quale si è ritrovato usando un teletrasporto: immediatamente, dinnanzi allo spettacolo macabro e destabilizzante del panorama si dà alla vista una vecchia ricurva sul proprio bastone. Parlandoci, il giocatore è libero di allegare alla sublimità della visione che gli si para davanti le sue oscure frasi.
«L’età del Fuoco volge al termine e tutte le terre convergono alla fine del mondo. Grandi reami e villaggi sparuti… tutto finisce. Si chiude il sipario sulle vane imprese dell’uomo. Per questo un tale panorama mi affascina tanto. Dev’essere questo che si prova a essere un dio.»10
Senza addentrarci nel merito della narrativa di Dark Souls 3, che di per sé richiederebbe una trattazione ben più approfondita, ci limitiamo a descrivere questo paesaggio così come si presenta agli occhi del fruitore meno attento: una discarica alla fine del mondo, in cui tutti gli universi sono collassati fisicamente l’uno dentro l’altro. Un paesaggio in rovina, o meglio: un paesaggio di rovine, tanto avvilente e grandioso da rapire chi lo osserva e da farlo sentire, nel momento in cui si erge sopra a questa disastrosa vanità, alla stregua di un dio.
Fare esperienza delle rovine: raggiungere la sporgenza sbagliata significa vedersi crollare il pavimento da sotto i piedi e cadere a capofitto oltre la vetrata di una chiesa. Uno spazio siffatto, privo di polarità alto/basso e ammucchiato e caotico, inghiotte non solo lo sguardo dell’utente, ma anche la sua azione esplorativa.
Troviamo nelle parole di Walter Benjamin un parallelo sorprendentemente efficace di quanto esperienziato qui da un utente-tipo:
«C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irreristibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo.»11
Per quanto la presenza di creature angeliche che minacciano l’incolumità del giocatore possa essere vista come un rimando implicito e forse troppo specifico alla riflessione di Benjamin [Fig.12] ci sembra ben più utile riflettere sulla centralità iconografica delle rovine, nella citazione del filosofo tedesco quanto nel Cumulo di rifiuti.
A sinistra: Angelus Novus di Paul Klee (1920); a destra una delle figure angeliche che popolano i cieli del Cumulo di rifiuti in Dark Souls 3.
L’osservatore che si erge sulle rovine e si sente come un dio coincide con l’angelo benjaminiano: “vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine”. La sua azione, incapace di soffermarsi a riconoscere i vari elementi che compongono il collasso, non può che votarsi al proseguimento: così come l’Angelus Novus viene spinto al futuro dalla tempesta l’utente non può che proseguire verso il completamento del gioco, lasciandosi alle spalle il marasma della Storia. La sua azione, più che limitarsi al contemplare, mantiene sempre una dimensione teleologica: si esplora e si gioca per giungere al termine dell’esperienza, per esaurirla. Con le rovine dello spazio non si può fare nulla: il giocatore vi slitta all’interno, vi cade, vi combatte e infine si trae in salvo. Il suo viaggio attraversa i resti di un multiverso disastrato eppure le sue azioni sono lucidamente vincolate al suo presente.
Tracciando sinteticamente le caratteristiche del Cumulo di rifiuti di Dark Souls 3, esempio-chiave che getta luce su un gran numero di altri spazi post-apocalittici, lo definiremmo quindi innanzi tutto (a) un ambiente morto, o meglio non-morto: situato cioè al di là della vita. È infatti uno spazio incapace di vivere di un proprio presente: le sagome che lo popolano sono spettri maledetti al di là del tempo, che ne infestano ciò che rimane senza appartenere a nessuna delle epoche trascorse. È in secondo luogo (b) uno spazio catastrofico, la cui paradossalità intrinseca è il situarsi sia a posteriori sia a priori dell’apocalisse: i mondi che lo compongono sono crollati l’uno sull’altro a causa di una catastrofe e si stanno dirigendo tutti assieme verso la fine dei tempi. Emerge qui un tratto fondamentale dello spazio post-apocalittico videoludico, per lo meno a livello narrativo: la ciclicità della nozione di apocalisse, di cui parleremo in seguito. In terzo luogo, il Cumulo di rifiuti è disintegrato e caotico, proliferante di tracce e di indizi gettati alla rinfusa: è cioè (c) uno spazio storico ma privo di Storia, un guazzabuglio indistinto che non si presta più neanche a indagini archeologiche, ma soltanto stratigrafiche. Al suo interno la presenza angelico/divina del giocatore è, come quella dei fantasmi che lo popolano, aliena e altra rispetto al resto.12 L’utente è un fantasma ignoto che slitta in uno scenario che non gli appartiene e che del resto lo determina (le scelte che il suo avatar deve compiere derivano solo dalla sua conoscenza dello spazio in cui si muove): l’ambiente è allora (d) il contesto d’una definizione dell’agire che vi si attua.
Rimandiamo alle note in coda all’articolo una sommaria analisi degli spazi di altri videogiochi “post-apocalittici”, ricordando che la nozione di “post-apocalisse” non si limita a scenari post-nucleari o catastrofici ma si estende anche a micro-cosmi familiari, sociali o emotivi. Ci limitiamo qua a citare pochi titoli significativi: Dark Souls (serie, FromSoftware, 2011-2016);13 Bloodborne (FromSoftware, 2015);14 BioShock (Irrational Games, 2007) e BioShock 2 (2K Games, 2010);15 The Unfinished Swan (Giant Sparrow, 2012);16 What Remains of Edith Finch (Giant Sparrow, 2017);17 The Vanishing of Ethan Carter (The Astronauts, 2014);18 Everybody’s Gone to the Rapture (The Chinese Room, SCE Santa Monica Studio, 2015);19 The Town of Light (LKA, 2016).20
Spazi post-apocalittici: desolati, disabitati, catastrofici ma anche irreali, sospesi nel tempo. Dall’alto: uno dei mille volti di Yharnam in Bloodborne; un corridoio desolato di Rapture in BioShock; il labirinto che circonda la cittadella nel mondo pittorico di The Unfinished Swan; una delle stanze ricche di tracce di What Remains of Edith Finch; uno degli scenari dell’indagine di The Vanishing of Ethan Carter; il paesino desolato di Everybody’s Gone to the Rapture; infine una delle sale del manicomio di Volterra come appare in The Town of Light.
A livello iconografico questi spazi sono veri e propri simulacri della contemporaneità: iconizzano cioè lo scenario frammentato e proliferante di immagini entro cui, dalla post-modernità in poi, vengono definiti l’esperienza e la sua narrazione. Occorre però soffermarsi sul modo in cui questi spazi si determinano a livello interattivo prima di trarre le nostre conclusioni.
Lo spazio sfinito, dove nulla accade (perché ogni cosa è già accaduta).
Dallo spazio post-apocalittico e dalla sua desolazione nascono esperienze (del mondo, della narrazione) del tutto peculiari: si sviluppa cioè un discorso che definiremmo indiretto, in cui non esistono interlocutori che mandano avanti una storia ma in cui tutto appare già accaduto, già compiuto, e al giocatore non resta che ripercorrere tracce altrui all’infinito. È un processo che a volte rischia di ridurre l’interazione al minimo e costringere l’utente a non far altro se non muoversi per gli ambienti virtuali, osservare, esplorare ed esaminare oggetti;21 che altrove invece assume una portata più allegorica e speculativa lasciando fino all’ultimo l’impressione di riuscire a modificare il mondo in cui si agisce, donandogli un nuovo presente.
Una differenza sostanziale tra gli spazi post-apocalittici e quelli invece pre-apocalittici (o apocalittici) sta nella presenza o nella creazione di rovine. Nella serie Final Fantasy (1987-2016), per esempio, si assiste spesso alla costruzione di una grande rovina finale: un memoriale che chiude le vicende dei protagonisti consegnandosi, gigantesco e troneggiante, alla Storia. Inequivocabilmente, al di là delle varie interferenze narrative, questo configura quello del gioco come uno spazio pre-apocalittico, in grado di vivere la continua manifestazione di eventi e stravolgimenti. Dall’alto: Final Fantasy VII (Square, 1997); Final Fantasy XII (Square Enix, 2006); Final Fantasy XIII (Square Enix, 2009).
Un simile discorso non può che tramutarsi in una prassi significazionale ben precisa: in cui il rapporto tra fruitore, spazio e racconto non passa più attraverso scambi diretti di elementi significanti, ma in cui lo stesso senso si fa esplicitamente terreno indefinito e cangiante, frammentato, oggetto di negoziazione e speculazione. Scrive Jameson nel suo Il postmoderno:
«(…) [la produzione culturale postmoderna] non può più mirare direttamente a un preteso mondo reale, a una ricostruzione del passato storico, che fu a suo tempo un presente; piuttosto, come nella caverna platonica, deve tracciare le nostre immagini mentali del passato sulle pareti tra cui è rinchiusa»22
Nelle sue parole la natura stratigrafica dell’archeologia immaginale diviene un processo immaginativo. Se è vero che la post-modernità ha sottratto al passato la sua natura storica, facendolo collassare tutto su un medesimo piano spaziale che è “esperienza della fine della storia”,23 altrettanto vero è che il discernimento che voglia addentrarsi in quel passato dovrà per forza passare per un processo finzionale, creativo: l’unico modo per conoscere gli “strati” della Storia è inventarli sulla base di ciò che si è cercato di capire dal marasma, confusamente.
Gli spazi post-apocalittici del videogioco non soltanto ri-enunciano a livello iconografico la percezione delle immagini della contemporaneità, ma ne specchiano i processi conoscitivi e discorsivi. È di nuovo il caso della serie Dark Souls, che non racconta né mostra nulla direttamente al giocatore ma lascia che esso ricomponga la “storia” del mondo a partire da piccole tracce che può trovare o meno durante l’esplorazione, sotto forma di enigmatiche didascalie (un processo significazionale che potremmo dire labirintico o rizomatico).
Un oggetto in Dark Souls, nell’inventario dell’utente, viene descritto in modo tale da aprire un piccolo spiraglio sulla storia del mondo di gioco.
È però anche il caso degli altri mondi virtuali che abbiamo già citato: nella serie BioShock, per esempio, la caotica ricostruzione degli eventi che hanno investito lo scenario prima dell’arrivo del protagonista è affidata a degli audio diari: testimonianze lasciate da chi ha abitato i luoghi del racconto quando erano ancora vivi.
I racconti degli abitanti delle varie città fantasma esplorate in BioShock vengono raccolti e trascritti in uno dei menu a disposizione del giocatore.
Sono ambienti, quelli investiti dalla catastrofe, che non possono più raccontarsi da soli: crocevia desolati in cui l’utente è costretto a vagare nella più completa solitudine, talvolta assediato da nemici privi di intelletto. Nessuno lo aiuta a capire cosa è successo all’ambiente in cui si agita: è come se la catastrofe avesse spazzato via tutto ciò che preesisteva anche a livello semiotico o narrativo. Si perde cioè quella che Jameson chiama “la distanza critica”:
«(…) la cancellazione di ogni sistema di differenze che comporti una qualche profondità: quelle del paradigma ermeneutico (interpretazione/interpretato), psicoanalitico (manifesto/latente), metafisico (apparenza/essenza, o esterno/interno) e semiotico (significante/significato) (…) tutto è sincronico, la riduzione del reale al vissuto superficiale significa una “perdita del passato radicale”, cioè del senso della storia. L’estetica postmoderna ha con il passato un rapporto che tende a far dimenticare o a far saltare i nessi temporali: ci si muove nella storia in maniera puramente “estetica” (…)»24
Non è un caso che gli spazi post-apocalittici siano spesso in bilico tra la realtà o l’immaginazione, sovrabbondino di simboli, cadano volentieri in assunzioni metafisiche o intimistiche trascinando l’utente ora al di là della propria capacità discernitiva e ora invece a capofitto nel vissuto del proprio avatar. Raccontandosi indirettamente, in silenzio, attraverso frantumi da assimilare e mettere in relazione l’uno con l’altro, questi luoghi perdono qualsiasi contatto precostituito con la realtà: non hanno storia, non hanno forma, non hanno tempo. Sono morti e al loro interno non accade nulla che non sia già accaduto in precedenza: sono cioè privi di un presente che, attuandosi, dia loro modo di esprimersi ed evolversi, di darsi un’identità precisa.
L’ambientazione di Silent Hill (Konami, 1999) rientra a pieno titolo nell’accezione di “spazio post-apocalittico” di cui stiamo parlando. Qui il giocatore si trova immerso in uno spazio che è sia interiore che esteriore, aberrante e psicologico quanto demoniaco, religioso, allucinato: ciò che l’utente conclude al termine del viaggio riguardo la natura dell’ambiente di gioco è un assunto del tutto personale.
Lo spazio totale, dove tutto sta per accadere di nuovo.
Lo statuto di questi ambienti è paradossale: sono così confusi da impedirsi una lettura cronologica, così devastati da giacere all’ombra di un passato a ben vedere assente, eppure giacciono in attesa. Come può uno spazio morto attendere?
Un altro spettro, un altro non-morto, ossuto e pallido, con un filo di voce, contempla le rovine del suo mondo e aspetta che la catastrofe spazzi via tutto. (Dal primo contenuto scaricabile di Dark Souls 3)
«Oh, meravigliosa cenere… esaudisci il nostro desiderio. Brucia questo mondo, come dicono le leggende. La mia signora deve vedere la fiamma… non hai che da mostrargliela. Non sei forse una creatura della cenere? Non cerchi forse il fuoco? Avrai sicuramente visto il marcio che assedia il nostro mondo. (…) Esaudisci questo nostro desiderio. Brucia questo mondo, come dicono le leggende.»25
Non sono le uniche parole che, esplorando i villaggi devastati o le torri crollate di Dark Souls 3, sentiamo sibilare da uno spettro impotente e dimagrato circa una nuova, imprecisata catastrofe. Ancora una volta il titolo FromSoftware serve da grimaldello, grazie alla propria esplicitazione, e consente di parlare più ampiamente della spazialità post-apocalittica tutta: la ciclicità della sua narrativa, che tende ogni partita del giocatore tra una catastrofe e l’altra, viene percepita non solo dai fantasmi che popolano i suoi ambienti ma anche, più direttamente, dagli stessi luoghi che il giocatore si trova a esplorare. Come questi spazi desolati sono rovinosi e cosparsi di cenere, collassati l’uno sull’altro e da un universo all’altro, così quel che resta di chi li ha abitati non può che augurarsi una nuova combustione, un nuovo collasso. Ognuno di questi spazi è abbandonato e attende di disgregarsi completamente, di distruzione in distruzione. Di nuovo ci si trova dinnanzi a una ri-enunciazione simulacrale, questa volta dell’idea (tutta contemporanea) secondo cui «ogni epoca abbia il proprio postmoderno», che in ogni età cioè «si arrivi a dei momenti di crisi quali quelli descritti da Nietzsche nella Seconda Inattuale»:
«(…) Il passato ci condiziona, ci sta addosso, ci ricatta (…) la risposta postmoderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato.»26
Uno dei finali di Dark Souls consiste nel rinnovare il ciclo di distruzione e rigenerazione dell’universo narrativo: il protagonista si dà alle fiamme e il mondo attorno a lui inizia a bruciare per poi nascere di nuovo.
Vivendo il sogno di un nuovo medioevo27 questi ambienti non riescono a far altro che riavvolgersi sui propri ignoti, impossibili trascorsi: bramano l’annichilimento da cui si sono originati tanto da tornarvi ossessivamente o da attenderlo all’infinito. Così le mura domestiche di What Remains of Edith Finch o di Gone Home (The Fullbright Company, 2013) si consegnano ancora all’abbandono, la cittadina di Everybody’s Gone to the Rapture torna a tacere assieme al resto del mondo, l’Incubo di Yharnam si ripete all’infinito, la fiamma del ricettacolo di Dark Souls trasforma nuovamente la terra in cenere e così via.
Che siano microcosmi o multiversi, gli ambienti post-apocalittici trasformano dunque l’agire stesso dell’utente che vi fa ingresso, tramutando il fantasma dell’avatar in un ospite o in un’entità agente utilizzata per transitare da un’apocalisse all’altra. La centralità del soggetto, e qua siamo dinnanzi a una nuova ri-enunciazione, appare completamente soverchiata da ciò che lo circonda e lo ingloba. Come lo spettatore mesmerizzato in un gioco di infiniti specchi e frammenti, il protagonista che si immerge nel post-apocalittico viene spesso fagocitato dal suo incubo e si trasforma in una pedina facente parte di un ciclo eterno. Non solo percorre tracce altrui in un mondo privo di eventi, ma si piega al suo ri-divenire infinito. Specchiando la società delle immagini contemporanea, gli spazi post-apocalittici cingono d’assedio lo sguardo esterrefatto di chi vi si addentra, incapace di capirli e di ordinarli dinnanzi a sé, inabile e destinato infine a fare il loro gioco – anche a costo di annullarsi.
Immagini del mondo, immagini-mondo, mondi di immagini.
È opportuno chiudere le nostre riflessioni a partire da alcune parole di Eugeni:
«La mia idea è che l’esperienza del visuale consista esattamente nell’esperire l’immagine – nella sua consistenza e nel suo spessore di oggetto di mediazione discorsiva – come un mondo. L’immagine non è più semplicemente uno strumento [più o meno trasparente] che apre un mondo (…) [essa assume in sé] alcuni aspetti e alcune qualità di un mondo. L’esperienza visuale è caratterizzata dal passaggio di alcune qualità dei mondi all’immagine in quanto oggetto discorsivo. Come il mondo esperito direttamente, l’immagine è ora costantemente soggetta a produzioni e riproduzioni, trasformazioni e interventi diretti da parte del fruitore: è un’immagine che offre e attende occasioni di intervento.»28
Le immagini-mondo di cui abbiamo parlato, che sono a loro volta mondi di immagini (di frammenti), sono anche immagini del mondo. Abitare gli spazi investiti dalla catastrofe, fare cioè esperienza di ambienti pervasivi quanto discorsivi che sono simulacri della contemporaneità, è fare un passo oltre “l’archeologia del presente”:29 trasformare la riflessione in azione, attraversando in prima persona forme di un immaginario tanto recente da vibrarci ancora addosso. È conoscendole ed esaurendole che si potrà forse dire di aver capito qualcosa in più su ciò che ci circonda.
Immergergendoci dalla nostra era “post-postmoderna” in questi simulacri della post-modernità, con lo scopo ideale di immaginare con crescente lucidità il mondo in cui viviamo.
Immagini-mondo nell’immagine-mondo: la hub centrale di Crash Bandicoot 3: Warped (Naughty Dog, 1998) è la Warp Room, una zona divisa in cinque sezioni che consente, tramite la pressione di appositi pulsanti, di teletrasportarsi in mondi/epoche differenti. Dall’Europa alla Muraglia Cinese, dalla preistoria agli anni ’50, i livelli del gioco si presentano come dei globi distorti in cui venir “risucchiati”. Un ennesimo processo ri-enunciativo che trasforma, come si accennava in apertura, la spazialità videoludica in un simulacro della contemporaneità.
NOTE
1. Cfr. Giacomo Marramao, “Spatial Turn: spazio vissuto e segni dei tempi”, in Quadranti. Rivista internazionale di Filosofia Contemporanea, Vol. 1, n. 1, 2013; Jo Guidi, What is the Spatial Turn?, http://spatial.scholarslab.org/spatial-turn/what-is-the-spatial-turn/; Edward W. Soja, Postmodern Geographies, Verso, Londra-New York, 1989.
Andrea Minuz parla di «ricollocazione dello spazio quale segmento decisivo della ricerca umanistica contemporanea» in L’invenzione del luogo. Spazi dell’immaginario cinematografico, Pisa, Edizioni ETS, 2011, p. 9.
2. Gaetano Chiurazzi, Il postmoderno, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2002, p. 16.
3. G. Marramao, 2013, p. 33.
4. Le relazioni diacroniche che legano più mondi visivi sono allora da inferirsi caso per caso, essendo l’immagine priva di statuti grammaticali che rappresentino con precisione il succedersi ordinato degli eventi (a differenza per esempio della letteratura, in cui il solo tempo verbale è sufficiente a collocare diverse unità d’azione in un ordine piuttosto che in un altro). Essa non potrà che ricorrere a convenzioni sintagmatiche: artifici riconoscibili ma ottusi, come la sfocatura che delimita il territorio del sogno o della visione, o come lo spegnersi dei colori che suggerisce allo spettatore che sta guardando un flashback. Cfr. G. Carluccio Cinema e racconto. Lo spazio e il tempo, Loescher Editore, Torino, 1988, 5: Tempo e racconto. I problemi dell’intreccio e del discorso.
5. G. Carluccio, 1988, p. 44.
6. Rimandiamo qui agli articoli che trattano la questione: Alterità virtuale: (ri)pensare il visuale videoludico – parte 1; Alterità virtuale: (ri)pensare il visuale videoludico – parte 2; What Remains of Edith Finch: fantasmi e spazi digitali nell’arte videoludica.
7. Cfr. Ruggero Eugeni, “Il testo globale. L’esperienza dello spazio tra cinema contemporaneo e videogioco”, in (a cura di) Michele Fadda, Corto circuito. Il cinema nell’era della convergenza, Archetipolibri, Bologna, 2011, pp. 77-92: qui Eugeni allinea brevemente la prospettiva di Henry Jenkins, secondo cui gli aspetti narrativi dell’esperienza di gioco derivano dagli aspetti spaziali, e la costituzione di uno spazio “globale” o “reticolare” che subentra alla concezione “tabulare” dell’immagine cinematografica classica; Cfr. Michael Nitsche, Video Game Spaces. Image, Play, and Structure in 3D Game Worlds, Cambridge, The MIT Press, 2008.
8.
Uno screenshot di The Witcher 3: Wild Hunt (CD Projekt RED, 2015) mostra la proliferazione sincretica di spazialità contrastanti di cui parla Eugeni: non solo lo spazio rappresentato del mondo di gioco, in cui l’avatar del giocatore si muove e agisce, ma anche gli indicatori costantemente in sovrimpressione (uno spazio rappresentante): in alto a sinistra inerenti la salute e le varie facoltà del personaggio; in basso a sinistra “mappanti” oggetti raccolti di recente e loro quantità in relazione all’obbiettivo in corso; in alto a destra riguardanti la mappa, il radar, il calendario meteorologico, l’ubicazione della meta da raggiungere; in basso a destra riportanti i vari comandi. Nessuno di questi spazi è indipendente dagli altri: l’ipertrofia di spazialità concrete o astratte è colta in una continua interdefinizione dei “luoghi” che la compongono, che infine formulano un tutt’uno organico.
9. Dall’inglese “Dreg Heap”, “mucchio” di “feccia”, “scarti”.
10. “At the close of the Age of Fire, all lands meet at the end of the earth. Great kingdoms and anaemic townships will be one and the same. The great tide of human enterprise, all for naught. That’s why I’m so taken by this grand sight. This must be what it’s like to be a god”
11. Über den Begriff der Geschichte, trad. it. R. Solmi, in Angelus Novus, Torino, 1962, in F. Rella (a cura di), Critica e storia, Venezia, 1980, pp. 213-214.
12. Rimandiamo qui all’articolo Alterità virtuale: (ri)pensare il visuale videoludico – parte 2.
13. Tutti e tre gli episodi della serie si ambientano (a) in reami dimenticati e in rovina, popolati da spettri o da sagome maledette e prive di memoria, in cui (b) il giocatore entra a far parte di un ciclo eterno di disintegrazione e rinascita, che alla fine del suo percorso determinerà la combustione del regno o il suo progressivo spegnersi; in (c) cui il tempo è distorto e le epoche precedenti s’incontrano con le successive, dando vita a paradossali scontri tra ere immemori; in cui infine (d) la scelta finale del giocatore (di immolarsi e rinnovare il ciclo o rinunciare e lasciare che tutto si spenga) si basa sulla sua comprensione del mondo di gioco e delle sue meccaniche.
14. Bloodborne trasporta il giocatore a Yharnam, una città (a) devastata da un’oscura malattia, che adesso è abitata da bestie e cacciatori spietati; in cui al destino degli uomini e delle bestie si interseca quello di Grandi Esseri lovecraftiani (b) intenzionati a recuperare il figlio perduto che ha dato origine alla piaga e alla Caccia, al fine di estendere all’infinito il dominio del Sogno; in cui (c) entità immonde nascondono i segni e i riti, occultano le cronologie e dissimulano le tracce, lasciando il protagonista a vagare tra i piani e tra le mostruosità quasi senza una meta; in cui (d) la scelta finale di asservirsi al Sogno o meno, tanto confusa quanto decisiva, non potrà che essere figlia del caso o di una conoscenza approfondita del proprio ruolo nella diatriba dèi/fedeli/bestie.
15. In BioShock Rapture è una città sottomarina creata seguendo i principi dell’oggettivismo nel 1946. Qui qualcosa è andato storto: i cittadini sono impazziti, il governo è crollato, energumeni inquietanti si aggirano per le sale e per i corridoi. Il protagonista si addentra in uno scenario (a) devastato e ostile, popolato da pazzi o da nostalgici impazziti e irreali che appaiono soltanto sugli schermi o attraverso i vetri; (b) in cui la guerriglia che ha disintegrato gli equilibri della città è destinata a ripetersi ancora e ancora, e semmai a giungere a un nuovo corto-circuito grazie al nemico di turno; (c) in cui testimonianze e tracce dei tempi che furono sono disseminate alla rinfusa, in assenza di un principio cronologico, accorpate seguendo principi spaziali nelle varie sezioni della metropoli che il giocatore attraversa per tornare alla superficie; (d) in cui il protagonista arriva a conoscere sé stesso soltanto alla fine del suo percorso, quando capisce che la sua presenza nella città è tutt’altro che incidentale.
16. In The Unfinished Swan un bambino perde la madre e si rifugia in uno dei suoi quadri. Qua si trova immerso in un reame (a) disabitato e solitario, il cui re è svanito senza lasciare traccia; in cui (b) cerca una via d’uscita che si scopre essere l’abbandono del quadro, la risoluzione della tragica scomparsa del re; in cui (c) stralci di storia vengono riportati da una voce narrante o da qualche pannello sparso qua e là, nel disperato tentativo di fornire una lettura fiabesca e lineare a un tutt’uno psicologico tutt’altro che organico; in cui (d) l’entità stessa del percorso intrapreso si svela sul finale, quando il protagonista incontra il misterioso re e svela la natura di tutto ciò che ha visto e vissuto durante il tragitto.
17. Rimandiamo qui a quanto si è detto sul titolo in queste pagine.
18. Ethan Carter è sparito e un investigatore si reca alla sua abitazione per far luce sul mistero: qua attraversa (a) uno spazio disabitato e cadente, popolato da spettri e da ricordi; in cui (b) la scaturigine dell’arcano è anche la sua risoluzione; in cui (c) il trascorso del luogo si manifesta tramite allucinazioni o fantasie che si attuano all’interno dello stesso, frammentariamente; in cui (d) il protagonista scopre la sua vera natura solo quando risolve il mistero, disintegrandosi assieme al mondo di finzione in cui ha vissuto (tornando cioè all’arcano iniziale).
19. In Everybody’s Gone to the Rapture si esplora (a) una cittadina disabitata, vittima di un evento catastrofico non meglio precisato a seguito del quale chiunque è svanito nel nulla; (b) ci si barcamena in uno spazio irreale situato, per sua stessa natura, in un tempo indefinito e sospeso oltre l’apocalisse (ma destinato d’altra parte, assieme all’utente, a riviverla all’infinito); (c) si cercano disperatamente spiegazioni passando per segni, indizi, apparizioni metafisiche di bagliori, ricostruendo pezzo per pezzo una manciata di traiettorie personali che altro non rendono che un quadro incompleto e inquietante dell’accaduto; (d) si arriva infine a smarrire completamente l’identità dell’avatar, fantasma vero e proprio che si muove laddove nessuno potrebbe muoversi.
20. In The Town of Light un’ex-paziente torna al manicomio di Volterra, (a) ormai dismesso e desolato, abitato soltanto dai suoi ricordi e allucinazioni, nel tentativo (d) di ricordare un passato ormai rimosso. Qui il suo percorso si svela (b) all’infinita rincorsa di un trauma originario, (c) attuabile soltanto tramite tracce reali o immaginarie, nell’impossibile ricomposizione di un trascorso irraggiungibile, obliterato.
21. È il caso dei tanto discussi walking simulator: titoli, tra cui alcuni di quelli già citati, che si offrono come esperienza spaziale totalizzante – in cui non si può far altro che fare esperienza diretta dello spazio, aggirandosi in esso e abitandolo.
22. Cfr. F. Jameson, “Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism”, in New Left Review, 146, luglio-agosto 1984; trad. it. S. Velotti, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano, 1989, p. 51.
23. Gaetano Chiurazzi, Il postmoderno, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2002, p. 11.
24. Idem, p. 16. Cfr. F. Jameson, 1984.
25. “Ohh, ohh, finally, you’ve come! Oh wondrous Ash, grant us our wish. Make the tales true, and burn this world away. My Lady must see flame, and you have only to show her. You are Ash, are you not? Is it not fire that you seek? Surely you’ve seen the rot that afflicts this world. So, please, grant us one wish. Make the tales true, and burn this world away.”
26. Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, p. 528.
27. Cfr. U. Eco, Dalla periferia all’impero. Cronache da un nuovo medioevo, 1976.
28. R. Eugeni, “L’immagine giocata. Il dibattito sul videogame e la questione del visuale”, Fata Morgana, n.8, 2009, pp. 170-171.
29. Vedi lo speciale Postmoderno e cinema. Nuove prospettive di analisi di Luca Malvasi, pubblicato su queste pagine.