Ascolta il podcast su:
Spotify

Nell’episodio, analizzerò Silent Hill [Konami, 1999] a partire, da una parte, dagli studi sul survival horror, con particolare riferimento alla ricerca di Bernard Perron,1 e dall’altra inquadrando il videogioco in una tradizione di racconti (in questo caso interattivi) postmoderni e osservando come, in quanto parte di questa tradizione, simuli anzitutto uno smarrimento, di matrice tecnologica, a posteriori di qualsiasi idea di realtà. Questo, come vedremo, attraverso l’uso del dialogo tra multiple realtà come dispositivo retorico.

Silent Hill racconta di un padre, Harry Mason, che non trova più la figlia Cheryl a seguito di un incidente d’auto e inizia a cercarla per la cittadina che dà titolo al gioco. Nel seguire le tracce della bambina, sempre più simile a un fantasma, il protagonista si trova prigioniero di un incubo in cui il tessuto urbano cambia continuamente faccia, pieno di mostri terribili e allucinazioni. Già nella primissima sezione giocabile esploriamo le vie desolate e immerse nella nebbia della città, sprofondando passo dopo passo in un letterale incubo fatto di ruggine, sangue e corpi irriconoscibili, orribilmente sfigurati. Dopo aver affrontato questa discesa negli inferi, il primo impatto con la versione oscura della città, Harry si risveglia in un diner come se nulla fosse accaduto. Già da questa introduzione il videogioco mette in dubbio, in piena tradizione mind-game fiction,2 la sua stessa realtà narrativa ed esperienziale: non è chiaro che cosa sia reale o immaginato.

All’inizio del gioco non vediamo l’incidente in cui Harry e Cheryl vengono coinvolti. Le scene dell’incidente si trovano soltanto nel filmato di presentazione che precede la schermata iniziale, assieme a una collezione di altre clip prese dai filmati di gioco. Questo rafforza l’impressione che l’incidente, di fatto, non sia mai accaduto. Per anticipare le tematiche di questo episodio, direi che di esso vediamo soltanto le tracce, ovvero il rottame della macchina.

Dopo il primo risveglio nell’incubo, ne segue un secondo al diner.

Il gioco è costellato di risvegli. Oltre a questo, molti personaggi mettono sistematicamente in dubbio la realtà esperita da sé stessi e dal protagonista. 

Harry, assieme a chi gioca, inizia quindi (di nuovo) a cercare la figlia nel centro abitato. Nel farlo si imbatte in vari personaggi – la poliziotta Cybil, il dottor Kaufmann, Dahlia (a capo di uno strano culto religioso) e l’infermiera Lisa Garland; attraversa luoghi cittadini della provincia americana – la scuola, l’ospedale, negozi e bar, abitazioni, musei; di volta in volta si trova a sprofondare in un mondo parallelo che altro non è che una versione oscura e ancora più terribile della città nebbiosa, in cui l’atmosfera sospesa e dismessa della cittadina viene inghiottita dall’incubo.

Due mondi.

Per un’analisi del gioco come racconto postmoderno è opportuno partire proprio dalla descrizione dei due universi a cavallo dei quali si ambienta. Nella sua prima versione, quella negli anni divenuta vero e proprio simbolo della serie e del suo immaginario, Silent Hill è una cittadina di provincia avvolta nella nebbia e carezzata da quello che sembra un incessante nevischio. Dalla nebbia affiorano spazi abbandonati e da questi fuoriescono creature mostruose. Per qualche motivo, la città è rimasta sospesa fuori dal mondo e la nebbia che la avvolge sembra rimarcare questa sospensione. Ciononostante, porta ancora le evidenti tracce di un passato recente: è in questo senso uno spazio post-apocalittico costellato di negozi, abitazioni, luoghi pubblici che raccontano di una vita che ormai non c’è più. Gli unici abitanti della città sono gli sparuti individui in cui Harry si imbatte e con cui interagisce.

La Silent Hill nebbiosa.

Andando avanti col gioco, risaliamo ad alcuni cenni storici che in un certo senso sono utili per avviare una riflessione sulla referenzialità di questo spazio urbano (e narrativo). Scopriamo, approfondendo dettagli disseminati per lo spazio esplorabile, che Silent Hill è una città situata nel Maine, sulla riva del lago Toluca, la cui fondazione risale alla fine del 1600, ovvero all’arrivo dei coloni inglesi sul territorio. In precedenza, dato molto affascinante, l’area era un territorio sacro e rituale per i nativi americani, che le conferirono il nome divenuto poi quello attuale. Già tratteggiata in questo modo, e attraverso questa cronistoria essenziale, Silent Hill appare legata all’immaginario di uno degli autori horror più noti del nostro secolo, Stephen King. Più di uno sono i rimandi all’opera di King: non solo Silent Hill si trova nel Maine come Derry, luogo d’ambientazione di vari racconti e romanzi dell’autore, ma analogamente a quella si rivela ben presto luogo di convergenza tra più piani della realtà, alternativi e confluenti; oltre a questo, la sua storia è segnata da un passato ‘ancestrale’, legato all’origine stessa dell’americanità, che riporta alla mente la presenza inquietante e misteriosa del cimitero indiano preesistente a quello degli animali di Pet Sematary [id., King, 1983] o all’Overlook Hotel di The Shining [id., King, 1977].3 Questo passato ancestrale che «torna per prendersi la propria vendetta» per «le atrocità compiute e le centinaia di nazioni sterminate, o quasi»,4 e che qua assume più il carattere del monito che della maledizione, è diventato un tropo ben noto nell’horror contemporaneo, soprattutto americano. Silent Hill è allora uno spazio che deriva da altri immaginari, in particolare da quello (archetipale) di King.

Devo però rilevare anche una sostanziale discontinuità, per lo meno prospettica, tra Silent Hill e gli immaginari che prende a riferimento. Il videogioco è stato ideato e realizzato da un team di sviluppo giapponese, divenuto poi noto come Team Silent. Differentemente dagli immaginari di King, quello di Silent Hill non è frutto della rielaborazione di uno spazio urbano o suburbano vissuto, abitato e interiorizzato a partire dall’esperienza quotidiana passata e presente. Pur avendo una fonte di ispirazione reale (sono noti i sopralluoghi effettuati dal team nella provincia americana), la cittadina finzionale del Maine è anzitutto frutto dell’idealizzazione (in parte esterofila) di una somma di immaginari letterari, televisivi, cinematografici – uno spazio in questo senso prima mediatizzato che reale, prima referenziale che vissuto. A partire da questa mediatizzazione e referenzialità, non possiamo che riconoscere l’America finzionale del Maine come anzitutto intertestuale e mediatizzato.

La storia della fondazione della città è solo una delle tracce che aiutano a interpretare Silent Hill in questa chiave. Da un punto di vista toponomastico la città è un coacervo di citazioni ad autori, opere o interi immaginari. Ogni via, ogni nome, ogni luogo attiva un circuito vagamente ludico (memory play)5 in cui non possiamo che cercare a ogni svolta di cogliere la prossima citazione, di riconoscere il riferimento successivo. Oltre a questo, la referenzialità dello spazio esplorabile insinua due sospetti in particolare. Il primo, che serpeggia durante tutto il corso della partita, è che lo spazio di gioco altro non sia che un’allucinazione di Harry, o di un limbo post-/pre-morte, in cui il background popolare del protagonista si trova frammentato e menzionato a ogni svolta. Il secondo è che queste citazioni non siano soltanto nominali, ma si portino dietro un significato preciso. Ecco, quindi, che visitare la Silent Hill di nebbia diventa andare costantemente a ritroso nella nostra memoria, nel nostro bagaglio culturale o nel nostro repertorio6 alla ricerca di risposte che, per definizione, non possiamo trovare nel digitale, ma soltanto in altre esperienze mediali. L’esplorazione dello spazio di gioco diventa in sé stessa un processo intertestuale: non solo ci aggiriamo per uno spazio virtuale fatto di asfalto, luoghi dismessi e archetipi dell’America di provincia, ma ci aggiriamo anche per i recessi dei nostri ricordi e nei meandri di frammenti, conoscenze ed echi di cultura popolare che conosciamo. Molte delle interpretazioni che fioccano sul gioco, non a caso, nascono più dalla capacità di riconoscere le tracce disseminate qua e là nello spazio esplorabile che dall’esperienza di gioco in sé. In questo senso, al fianco delle caratteristiche urbanistiche e architettoniche di Silent Hill, è necessario spendere qualche parola anche sullo spazio sonoro del mondo nebbioso.

A livello di toponimi, la mappa della città offre numerosi spunti di riflessione. In vie con nomi allusivi avvengono eventi o ritrovamenti altrettanto allusivi: lo spazio esplorabile è di per sé intertestuale.

Il tema principale del titolo si apre sulla scia della Sour Times dei Portishead. Lo descriverei quindi con le parole che Piero Scaruffi usa per descrivere l’album Dummy del 1994: è una ballata retrò «spettrale e funerea […] dismessa», in cui risulta evidente una rielaborazione kitsch di atmosfere e «identità musicali»7 di altri immaginari, per lo più cinematografici. L’introduzione ricorda quello che nella canzone dei Portishead era un campionamento di Danube Incident di Lalo Schifrin, brano originariamente composto come colonna sonora della serie Missione Impossibile [Mission: Impossible, ideata da Bruce Geller, 1966-1973], e proseguendo nella stessa direzione la traccia si evolve «ispirata alla cultura “junk” dei cocktail lounge, dei film di James Bond, dei film noir».8 Anche le altre musiche trip-hop di Silent Hill sono una citazione più o meno diretta di atmosfere noir. Al contempo, i brani di Yamaoka (sound designer e compositore del gioco) sono «arrangiamenti da camera […] artefatti dallo studio di registrazione» e «turbati da piccole dissonanze, vagiti elettronici, campionamenti mimetici e scratch di giradischi, da battiti sincopati e complessi, e da un costante rombo di basso quasi dub».9 Se l’atmosfera di riferimento è quella televisiva e cinematografica del noir, delle serie d’azione, degli sceneggiati spionistici, gli strumenti di cui Yamaoka si serve per recuperarla sono l’elettronica, il mash-up, la rielaborazione esasperata di suoni originali («pennellati fino a perdere la loro identità»).10

Tra le ispirazioni cinematografiche della colonna si annoverano anche le atmosfere di Twin Peaks, del resto già riconoscibile nel trip-hop dei Portishead (che «[aggiorna] le intuizioni di musicisti come [i] Cowboy Junkies e Angelo Badalamenti»).11 Brani come The Wait (The Rest in Silent Hill Complete Soundtrack (2004)), Far e Otherside sono evidenti riferimenti all’opera di Badalamenti per la serie ideata da David Lynch e Mark Frost. I primi due contribuiscono, come i celebri brani della colonna sonora del serial, a creare un’«identità musicale» basata su «un elemento oscuro, misterioso e premonitore […] che crea un tono ipnotico»,12 «che suggerisce una specie di oscillazione buia e profonda […] sinistra come un rintocco di morte, [che] rafforza [un senso di] dramma e cordoglio e, al tempo stesso, culla con una specie di pianto senza fine».13 Il terzo, più vicino ad Audrey’s Dance, ha invece un mood enigmatico e beffardo.

Anche l’uso di queste colonne sonore nel gioco è in funzione di citazione o rievocazione dell’atmosfera di Twin Peaks. The Wait accompagna il primo dialogo tra Harry e Cybil Bennet trasformando l’alienante scambio di battute in un esplicito richiamo alla Loggia Nera del serial; Far, che ricorda il tappeto sonoro del tema di Laura Palmer, la sentiamo invece durante il secondo incontro tra Harry e Lisa Garland, in cui questa lancia un disperato grido di aiuto (sia l’aspetto della donna che il suo ruolo nel racconto ricordano il ruolo della Palmer nella serie).

Se da una parte l’ambiente sonoro di questa Silent Hill nebbiosa è evidentemente cinematografico, con riferimento particolare ai generi noir e horror, dall’altra calca la mano, sulla scia del trip-hop e della musica di Badalamenti, sull’artificialità dei suoi recuperi – con uso insistente di campionamenti e distorsioni. Nel rievocare gli immaginari cinematografici, la colonna sonora del gioco li rende deformi e mostruosi, perturbanti per quanto familiari. Da questo punto di vista il comparto sonoro del titolo si pone in continuità con il resto dell’immaginario del gioco: entrambi sono referenziali, ma tutt’altro che rassicuranti nel dialogo che instaurano con le fonti da cui derivano.

Parliamo poi del secondo mondo di Silent Hill, l’Otherworld, in cui sprofondiamo nella primissima sezione del gioco al suono di una sirena e poi, sistematicamente, durante tutto il resto dell’avventura. Come già accennato, in questa sua versione oscura la città sembra deteriorarsi, perdere la propria struttura (anche urbanistica) e diventare uno spazio quasi astratto, incoerente, labirintico e irriconoscibile. Al posto delle strade compaiono delle grate rugginose (e non è ben chiaro se siano rugginose o insanguinate), al posto delle pareti si creano cascate di catene e bende, e improvvisamente diventa difficile distinguere l’organico dall’inorganico – il mondo diventa in altre parole uno spazio ‘ginecologico’, come in molti altri survival horror. La città di nebbia di cui abbiamo parlato sopra sprofonda in questo mondo a intervalli quasi regolari, come un congegno a orologeria. All’interno di questo secondo mondo si moltiplicano creature ostili, pericoli, elementi disturbanti o allucinanti, nonché indovinelli e puzzle completamente surreali (si parla per esempio di simboli esoterici, di tarocchi, strane filastrocche – elementi che fioccano durante le sezioni più ‘ludiche’ del gioco, che nel più realistico mondo nebbioso non trovano spazio).

Sopra, il primo impatto (traumatico) con l’Otherworld. Sotto, lo spazio cittadino trasfigurato: oscurità e reti metalliche al posto dell’asfalto.

Per quanto riguarda il comparto audio, in questo secondo mondo Silent Hill la colonna sonora è influenzata da una pletora di gruppi industriali, dai Throbbing Gristle agli Psychic TV (Genesis P. Orridge è citata esplicitamente nel gioco), dagli Einstürzende Neubauten agli SPK. Laddove Badalamenti in Twin Peaks smorza i toni cupi con venature di un romanticismo posticcio o di irriverenza in riferimento al mondo della soap opera, Silent Hill alterna qui ai succitati pezzi trip-hop delle cacofonie horror industriali che sembrano interpretate dai Goblin (Until Death ricorda particolarmente una versione ossessiva e sporca dei brani composti per il Suspiria [id., 1977] di Dario Argento, altri brani ricordano il marasma industriale à la Kanon di The Shining). Assalti rumoristi che richiamano i brani più violenti di Kollaps (1981) degli Einstürzende Neubauten seguono martellanti le discese del protagonista nei recessi più oscuri dello spazio di gioco.

Si è scritto molto di come l’estetica di questa versione di Silent Hill sia ispirata a quella di Allucinazione perversa [Jacobs Ladder, Lyne, 1990], che racconta di un reduce perseguitato da mostri deformi in spazi allucinati. Anche questo è un riferimento intertestuale centrale per l’esperienza del gioco del suo complesso: se alla fine di Allucinazione perversa si scopriva che il protagonista stava vivendo nient’altro che una serie di allucinazioni, analogamente trovarsi in questi luoghi fatti di grate, mostri e più in generale della stessa atmosfera potrebbe far pensare (a chi riuscisse a cogliere il riferimento) che si abbia a che fare con un mondo che anche concettualmente e narrativamente richiami quello del film – quindi un mondo allucinatorio, in cui Harry è morto o quasi morto durante l’incidente d’auto e stia esplorando nient’altro che le proprie allucinazioni come Jacob nel film di Lyne.

Il videogioco recupera le intuizioni estetiche di Allucinazione perversa, ma in questo modo strizza anche l’occhio al suo comparto narrativo.

Un simile sospetto è rafforzato dal fatto che a questo secondo mondo si acceda sempre, o quasi sempre, discendendo o attraversando soglie, elemento che interpreta in chiave spaziale la discesa figurata nella psiche o nell’inconscio, come nota anche Bernard Perron.14 Diversamente da altri survival horror, in cui le traiettorie discensionali conducono a spazi di viscere, in questo caso l’Otherworld è sì un ambiente viscerale, ma in quanto rende di fatto impossibile distinguere tra carne e metallo (viscere carnali e industriali, come vediamo tra poco).

In Silent Hill, ci si muove per lo più verso il basso.

Finali di gioco, verità e interpretazione.

Ora che abbiamo descritto a grandi linee i due mondi di Silent Hill, pensiamo anzitutto alla nostra esperienza a cavallo tra i due e al suo senso ultimo.  Nel tentativo di trovare la figlia, Mason esplora uno spazio di cui non capisce assolutamente nulla e incontra personaggi che sembrano confusi quanto lui o apparentemente privi di senno. Non può che barcamenarsi (e noi con lui), allora, tra interpretazioni anche apertamente discordanti. Come quella di Dahlia e quella di Kaufmann, una spirituale e l’altra scientifica: stando alla prima, la cittadina è vittima di un demone; stando al secondo invece l’orrore è frutto di una strana droga allucinogena (PVT). Entrambe le interpretazioni sono avvalorate non solo dai dialoghi con i personaggi, ma anche da indizi disseminati per lo spazio di gioco.

In ultima analisi, nessuna delle due prende il sopravvento – il percorso di Mason lo porta sempre e comunque lontano da qualsiasi verità ultima sulla città. I vari finali di Silent Hill, che otteniamo in base alle scelte o azioni compiute, «difettano di finalità e sono soltanto provvisori»,15 in quanto portano ognuno a ottenere una verità diversa sul mondo di gioco. In uno si scopre che tutto non è stato nient’altro che un sogno; in un altro che un demone spadroneggia sulla città, come suggerito da Dahlia; in un altro ancora che Harry è morto con tutta probabilità durante l’incidente e il suo è stato il viaggio in un limbo post-morte. A partite differenti corrispondono verità su Silent Hill differenti.

In alcuni finali Cybil è al fianco di Harry, come fosse la proiezione di sua moglie. In altri, Cheryl sembra essere morta da prima dell’inizio del gioco o addirittura non essere mai esistita. Non è soltanto la verità sul mondo di gioco a cambiare di partita in partita e a dipendere dalle scelte dell’utenza, ma anche la back story del protagonista e di chi lo circonda.

A ben vedere, Silent Hill racconta il fallimento di qualsiasi tentativo di fornire una interpretazione finale della realtà. Il gioco fa toccare con mano l’impossibilità di discernimento e la mancanza di una verità ultima mettendoci in condizione di comprendere, di volta in volta, una realtà che contraddice apertamente tutte le precedenti. I Silent Hill cui giochiamo di volta in volta, a ogni nuova partita, sono a ben vedere mondi incompossibili.

Ancora più interessante è il modo in cui otteniamo queste verità non-definitive sul mondo di gioco. Possiamo influenzare il finale del gioco compiendo azioni su cui, a ben vedere, non abbiamo il completo controllo, e di cui non possiamo capire fino in fondo le implicazioni. A una prima partita, per esempio, è quasi impossibile capire come salvare Cybil, azione fondamentale per ottenere uno dei finali. Un’esplorazione frettolosa potrebbe poi costarci la vita di Kaufmann, che se muore ci impedisce di raggiungerne un altro. Alla variazione di eventi nel gioco anche apparentemente marginali (la sopravvivenza di uno o più personaggi principali) corrisponde uno stravolgimento macroscopico della verità di Silent Hill. In alcun modo possiamo capire in anticipo che le nostre scelte, le nostre sviste, o i nostri errori determineranno un cambiamento così grande.

Iluminare l’oscurità.

In Silent Hill siamo spinti in un mondo da incubo fatto di segni, tracce e simboli che provengono da altri immaginari. In questo mondo, ci muoviamo alla ricerca quasi ossessiva di un senso. In questa ricerca falliamo, e analogamente vediamo fallire chiunque come noi stia provando a trovare delle risposte. Giocando, come falliamo così diventiamo testimoni del fallimento di chi ci circonda, e di riflesso testimoni (e artefici) del nostro. Questo si riflette anche su alcune meccaniche di gioco, che vale la pena passare in rassegna prima di procedere.

Lo scarto che separa l’esplorazione in Silent Hill da quella di altri videogiochi simili e precedenti come Resident Evil [Capcom, 1996] è tutto nella gestione della camera di gioco. Mentre altri survival horror classici creano una tensione costante tra campo e fuori campo attraverso l’uso di angoli di ripresa fissi (il motivo per cui Perron definisce il survival horror un genere «filmesco»),16 in Silent Hill l’inquadratura è quasi sempre alle spalle del protagonista e si muove assieme a lui in uno spazio tridimensionale non più inerte, ma in costante affioramento dalla nebbia o dall’oscurità. Scrive Perron:

Per realizzare i suoi ambienti tridimensionali in tempo reale, il Team Silent è sceso a patti con le scarse capacità della PlayStation limitando il campo visivo. La nebbia e l’oscurità vengono usate per nascondere cosa non è ancora rappresentato. Come notato da molti critici, questa limitazione tecnica è poi diventata una delle caratteristiche più amate del gioco. Il senso di oppressione è molto pronunciato. Non vedi mai troppo lontano quando ti aggiri per le strade della città. I margini del campo visivo sono sempre incerti. Ti aspetti sempre di imbatterti in qualcosa di tremendo. Quando finisci nell’Otherworld e le strade diventano grate, ti senti davvero come se camminassi sopra un abisso senza fondo.17

Il fatto che lo spazio sembri letteralmente comporsi attorno al protagonista man mano che questo avanza rafforza l’ipotesi che Silent Hill sia un ambiente interiore.

Non siamo più spaventati da qualcosa oltre il confine di un quadro fisso, ma da qualcosa che è sempre appena un po’ più in là, appena oltre il nostro campo visivo o la zona illuminata dalla nostra torcia. Perron dedica particolare attenzione alla torcia nei Silent Hill, definendola «un dispositivo per drammatizzare lo spazio di gioco»:18 è direzionandola che ogni volta ridefiniamo spazi visibili e non, ed è proprio creando zone d’ombra che ci spaventiamo durante l’esplorazione. La camera alle spalle del protagonista e la possibilità di direzionare la torcia nell’oscurità segnano un cambio di paradigma che poi diventerà fondamentale per i survival horror contemporanei, che aiuta in questo caso a interpretare l’esplorazione del gioco in funzione delle sue finalità narrative. Creando lo spazio che ci circonda attraverso il movimento e proiettandovi all’interno d’ombra di cui aver paura, in Silent Hill diventiamo primi motori della paura, ce la costruiamo – non diversamente da come costruiamo attivamente, da soli, interpretazioni del senso ultimo del mondo di gioco in assenza di una verità ultima. Il gameplay del gioco è in questo senso una metafora dell’esperienza nel suo complesso: ci orientiamo in questa oscurità, creando zone d’ombra di cui spaventarci, proprio come ci aggiriamo nel groviglio di segni alla ricerca di un senso.

La seconda tecnologia che ci aiuta a orientarci nella nebbia e nell’oscurità è la radio. La radio, che troviamo nella sequenza del diner all’inizio del gioco, è rotta eppure inizia a emettere staticità. Nel momento in cui la raccogliamo, veniamo attaccati da un mostro. Di qui in poi, la radio segnala attraverso del rumore bianco i mostri in avvicinamento. L’utilità dello strumento si associa, in questo caso, all’implicito contrasto che si genera tra tecnologia digitale (il videogioco) e analogica (la radio appunto). Silent Hill associa il rumore-simbolo di una tecnologia analogica a una minaccia incombente: i mostri sono quasi sempre sentiti prima che visti. L’associazione, come nota Kirkland, è anzitutto tra tecnologia pre-digitale e mostruoso, deforme o sovrannaturale.19 In Silent Hill siamo perseguitati da tecnologie che provengono dal nostro passato – oltre alla radio, frequente è la comparsa nel gioco di televisori, per esempio.

Il passato pre-digitale, nel videogioco, è associato a paura, vulnerabilità e mancanza di controllo.

Questo è indice anche di come, nel gioco, il passato stesso venga sistematicamente demonizzato: la provincia americana (facente riferimento all’immaginario infantile/adolescenziale di King); la scuola (con bambini che impugnano bisturi); i disegni infantili che sembrano partorire mostri. Più che originarsi dalla psiche di qualcuno, il mondo di gioco sembra scaturire dagli orrori dell’inconscio collettivo. Tra questi orrori, due in particolare percorrono trasversalmente le ambientazioni della cittadina e del suo doppio oscuro.

Tra Chernobyl e l’incubo industriale: due chiavi di lettura.

Il passato «infesta»20 le ambientazioni di Silent Hill. Come quello tecnologico sembra demonizzato dall’uso che nel gioco si fa di radio e televisione, o quello personale da una sistematica deformazione dell’età infantile, così il gioco sembra rievocare in più modi un passato collettivo culturalmente, socialmente e politicamente definito. Da una parte, come già detto la cittadina nebbiosa è un vero e proprio impero dei segni in cui confluiscono i riferimenti più disparati, che partecipano al vero e proprio labirinto dell’interpretazione del gioco. Dall’altra, la città di nebbia e quella oscura rimandano a due immaginari che hanno un rapporto fondante con il passato.

La prima, come tutti gli spazi cittadini grigi, desolati e abbandonati a causa di un disastro artificiale, non può che ricordare Pryp”jat’ e altri centri abitati appartenenti alla zona di esclusione nei dintorni di Chernobyl, evacuati nel 1986. Negli anni, la città fantasma sovietica è stata associata tanto alla minaccia nucleare quanto al fallimento della Russia socialista.21 È del tutto significativo che Silent Hill sia allora uno spazio reminiscente di un disastro tanto lontano dalla provincia americana, e che trasponga nei luoghi del consumismo tanto il tecnopessimismo e il senso di sfiducia verso un cosmo sociopolitico totalitario propri dell’immaginario di Chernobyl. La Silent Hill nebbiosa, in questo senso, è uno spazio di sincrasi tra ricordi collettivi confusi e distanti.

Dall’altra parte abbiamo l’Otherworld. Che si tratti di uno spazio interiore, spirituale o allucinatorio, esso ci si presenta come un antimondo marcatamente industriale. È importante distinguere questo scenario da quello, più pervasivo, delle rovine industriali. Spesso le rovine vengono recuperate con finalità di mera estetizzazione (ruin porn). Invece in Silent Hill l’industria è sì astratta, ma in piena funzione. Non è inerte, in rovina, ridotta a immagine e privata del proprio valore storico, politico o sociale.22 È una macchina in funzione di cui ogni volta sentiamo avviarsi i motori (che non vediamo mai). Questa dimensione ha i caratteri propri dell’allucinazione apocalittica: come la prima musica industrial, rappresenta la tecnologia come un incubo come solo i più cupi romanzi fantascientifici e distopici.23 E non tutta la tecnologia, ma specificamente una tecnologia passata, analogica, che affonda le radici nelle due rivoluzioni industriali.

Entrambe le anime di Silent Hill sono allora «infestate»24 dal passato – un passato implicitamente o esplicitamente tecnologico: implicitamente nel caso della città nebbiosa, che rimanda a uno spazio desertificato dalla tecnologia; esplicitamente nel caso del mondo industriale, che è un mondo macchinizzato. Come nota Kirkland, spesso i videogiochi horror ri-mediano un passato tecnologico (tramite oggetti e tecnologie, in questo caso tramite ambienti e musiche) per far leva sulla verosimiglianza e rimandare al “reale”, che invece nel digitale tende a scomparire o diventare fantasmatico.25 In questo senso, Silent Hill insiste sul tecnologico (e sulla sua demonizzazione) come insiste sulla carne, anch’essa fonte di paura (martoriata, rigonfia, deforme) – entrambe queste ossessioni segnano il tentativo di recuperare e al tempo stesso demonizzare una realtà che il digitale inevitabilmente esclude.

In vista di queste caratteristiche dei due universi di Silent Hill, vorrei proporre due letture ulteriori.

La prima è esistenzialista. Questo continuo alternarsi di spazi urbani (uno nebbioso e desolato, l’altro scarnificato e astratto) ricorda le fissazioni ambientali e iconografiche del cinema noir, che di riflesso riaggiorna la tensione tra spazio e soggetto della tradizione gotica. Come in un film noir, Harry Mason è un «protagonista alienato»26 imprigionato in un immaginario pessimista,27 che lotta contro un fato avverso e che si muove in uno spazio cittadino labirintico28 scandito da luoghi come bar, nightclub, ma soprattutto da scenari industriali che ricordano raffinerie, fabbriche, scali ferroviari.29 Come Silent Hill è influenzato dall’estetica e dai racconti horror americani, altrettanto lo è dall’estetica e dai racconti noir. Ed è proprio attraverso il transito tra lo spazio cittadino alienante e l’incubo industriale che Silent Hill diventa una riflessione sulla contemporaneità, riaggiornando le preoccupazioni esistenziali30 del film noir allo scenario virtuale. Ripercorrendo il solco del noir, Silent Hill fa smarrire il protagonista (e noi con lui) in spazi urbani labirintici e bui, in cui cercare un senso che non viene dato. Come il protagonista noir, Harry Mason è prigioniero di un mondo che sembra residuo e traccia della realtà, ma da cui non c’è uscita.

Personaggi smarriti nella nebbia nel cinema noir. La polizia bussa alla porta [The Big Combo, Lewis, 1955].

La seconda chiave di lettura che propongo è quella tecno-pessimista. I due spazi di Silent Hill lo fanno oscillare tra post-apocalisse e apocalisse, tra deserto tecnologico e fobia per la macchinizzazione. Il videogioco ci immerge in uno spazio referenziale che viene continuamente inghiottito dal suo calco industriale – ovvero mostra il rovescio della medaglia della somma di frammenti e riferimenti intertestuali, dell’’impero dei segni’ in cui viviamo, facendolo sprofondare (e bruciare, e arrugginire, sorte che tocca sistematicamente agli edifici della città) nell’oscurità. Il gioco immagina che la nostra cultura e la nostra sensibilità, il nostro annaspare (rigorosamente post-apocalittico e post-moderno) nel mare magno di tracce, possano da un momento all’altro portarci a un non meglio specificato olocausto tecno-industriale. Che in qualche modo la tecnologia che rende accessibile quell’universo di segni e riferimenti possa giungere al collasso, o mescolarsi alla carne e farci piombare all’inferno, in una chiara prospettiva tecnofobica e nichilista.

Entrambe le letture contribuiscono a configurare l’esperienza di gioco come metafora. Per una lettura metaforica di Silent Hill, però, è necessario soffermarsi sul perno attorno a cui ruota tutta l’esperienza del gioco: Harry Mason. Analizzare la sua figura (da un punto di vista narrativo quanto fenomenologico) servirà a chiudere questo episodio.

Gioco come metafora.

Harry è un fantoccio confuso e sospeso tra più realtà, tanto a livello concettuale (non capisce bene se sua figlia esista o meno, se sua moglie esista o meno) che esperienziale (si trova costantemente ad attraversare le due realtà del mondo di gioco). Questa sospensione trova nell’interpretazione fenomenologica del videogioco un corrispettivo diretto: in quanto avatar, Harry è sospeso anche tra la nostra realtà e quella del gioco. È a partire da questo spunto fenomenologico, ovvero da Harry in quanto avatar, che voglio proporre una lettura metaforica del gioco che intrecci tutte le dimensioni citate fino a ora.

In quanto fulcro di interazione, il corpo dell’avatar incorpora generalmente la nostra possibilità di agire nei mondi virtuali. Al tempo stesso, l’avatar è intrinsecamente ambiguo – in quanto al contempo, per esempio, oggetto di visione e soggetto d’azione, oppure sé e altro-da-sé rispetto a chi gioca. In ambito di avatar studies, la sospensione di queste figure tra numerosi domini è fondamentale e diventa campo d’indagine d’elezione. Sulla scia di molti accademici che approcciano l’idea di avatar a partire da prospettive transumaniste, definirei l’avatar come un cyborg: il corpo virtuale è estensione di quello reale, e ne estende le capacità percettive e di azione in uno spazio (appunto) virtuale. Controllare un avatar, da questo punto di vista, è tanto fare esperienza al di là dei limiti del nostro corpo reale quanto toccare con mano quello smarrimento, quel distacco dal sé che è proprio del virtuale. Harry Mason è sotto il nostro controllo, è vero, ma decide lui quando parlare. È lui a scegliere cosa fare in determinate situazioni e come reagire in altre. Videogiocare, in questo senso, è fare esperienza di un sostanziale distacco, di matrice tecnologica, dal nostro corpo.31 È su questa prospettiva che riflettono anche i numerosi studi sul perturbante nel rapporto utente-avatar.

L’ambiguità fenomenologica di Harry Mason è resa ancora più esplicita da quella narrativa: Harry è una delle probabili menti artefici degli orrori che affrontiamo a schermo; è un soggetto inaffidabile – vediamo mostri dalla sua prospettiva, ma potrebbero essere umani e questo un suo delirio; è privo di un passato e di una psicologia; è assolutamente smarrito, violento e idiota. Incarna, anche da un punto di vista narrativo, la paura di smarrire noi stessi. Harry Mason è il dispositivo, tanto fenomenologico quanto narratologico, attraverso cui prendiamo le distanze dall’organico e ci smarriamo in un incubo incomprensibile fatto di segni, echi passati e incubi macchinizzati.

Anche i titoli successivi della serie daranno particolare attenzione all’ambiguità dell’avatar. Nell’immagine, Silent Hill 3 [Konami, 2003].

L’atto stesso del giocare in Silent Hill diventa in questo senso metaforico, facendo collassare la dimensione diegetica e quella extra-diegetica (ovvero l’incubo industriale e l’esperienza virtuale). Giocando, siamo alle prese con gli stessi orrori che Harry affronta durante la sua avventura: siamo alle prese con un multiverso incomprensibile, popolato di segni, in cui la realtà non esiste se non attraverso tracce o fantasmi, e che possiamo attraversare soltanto diventando, almeno in parte, ciò che temiamo di essere. Silent Hill (città) è in questo senso metafora di Silent Hill (testo), proprio come Harry (personaggio) è metafora di noi che lo controlliamo.

Silent Hill è la perfetta sublimazione dell’immaginario postmoderno nel videogioco: un mondo di riferimenti a posteriori della realtà, in cui essa non appare che come traccia fantasmatitca o eco; un mondo che collassa di continuo, percorso sistematicamente dal terrore della macchinizzazione; in cui si agitano personaggi (e avatar) che non capiscono nulla e che soffrono soltanto, a rischio di perdersi tra i segni e tra i fantasmi del reale. E noi con loro.

Tutte le immagini del gioco in alta risoluzione sono state prese dal canale Youtube Shirrako.

NOTE

1. B. Perron, Silent Hill, The Terror Engine, Ann Arbor: University of Michigan Press, 2011.

2. Prendo in prestito ed estendo l’idea di ‘mind-game film’ introdotta dallo storico cinematografico Thomas Elsaesser per descrivere tutte le opere di finzione che presentano «i modi di vedere, di interagire con altri personaggi, e più in generale lo ‘stare al mondo’ [di personaggi inattendibili] come normale, [In questo modo] ‘giocando’ con la percezione della realtà del pubblico (e dei personaggi stessi)» (T. Elsaesser, The Mind-Game Film. Distributed Agency, Time Travel, and Productive Pathology, New York: Routledge, 2021, p. 90).

3. Per una riflessione più completa e documentata sul tropo del cimitero indiano nell’horror contemporaneo, vedi Nosowitz, D. (2015) Why Every Horror Film in the 1980s Was Built on ‘Indian Burial Grounds’: https://www.atlasobscura.com/articles/why-every-horror-film-of-1980s-was-built-on-indian-burial-grounds.

4. Ibid.

5. Vedi S. Arnold-de Simine, Beyond Trauma? Memories of Joi/y and memory play in Blade Runner 2049, Memory Studies, 12(1), 2019, pp. 61-73.

6. W. Iser, The Act of Reading: A Theory of Aesthetic Response, John Hopkins University Press, 1978.

7. Uso liberamente un’espressione di Angelo Badalamenti, cfr. A. Halskov, ‘“A marriage made in heaven”: The music of Twin Peaks according to composer Angelo Badalamenti and music editor Lori Eschler Frystak’, Series, 2(2), 67-72, 2016, p. 69.

8. Ibid.

9. Ibid.

10. Ibid.

11. Ibid.

12. A. Halskov, op. cit.

13. Chion, M. (1995) David Lynch, London: The British Film Institute, 117.

14. B. Perron, op. cit., p. 38.

15. B. Perron, op. cit., p. 4.

16. B. Perron, op. cit., p. 22.

17. Idem, p. 27.

18. Idem, p. 70.

19 E. Kirkland, Gothic Videogames, Survival Horror, and the Silent Hill Series, Gothic Studies, 14(2), 2012, p. 115.

20. J. Derrida, Spettri di Marx, Cortina, 1994.

21. Dobraszczyk, P. Chernobyl Diaries: Monuments, Ruins, Memories, in Pizzi, K. e Hietala, M. (a cura di) Cold War Cities: History, Culture and Memory, Oxford: Peter Lang Verlag, 2016.

22. Vedi E. C. Chan, What roles for ruins? Meaning and narrative of industrial ruins in contemporary parks, Journal of Landscape Architecture, 4(2), 2009, pp. 20-31.

23 Parole con cui Piero Scaruffi descrive la Industrial Music: https://www.scaruffi.com/history/icpt48.html.

24. Di nuovo, con riferimento a Derrida.

25. E. Kirkland, E. Resident Evil’s Typewriter: Survival Horror and Its Remediations, Games and Culture, 4(2), 2007, p. 116.

26. J. Naremore, More Than Night: Film Noir in Its Contexts, Berkeley, Los Angeles, Londra: University of California Press, 2008, p. 25; A. Lyons, A. Death on the Cheap: The Lost B Movies of Film Noir, New York: Da Capo, 2000, p. 10.

27. J. Naremore, op. cit., p. 37.

28. F. Hirsch, The Dark Side of the Screen: Film Noir, New York: Da Capo, 2001 [1981], p. 17.

29. A. Ballinger e D. Graydon, The Rough Guide to Film Noir, Londra: Rough Guides, 2007, pp. 217-218.

30. Sui tratti esistenziali della cinematografia noir si è discusso ampiamente. Vedi per esempio W. Brevda, “IS THERE ANY UP OR DOWN LEFT?” Noir and Existentialism, Soundings: An Interdisciplinary Journal, 89(3/4), 2006, pp. 321-346.

31. Il distacco è momentaneo, illusorio e partecipato. Non sto in altre parole assumendo che videogiocare significhi rinunciare alla realtà. Piuttosto, sulla scia dell’interpretazione postfenomenologica dei mondi virtuali e del concetto di cerchio magico in game studies, direi che la realtà durante il gioco viene ‘messa tra parentesi’, seppur momentaneamente.