Una sequenza posta subito dopo i titoli di testa offre una chiave di lettura piuttosto chiara del testo-Somewhere [id, Sofia Coppola, 2010].
La star di action movies hollywoodiani Johnny Marco, sdraiato sul proprio letto con un braccio ingessato in conseguenza di un rischioso stunt, assiste alla pole dance (una successione di evoluzioni ammiccanti ed erotiche eseguite a ridosso di una pertica fissata a terra) di due gemelle bionde pressoché identiche.

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Questa sequenza, scandita dalla regista attraverso una rigida alternanza di campi e controcampi incisi sull’asse osservatore-performance, contiene già in sé i tre elementi decisivi che saranno sviluppati dal soggetto di Somewhere.

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La distanza dello sguardo

Anzitutto, Somewhere aderisce ad una forma della messa in scena che Bruno Fornara definisce come cinema «dello sguardo immobile, della fissità del guardare.» Una cifra registica che, sostiene sempre Fornara (alla cui classificazione, per comodità e consapevoli della brutale semplificazione che ciò comporta, ci rifacciamo), insieme al cinema del plan (ovvero, della mobilità) «è ancora il più amato dai registi autori.»1 Se, però, gli «autori» americani di oggi generalmente prediligono proprio un cinema del plan (Scorsese, Malick, Iñarritu, Mann, persino un cineasta “trasparente” come Clint Eastwood sembra avere oramai aderito a questi canoni di rappresentazione con il suo American Sniper [id., 2014]) o di un’ibridazione tra una forma mobile e una fissa (è il caso di Wes Anderson) o tra una forma “trasparente” e una mobile (si pensi a Paul Thomas Anderson oppure, soprattutto, al cinema di Quentin Tarantino che vive di improvvise accensioni in cui la m.d.p. diventa “sguardo metafisico” capace di sospendere, con il proprio movimento, la classica alternanza di campi e piani2), S. Coppola è tra le poche registe (come, solo per certi versi, i colleghi David Fincher e David Cronenberg e, più radicalmente, Paul Schrader o l’ultimo Monte Hellman) ad adottare un regime di osservazione generalmente associabile ad autori europei oppure orientali.

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Somewhere è un film che si fonda su rapporti di sguardo diretti. Apparentemente adottando la convenzione linguistica per eccellenza (la scena come scansione di campi e controcampi), la dilata in realtà fino ad un punto di tensione che rompe lo spazio per far emergere lo sguardo. È proprio attraverso questa elementare modalità di separazione tra il soggetto e l’ambiente che il film decide di raccontare un percorso di progressiva presa di distanza. Alcune scene e sequenze di Somewhere, infatti, sono costruite attraverso il fondamentale avvicendamento (esplicitato dal montaggio) di soggetti osservanti e (s)oggetti osservati che non sanno di essere visti oppure non corrispondono lo sguardo. Così Johnny osserva distrattamente la figlia Cleo (momentaneamente affidatagli dalla madre, da cui è separato) mentre questa non può ricambiare il suo sguardo perché impegnata in una performance di pattinaggio su ghiaccio così come, in un momento successivo e speculare del film, Cleo sbircia, non vista, in direzione del padre impegnato in un’intervista ad una giornalista italiana (intervista che, per Johnny, è esibizione non meno “performativa” del saggio di pattinaggio della figlia).

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Osservatore distratto. Lo sguardo come figura della distanza. 

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Attraverso questa strategia di messa in scena fondata su una distanziazione esplicitata dagli sguardi, Sofia Coppola non visualizza solamente il tema sempiterno dell’alienazione del soggetto nel mondo eterodiretto della macchina hollwyoodiana (già verificabile, p.e., nei lavori metalinguistici di Buster Keaton o in quelli, metariflessivi, di Laurel & Hardy e dei fratelli Marx), ma riflette su come in una società sempre più reificata nel feticcio (la Ferrari del protagonista è un vero e proprio deuteragonista, tanto più che sui titoli di testa si sente il rombo del suo motore) viene a scomparire anche ciò su cui sempre si è retto lo spettacolo: la consapevolezza di essere guardati, di un rapporto di comunicazione attiva con uno spettatore altrettanto presente.
La solitudine di Johnny Marco, di cui forse prenderà definitivamente coscienza nel finale di Somewhere dopo aver salutato Cleo pronta a tornare dalla madre, è il naturale raccolto di una vita in cui l’esercizio dello sguardo è stato “sperperato”, annullato cioè in una ripetizione seriale incapace di posizionare il soggetto nello spazio che abita.
Un guardare senza vedere, proprio come avviene durante la performance di pattinaggio di Cleo.

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Il feticcio

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La ripetizione circolare dell’identico: i due fotogrammi sopra sono tratti da due momenti ben distinti della pellicola.

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La ripetizione circolare dell’identico conduce all’immobilità.

La performance

Il secondo elemento di cui si parlava è proprio quello, già più volte chiamato in causa, della performance.
Al termine della scena citata in esergo, Johnny, cessata la sua coatta funzione (o, forse, la sua ennesima interpretazione) osservazionale/spettatoriale, si addormenta mentre le due gemelle smontano e ripongono la pertica in una sacca, allo stesso modo in cui un operaio riordina i propri attrezzi nella cassetta di latta una volta concluso il lavoro. La performance, lungi dall’essere un evento eccezionale, occasionale, straordinario o inconsueto, è ora un’occorrenza professionale.

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Ricorrendo allo stratagemma paradossale di una messa in scena “osservativa” fondata sul principio precitato della fissità (rallentando, cioè, il tempo filmico) per raccontare un mondo sempre più veloce, l’autrice riesce in un certo senso a immettere sul piano dell’inquadratura la natura vagamente fantasmatica di una società del qui e ora (di cui il microcosmo hollywoodiano è un gigantesco schermo proiettivo, un doppio simulacrale) che impedisce qualunque fuga fantastica.
La performance stessa, avendo perso la sua natura occasionale di evento, si presenta ora come atto inevitabilmente ricorsivo. Eppure, della ripetizione, più che l’infinito catalogo di variazioni e differenze, conta più la sostanza infinitamente replicante. Una replica ininterrotta che ha abbattuto il ponte tra il cinema (la performance d’attore) e la vita, tanto più che quest’ultima, per Johnny Marco, altro non è se non una continua esibizione letteralmente live action (ossessione per l’esibizione in diretta, per la performance live, che a sua volta sembra essere una delle costanti del cinema d’autore hollywoodiano contemporaneo, come dimostrano con massima evidenza gli ultimi due film di Iñarritu, Birdman [id., 2014] e Revenant – Redivivo [Revenant, 2015]).

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Non è un caso che la struttura narrativa di Somewhere sia essa stessa fondata su una microripetizione degli eventi che ricorda, quasi simula, la routine carceraria. In questo senso, la metafora dell’evasione (non solo espressa attraverso l’evento straordinario determinato dal temporaneo affidamento di Cleo e dalla sosta in Italia per la consegna del Telegatto3 ma per giunta ribadita ulteriormente dal breve momento in cui il motore della Ferrari cessa di funzionare per effetto di un grippaggio, provocando l’interruzione delle interminabili traiettorie rettilinee percorse dall’automobile) fa il paio con quella dell’inseguimento che gira a vuoto (presente fin dal titolo). In una breve scena all’inizio del film, infatti, Johnny, preso da uno strano impeto, decide di sfuggire ad una sessione fotografica promozionale ed inseguire una donna affascinante che ha intravisto a bordo di una macchina di lusso. Il suo proposito non va a buon fine e Johnny è costretto suo malgrado a riprendere il flusso preordinato degli eventi della sua vita.

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La condizione cui aderisce Johnny in Somewhere non è, però, solo quella dello spettatore prigioniero ma anche quella del cosiddetto soggetto interpassivo:«nel caso dell’interpassività – scrive Slavoj Žižek – io sono passivo attraverso l’Altro. Concedo all’Altro l’aspetto passivo (il godere) della mia esperienza, rimanendo frattanto attivamente impegnato (posso continuare a lavorare la sera, mentre il videoregistratore gode passivamente del film al mio posto; posso stipulare accordi finanziari circa la fortuna del deceduto, mentre le prefiche si addolorano per me). Siamo così condotti alla nozione di falsa attività: le persone non agiscono solo in modo da cambiare qualcosa, ma possono anche agire per impedire che qualcosa accada, perché nulla cambi.» Condizione critica della sua situazione non è costituita «dalla passività, quanto dalla pseudoattività, dal bisogno, cioè, di essere attivi e di partecipare.»4 Se la sua «incessante attività», la sua «falsa attività» si risolvono, per il protagonista del film, in un cortocircuito della performance che annulla qualunque principio di piacere (il sesso è anch’esso stesso puro meccanismo “atarattico”, tanto più che la regista riprende i momenti erotici senza mostrare effettivamente la concretizzazione del rapporto ma, di volta in volta oscurandolo con il ricorso alle penombre, con l’ellissi del fuoricampo oppure osservandolo a distanza in campo lunghissimo e interrompendolo prima della sua effettiva messa in scena), il film, nell’ultimo terzo, sembra visualizzarne il tentativo di «ritirarsi nella passività e rifiutarsi di partecipare»5 (la fuga dalla cerimonia di consegna dei Telegatti).
Un rifiuto dell’attività – della performance – potenzialmente produttivo, anche se il film termina (o meglio, si sospende) prima di raccontarne gli effettivi risultati.

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La mancata rappresentazione dell’atto del godimento.

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Di nuovo sguardi e performance.

La riduzione all’identico

Il terzo, e più importante, elemento riprende i primi due inscenando però uno scarto ulteriore.
Somewhere, infatti, articola l’intera sua struttura intorno al tema cardinale della riduzione del doppio (quindi, della varietà, della differenza) all’identico.
La scena presa in esame, difatti, non solo prevede due gemelle in tutto e per tutto simili, ma, durante il suo svolgimento, S. Coppola fa in modo che le ragazze si esibiscano con le spalle rivolte ad uno specchio che quasi sempre riflette l’immagine di una sola delle due.

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Sguardi, performance, esibizioni, gesti vengono continuamente raddoppiati attraverso minime variazioni (le gemelle ricompaiono poco dopo vestite da tenniste mentre dopo la loro prima strip dance il protagonista vede al bar una coppia di donne parecchio somiglianti a loro) all’interno di un’intelaiatura narrativa al cui interno, per la prima metà del film, viene installato uno schema di ripetizioni circolari.

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La riproduzione dell’identico, riflessa nella continua duplicazione della «catena visiva», non serve però solamente (e banalmente) a smascherare l’inautenticità della vita di una figura virtuale come quella dell’attore cinematografico, ma, in senso lato, diventa metariflessione sulla natura dello spettacolo. Oggi più che mai avvertibile nella filiera di remake, reboot, narrazioni cross e transmediali o pellicole serializzate (le stesse interpretate da Johnny Marco), l’omegenizzazione del soggetto/dei soggetti originata dalla riduzione all’identico è in verità il punto d’arrivo di una linea teorica che era già stata inaugurata dai film degli anni Sessanta di Jerry Lewis. Precorritore dei tempi nell’aver individuato l’uniformazione e la modellizzazione dell’individuo (e dei suoi bisogni) come conseguenza terminale dell’insediamento della società dello spettacolo e aver gridato il proprio silenzioso canto di ribellione con film come Il mattatore di Hollywood [The Errand Boy, 1961] e soprattutto Le folli notti del dottor Jerryll [The Nutty Professor, 1963] – dove la schizofrenia del protagonista è l’ultima rivolta possibile all’identificazione in un modello identitario preconfezionato – Lewis aveva già compreso allora come il momento fosse maturo «perché l’impossibilità del soggetto di identificarsi con se stesso [divenisse] non tanto materia di riso (lo era già stata con i Keaton e i Chaplin) quanto di ontologia dello spettacolo; e a un punto tale che Lewis girerà nel 1969 Controfigura per un delitto, un film nel quale Sammy Davis Jr. si “traveste” da Jerry Lewis e imita l’attore perfettamente: è il massimo cui [poteva] giungere l’osservazione dello spettacolo e di Hollywood dal punto di vista teorico per quel che concerne l’alienazione del soggetto.» A suggello, il film si trasformava infatti in «un inseguimento di soggetti geminati che ha persino qualcosa di inquietante.»6

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L’immagine-simbolo del film: Johnny Marco, maschera tra le maschere, solo e immobile. 

Certo, il processo di riduzione all’identico si era manifestato con maggior radicalità negli anni Ottanta (da dove sembrano provenire gli action movies interpretati da Johnny Marco), decennio marchiato da una società e da «una cultura che, secondo le parole di Lipovetsky, sono diventate «il regno indifferente dell’uguaglianza». L’assenza di scarto, l’assimilazione del contrastante, l’accoglimento del diverso, la parificazione dell’oppositivo […] sono la figura emblematica»7 Tanto più che – aggiunge Ghezzi – un regista come Cronenberg arriva ad una nuova consapevolezza «giocando con Inseparabili, tra identico e identità, scoprendo nell’identità il peggiore e più inafferrabile dei mostri»8

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Un fotogramma di Inseparabili [Dead Ringers, David Cronenberg, 1988] 

Proprio dalla parificazione tra identità e identico scaturisce l’ultima tensione di cui si fa carico Somewhere. Non è certo un unicum nel cinema americano, visto che, trai molti esempi possibili, un autore come Brian De Palma ha sempre indagato il problema dell’unicità dell’identità individuale passando attraverso la vertigine del suo “artificiale” frazionamento in un numero sempre più fitto di doppi. Il film della Coppola, radicalizzando il modello del suo precedente Lost in Translation – L’amore tradotto [Lost in Translation, 2003], s’interroga, attraverso l’incontro di differenti identità-monadi, sulle maschere vuote del quotidiano e mette in scena la progressiva presa di coscienza, da parte del protagonista, dell’inautenticità della propria vita. «Who’s Johnny Marco?», gli domanda infatti un giornalista nelle prime battute del film, nel corso di una conferenza stampa.

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Una domanda cui il personaggio saprà rispondere solo nella confessione finale al telefono, dopo essere passato attraverso l’abbandono della figlia ed aver raggiunto la consapevolezza della prigione del proprio Io “falsificato” ed eterodiretto, con una dichiarazione tanto drastica quanto, per la prima volta, veramente sofferta:

I’m fuckin’ nothing. I’m not even a person.

NOTE

1. B. Fornara, Geografia del cinema, Rizzoli, Milano, 2001, pp. 250-261 ora in M. Fadda, Il cinema contemporaneo. Caratteri e fenomenologia, Archetipolibri, Bologna, 2009, p. 96 

2. Il movimento di gru (louma) che permette allo spettatore di scoprire la posizione dei prigionieri ebrei nel segmento introduttivo di Bastardi senza gloria [Inglorious Basterds, 2009] o, quello, speculare, in cui viene svelata l’effettiva ubicazione dei sicari nascosti sotto le tavole di legno della merceria di The Hateful Eight [id., 2015] operano un transfert di focalizzazione di sguardo interno, da quello soggettivo/oggettivo dei personaggi a quello onnisciente non solo del narratore-demiurgo ma anche della tecnica incarnata dalla macchina da presa stessa. 

3. Episodio proveniente dai ricordi autobiografici della regista, quando da piccolo accompagnò il padre – il grande Francis Ford Coppola – a ritirare un premio in Italia. Come Coppola, anche Johnny Marco è infatti un italoamericano. 

4. S. Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, pp. 47-48 

5Ibidem, p. 48 

6. F. La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Il Castoro, Milano, 2004, p. 246 

7Ibidem, p. 330 

8. E. Ghezzi, Paura e desiderio. Cose (mai) viste 1974|2001, Bompiani, Milano, 1995/2011, p. 460