«Il festival a cui lavoriamo con passione dal 2010 è oggi, come speravamo, un luogo di dialogo e di confronto tra persone interessate non soltanto all’ambito del Cinema, o a quello della storia e della cultura lgbt, ma uno spazio per tutti per provare a stare nel proprio tempo con uno sguardo libero e critico.»1
Palermo ha accolto la settima edizione del Sicilia Queer FilmFest dal 24 maggio al 1 giugno, che ha mostrato con la sua consueta accuratezza la via per una lettura a 360° dei motori più importanti del cinema del contemporaneo. Il termine queer, classicamente indicativo di un omosessuale (specialmente uomo2), è in questa occasione da intendere nel suo significato più esteso e generale, cioè un aggettivo indicante qualcosa di «strano e insolito»2. Infatti, da quando due anni fa è scomparso dal sottotitolo del Festival la dicitura International LGBT, il Sicilia Queer ha intrapreso una strada più onnicomprensiva che oltrepassa il rischio della mera tematica e cerca di proporre un cinema che sia queer nell’accezione più generica del termine, appunto, quella di un cinema che non si vede tutti i giorni.
Manifesto Sicilia Queer FilmFest 2014.
Manifesto Sicilia Queer FilmFest 2017.
Non voler concentrare l’attenzione su una tematica ma trovare il corrispettivo della stessa nella forma filmica è un obbiettivo che non rigetta comunque la struttura del festival a tema. Pur proponendo un cinema che in maniera più pregnante intreccia un dialogo con lo spettatore per portarlo fuori dagli schemi, il Sicilia Queer non ha mai negato del tutto la matrice di festival lgbt, solo l’ha canalizzata in una direzione che indaga la percezione e il linguaggio come ingredienti di base per un approccio esaustivo e consapevole della Settima Arte (nonché per uno stile di vita più tollerante). Lo dimostrano visioni come The Love Witch [id., Anna Biller, 2016] o Spectres Are Hauting Europe [id., Maria Kourkouta e Niki Giannari, 2016], nel primo caso interessate al destino di un genere iconico degli anni ’60 e ’70 negli Stati Uniti e che oggi si mostra come oggetto alieno, nel secondo caso dirette verso una rieducazione dello sguardo tramite una “messa in scena morale”.
Gli ambienti grigi e agorafobici nel documentario Spectres Are Haunting Europe.
Il film di Kourkouta e Giannari è infatti un invito quasi primordiale a riscoprire la luce che conduce «il prigioniero verso quelle che Ernst Bloch, ne Il principio speranza, avrebbe giustamente chiamato ‘immagini-desiderio’ o ‘immagini-speranza’, ovvero quelle immagini capaci di servire da prototipi per l’oltrepassamento del limite»3.
Il cinema proposto al Sicilia Queer FilmFest, conducendo lo spettatore verso un’ardita visione del mondo e della Settima Arte, di fatto ambisce a liberare i prigionieri-spettatori dalle convenzioni, e re-invitarli alla responsabilità.
La forma queer
Durante un intervento immediatamente precedente alla proiezione dei suoi cortometraggi di esordio, il regista portoghese naturalizzato americano Gabriel Abrantes ha dichiarato che il modo migliore per mettersi in discussione è provare a distruggere ciò che riteniamo importante. Nel suo corto, Olympia I & II [USA 2006], Abrantes personalizza la destrutturazione iconografica della Pop Art warholiana per demolire l’icona manet-iana del dipinto Olympia, mettendo in gioco lo sguardo desiderante dello spettatore.
Questa è la direzione di un festival che offre allo stesso modo allo spettatore la possibilità di ritrattare le sue posizioni, conducendolo alla scoperta di una forma Queer che, come dimostra la grafica della VI edizione del festival, è spezzettata, cubista, mutante, ma reale e percepibile.
La riscoperta del linguaggio cinematografico come viatico per una maggiore comprensione delle dinamiche socio-politiche è evidente, oltretutto, nel cinema di Claire Simon, in particolare in Le bois dont les reves sont faits [id., 2015], proposto alla VI edizione del Festival. In questo film, Simon si introduce con uno sguardo imparziale in un mondo che conosce, e ne mostra le amare contraddizioni, aprendo il genere documentario non all’esposizione di un fatto, ma alla possibilità di un evento. Ciò si denota ancor di più in Le concours [id., 2016], in cui seguiamo le prove e i colloqui che aspiranti cineasti affrontano per entrare nella scuola parigina Le Fémis. La regia è distaccata, ma l’incapacità di sapere cosa effettivamente succederà (l’esito delle prove) dà la percezione palpabile di un reale aguzzo e pieno di misteri, un reale ancora da definire.
Come scrive Richard Dindo, «[Claire Simon] trasforma il reale in una finzione che ridiventa di nuovo reale. Il suo lavoro è questa stessa trasformazione, questo rovesciamento in ogni istante della materia filmata e pura in materia di finzione»4. Dunque, raggiungendo quella «finzione necessaria» di cui parla Dindo, i film di Claire Simon trattano della costruzione stessa dell’immagine filmica, e di come essa rappresenta il reale. Il confine tra reale e immaginario è qui flebile, deforme, penetrabile, queer.
L’icona queer
Nel film O Ornitologo [id., João Pedro Rodrigues, 2016], Fernando/Antonio, preso in trappola da due pellegrine cinesi, viene legato in piedi con delle funi in una posa che ricorda l’iconografia cristiana di San Sebastiano.
O Ornitologo.
San Sebastiano, Antonello da Messina.
Dice Rodrigues a proposito di questa scelta: «Ho sempre trovato molto interessante lavorare con i miti, e non solo con quelli portoghesi. Durante la dittatura portoghese, finita nel 1974, la religione era uno dei simboli, uno dei pilastri del regime. Ecco perché pensavo che sarebbe stato interessante concentrarmi su uno dei simboli cattolici più importanti per il Portogallo, Sant’Antonio; un santo in un costante stato di trasformazione»5.
Tutto il festival quest’anno, come anche negli anni passati, ha mostrato come chiave di lettura del cinema contemporaneo queer (quindi, del cinema contemporaneo tout court) la trattazione dell’icona come di un’immagine di cui si voglia indagare il suo impatto sulla coscienza dello spettatore, fuori dal raziocinio. Nel caso di Uncle Howard di Aaron Brookner [USA, 2016], la mitologia è quella contemporanea della New York anni ’70, quella dei volti di William Burroughs, Allen Ginsberg e Frank Zappa. E, nella sfida di proporre un’icona contemporanea, la mitologia nel documentario Les vies de Thérèse [Francia, 2016] di Sébastien Lifshitz è tutta nel volto scavato dagli anni e dall’esperienza della femminista Thérèse Clerc.
Secondo questi autori, creare un gruppo di immagini indelebili per la coscienza dello spettatore permette un legame più intimo tra percezione del singolo e pellicola, un’immediatezza che supera la razionalità per diventare un tutt’uno con l’immagine. L’evento si spoglia del suo significato e rimanendo sospeso davanti agli occhi dello spettatore si riempie di un’atmosfera fantasmatica.
La strada verso l’icona, nel cinema di Gabriel Abrantes, è la citazione e la rielaborazione del già esistente, allo scopo di creare un immaginario apolide, anarchico e, paradossalmente, iconoclasta. Il genere in Abrantes è destrutturato nella sua forma spettacolare-hollywoodiana (come in The Love Witch), o anche nella sua dimensione più autoriale. Si riconoscono infatti in Palácios de Pena [id., Gabriel Abrantes, 2011] atmosfere tarkovskjiane, in un dilemma familiare di formato quasi shakespeariano e dall’andamento pasoliniano. In un collage di significanti che rimandano ad altro, in quella che potremmo definire una foresta di simboli, il Sicilia Queer VII ha riproposto con forza la Settima Arte come edificatrice di un immaginario post-moderno di nuovi simulacri.
I colori e le atmosfere tarkovskijane in Palacios de Pena di Gabriel Abrantes.
Il fantasma queer
Se l’iconoclastia è sfumata nell’approccio anti-hollywoodiano nel cinema di Gabriel Abrantes, è invece immersa nell’assenza di qualsiasi compromesso nel cinema di Bruce LaBruce, in cui femminismo violento, nazismo e comunismo estremo si fondono in una demenza nonsense. In The Misandrists [id., Bruce LaBruce, 2017], l’assunzione a simulacro della politica femminista portata avanti dal personaggio principale, la Grande Madre, è rappresentato metalinguisticamente dalla realizzazione del porno lesbico finale, dunque dal cinema stesso; e sfonda le barriere della forma-cinema in Ulrike’s Brain [id., Bruce LaBruce, 2017], improvvisato pout-pourri schizofrenico e digitale.
La costruzione di nuove immagini a discapito di altre ha caratteristiche meno eversive ma altrettanto criptiche e inquietanti in Rester Vertical di Alain Guiraudie [id., 2016], in cui l’invito all’azione del titolo non è tanto una forma di orgoglio resistenziale al cospetto delle disgrazie della vita, quanto piuttosto l’intenzione di concedere al film una linearità narrativa al cospetto di una realtà grottesca e infida, in cui l’uomo è incapace di canalizzare in schemi quali civiltà o socialità il suo invadente desiderio. Il film di Guiraudie dialoga con la pellicola e l’immanenza filmata riflettendo direttamente sulla struttura di sé, attingendo all’invisibile e al non-percepibile come nel cinema di Bruno Dumont.
Se dunque i personaggi di questo Sicilia Queer, errabondi come in Jours de France [id., Jerome Reybaud, 2016] o incapaci di definirsi nel reale come in The Beach House [id., Roy Dib, 2016], diventano inesorabili fantasmi di un’era contemporanea liquida e fuori dalla Storia (irriverentemente presente, ma assunta a mitologia, in Storia di Piera [1983] e Il futuro è donna [1984] di Marco Ferreri), è quando un intero film diventa un fantasma che la percezione dello spettatore può dirsi definitivamente annichilita.
In Stereo_verso Infinito: Unfixed #26, progetto del collettivo catanese canecapovolto, il montaggio cambia ogni 40 giorni, e l’opera letteralmente vive e muore in questo stesso lasso di tempo, proponendosi come cangiante e fantasmatica, un viaggio perturbante all’interno dei molteplici punti di vista del reale.
In Antiporno [id., Sion Sono, 2016] la vita stessa di Kyoko diventa, come con Nikki in INLAND EMPIRE – L’impero della mente [INLAND EMPIRE, 2006] di David Lynch, un labirinto fra i suoi sogni e le sue realtà, in una trappola-immagine senza scampo.
Quando su Kyoko vengono rovesciati quintali di colori e inchiostri, il suo corpo ha perso qualsiasi consistenza fisica ed è rimasto intrappolato nell’arte.
E infine, in Sarah Winchester, opéra fantôme [id., 2016] di Bertrand Bonello, è direttamente tutto il film a rischiare di non esistere.
Come ci ricorda quest’ultima edizione del Sicilia Queer FilmFest VII, c’è un invisibile, dietro il reale e sulla superficie del reale, che come nell’opera di Bonello può plasmarsi con ciò che è tangibile in qualsiasi momento. È una continua migrazione fra dimensioni, che rende l’universo percettivo anomalo, insolito, queer, come l’ascesi mistica del corpo pesante e sanguinante dell’artista performer Franko B (protagonista al Sicilia Queer FilmFest VII con una mostra), che «trascende se stesso, per giungere ad una elevazione spirituale che nel suo caso sembra essere inversamente proporzionale al dolore e allo sgomento fisico: come in un contrappasso, più il corpo vira verso la carne, maggiore è la vicinanza con il sublime»6.
NOTE
1. Editoriale – Catalogo Sicilia Queer FilmFest VII.
2. Oxford – Advanced Learner’s Dictionary.
3. Georges Didi-Hubermann, Introduction, in Id., Soulèvements, Gallimard/Jeu de Paume, Paris 2016, pp. 13-21.
4. Richard Dindo, Images Documentaires, n° 65/66, 1er et 2ème trimestre 2009.
5. «I’ve always found it really interesting to work with myths, and not only Portuguese myths. During the Portuguese dictatorship, which ended in 1974, religion was one of the symbols, one of the pillars of the regime. This is why I thought it would be interesting to focus on an essential Catholic symbol for Portugal, Saint Anthony; a saint in a constant state of transformation.»
Muriel del Don, Intervista a Joao Pedro Rodrigues, CinEuropa Film Comics 10/08/2016.
6. Paola Nicita, Love Letters per/for Franko B., Editoriale Sicilia Queer FilmFest VII.