Saint Omer [id., Alice Diop, 2022], Leone d’argento e Premio opera prima al festival di Venezia 2022, è un film che si basa su continui sbalzi prospettici, stilistici (legati al susseguirsi di riprese statiche e ad attimi, rari ma significativi, in cui viene invece usata la camera a mano), narrativi (con un ritmo alternativamente dilatato e incalzante) e registici (legati al blocking, e quindi al posizionamento dei personaggi all’interno del frame, così come alla direzione delle due attrici) volti a moltiplicare l’impatto di una narrazione apparentemente scheletrica sullo spettatore. La sinossi del film è infatti presto riassunta: al fine di trovare ispirazione per il suo nuovo romanzo, Rama (Kayije Kagame), giovane scrittrice e professoressa universitaria di origini senegalesi, decide di seguire un processo all’interno del quale l’immigrata senegalese Laurence Coly (Guslagie Malanga) è accusata di avere ucciso, annegandola, la figlia di quindici mesi. Le certezze di Rama (che aspetta un figlio dal suo compagno bianco) su se stessa, sul suo passato, sulla sua famiglia e sul suo futuro come insegnante e artista vengono messe progressivamente in crisi dall’ascolto delle confessioni di Laurence.
Laurence e la figlia.
A una prima occhiata Saint Omer può apparire quindi come un tipico legal drama che intrattiene stretti legami con la biografia della regista, la quale è stata realmente testimone di un processo analogo a quello mostrato sullo schermo proprio mentre era incinta; la regista sceglie però di svuotare completamente il film da ogni forma di suspense, puntando a far emergere un groviglio inestricabile di motivazioni, storie e testimonianze, in cui si trovano le due protagoniste.
Non sorprenderà sapere che Diop, qui al suo primo film di finzione, abbia già alle spalle una carriera più che decennale come regista di documentari, all’interno dei quali si è confrontata con una domanda che agita ormai da decenni il cinema francese (pensiamo, solo negli ultimi decenni, a cult come L’odio [La Haine, Mathieu Kassovitz, 1995], o a Niente da nascondere [Caché, Michael Haneke, 2005]: che cosa significa essere francesi nel ventunesimo secolo, soprattutto alla luce di un passato (che forse poi passato non è) colonialista, di un’imperante mentalità patriarcale e della sostanziale permanenza di un’ormai ineludibile disparità di classe?
Diop sceglie di rispondere adottando una prospettiva dichiaratamente postcolonial: non solo nella scelta di mettere al centro del film due figure femminili nere, colte e profondamente complesse, quasi irrisolte; a colpire è infatti la volontà di tracciare attraverso Laurence il profilo di una donna che ha, nelle parole della stessa regista1, un diritto al suo mistero, a non giustificare il suo atto, poiché, come afferma Wittgenstein, citato esplicitamente nel film, «ciò che può essere detto può essere detto in modo chiaro»2, ma «di ciò di cui non si può parlare si deve tacere»3. È proprio in questo cono d’ombra, in questa zona tabù e profondamente umana che la regista cerca la dimensione archetipico-universale del suo personaggio4, la possibilità di trovare anche nell’esperienza di un’assassina che si trova radicalmente al di fuori5 da ogni società degli elementi in comune con l’esperienza di un pubblico come quello che assiste al processo (e al film): un pubblico composto in gran parte di persone bianche, portato però progressivamente a empatizzare con Laurence proprio in quanto “mostro profondamente umano”, come afferma l’avvocata nel suo monologo verso la fine del film.
L’arringa dell’avvocata della difesa.
In Saint Omer corpo e politica appaiono quindi inestricabilmente connessi. Si potrebbe dire che la mostruosità di Laurence è allora una mostruosità che si rivelerà decisiva sia per Rama, profondamente scossa dalla sua vicenda, che per lo spettatore, in quanto, sulla scorta di Foucault, Laurence combina il piano dell’impossibile e del proibito sotto un punto di vista biologico e giuridico6: proprio tramite questa trasgressione incarnata dalla donna emergono allora possibilità inedite di comprendere la norma e le sue storture e di immaginare possibilità alternative di rapportarsi con essa.
Allo stesso tempo la regista espande il discorso: il film non è semplicemente un saggio sulle modalità con cui il razzismo infirma ancora atteggiamenti e punti di vista (non solo europei), ma anche l’esplorazione di territori apparentemente più insondabili e rimossi, legati a istinti e decisioni apparentemente incomprensibili e ingiustificati.
Visages, villages
Pur essendo al suo esordio nel cinema di finzione, Diop rivela una grande maestria nella direzione delle attrici: se a Kayije Kagame spetta il compito di sgretolare progressivamente la propria maschera, mostrando un travaglio interiore che sfocerà in un pianto disperato nella stanza dell’hotel, ancora più arduo è il ruolo di Guslagie Malanga, pressoché impassibile per quasi tutta la durata del film, in particolare durante i lunghi monologhi in cui racconta alla corte la sua vita segnata da un razzismo sotterraneo e per questo più insidioso, sia da parte dei bianchi, sia da parte dei parenti senegalesi che la accusano di essere diventata troppo “bianca”.
I pregiudizi razziali arrivano a pervadere finanche l’ambiente universitario, tanto che la filosofia di Wittgenstein, a cui la giovane voleva dedicare il suo progetto di dottorato, le viene preclusa dai professori in quanto “non affine alla sua cultura”. Anche la messa in scena è fondamentale nel tratteggiare lo statuto narrativo delle due protagoniste: Diop fa uso di inquadrature fisse sia su Laurence o su Rama sia sui membri della giuria e sui testimoni, dilatando i tempi per indagare il mistero che sta dietro al cuore di tenebra del film, ovvero la motivazione dell’atto di Laurence, che risulta sfuggente proprio come lo sguardo della donna, che elude continuamente la m.d.p. e lo spettatore. Notiamo infatti che man mano che la narrazione prosegue i mezzi busti si stringono sempre più fino a diventare primi piani; tuttavia il campo/controcampo tra Rama e Laurence è in un certo senso estraneo a queste dinamiche dal momento che, se Rama guarda verso Laurence in maniera ossessiva, rivelando nella ricchezza delle sue espressioni la difficoltà di comprendere un atto e una vicenda così estranee, dall’altra Laurence non guarda mai né verso di lei né verso la m.d.p. (fatta eccezione per un unico, fondamentale momento). Il suo sguardo è sempre rivolto alla giuria, a confermare la sua distanza.
Laurence schiva continuamente lo sguardo della cinepresa (e – quindi – anche quello di Rama e dello spettatore).
Io (Rama, la giuria e il pubblico) e Altro (Laurence) sono quindi le due polarità su cui si basa il film, e il loro relazionarsi passa in primis attraverso l’espediente formale del primo o primissimo piano. I volti su cui lavora Diop diventano così, «attraverso la potenza disarmante dei primi piani-mondo»7, cartine di tornasole del processo e dello statuto dei due personaggi-cardine del film, richiamando alla i primi piani del cinema di Bergman e Dreyer8.
Il primo piano: Saint Omer, La passione di Giovanna d’Arco [La passion de Jeanne d’Arc, Carl Theodor Dreyer, 1928] e Persona [Ingmar Bergman, 1966].
Il progressivo avvicinarsi alla fine del processo porterà Rama a temere l’autoannullamento e la sovrapposizione con la giovane senegalese, come se il ruolo di madre degenere le venisse imposto dai meccanismi giuridico/sociali a cui le due donne ssoggiaciono. Laurence, elemento non pienamente integrato nella società, non dà mai risposte univoche alle domande della giuria, ma, piuttosto, tramite le sue contraddittorie affermazioni, conduce la ricerca della verità e della conciliazione tra parola e cosa a un vicolo cieco: proprio per evidenziare la sua posizione sostanzialmente esterna rispetto al mondo in cui è gettata, Diop non ci svela il verdetto della giuria, né quale sarà il destino della giovane assassina, ma, in chiusura del film, sceglie di ritornare su Rama.
La ricerca di uno scambio di sguardi con Laurence apre infatti la strada a un percorso che porta la giovane professoressa a confrontarsi e identificarsi con l’altro, con i ruoli di madre e figlia che Laurence incarna e nega al tempo stesso, e con quel mondo africano e ancestrale dal quale la stessa immigrata è buttata fuori e rifiutata: questa identificazione avviene prima su un piano più concreto (Rama-figlia nel dialogo con la madre di Laurence) e poi su un piano più inconscio (Rama-figlia nei flashback con sua madre) in modo da erodere progressivamente il senso di pacifica integrazione nella società francese di Rama9. Le due donne si rivelano così specchio l’una dell’altra: dove Laurence sembra soccombere di fronte al peso delle sue stesse azioni e della loro mancanza di giustificazione, Rama trova la forza proprio nel contatto diretto con la giovane immigrata, che si concretizza attraverso lo scambio di sguardi presente verso la fine del film. Solo guardando direttamente ciò che è incomprensibile e che è per questo più umano Rama trova la forza di confrontarsi con il suo passato e di comprenderlo, di farlo suo e, in questo modo, di creare qualcosa di nuovo senza perdere se stessa. È questo ciò che ci rivela il finale, in cui la voce di Nina Simone accompagna il ritorno di Rama casa: è incinta, terrà il bambino. Laurence scoppia in lacrime; il suo destino non ci viene rivelato.
Se quindi Diop crea una sorta di gioco di specchi (consapevolmente mai del tutto realizzato) per portare avanti la narrazione del film, c’è però un altro lato di Saint Omer che richiede il coinvolgimento attivo dello spettatore, e che ha tutto a che vedere con la narrazione e la sua messa in scena.
Madri e altre
Sin dai primi momenti del film appare chiaro come Diop voglia inserirsi all’interno di un solco di spiriti a lei affini10: in particolare, sono due i referenti principali:
Il primo è Marguerite Duras: dopo una prima brevissima scena che ci mostra Laurence in riva al mare con la figlia, il film si apre infatti con una lezione di Rama su Hiroshima mon amour [id., Alain Resnais, 1959]. Il monologo, che nel film di Resnais è recitato con memorabile intensità da Emmanuelle Riva, pone sin da subito in primo piano il tema della diversità, o, più in generale, dell’alterità. È la chiave di lettura del monologo offerta da Rama a riflettere scopertamente la posizione di Diop: quest’ultima ambisce infatti a trasformare Laurence in una sorta di eroina mitologica, sublimando il dato reale concreto per renderlo simbolico e universale; si viene così a creare così uno spazio mitico, in cui i tragici fatti da cronaca nera diventano “tragedia”, da intendersi nella sua accezione originaria di esperienza capace di offrire una forma di catarsi tramite il diretto coinvolgimento dello spettatore.
La lezione di Rama su Hiroshima mon amour, terza sequenza del film.
Il secondo è invece Pier Paolo Pasolini, la cui Medea viene vista sul computer da Rama. Laddove Duras agisce come ispirazione programmatica, Pasolini e la Medea sono invece il modello narrativo che Diop fa suo e rovescia al tempo stesso. Come è noto, Medea è madre degenere, vittima di un sistema da lei incontrollabile e schiacciata da una cultura incomprensibile che la porta a uccidere i propri figli: è la storia di Medea-Laurence che Diop sceglie come archetipo da aggiornare con la forza della messa in scena e del racconto.
In questo senso, assume un ruolo fondamentale all’interno della narrazione il concetto di maternità. Il rapporto di Rama con la maternità appare infatti irrisolto sotto due differenti prospettive: sia in un senso più passivo-ricettivo, legato alla rottura della relazione di Rama con la propria famiglia (in particolare, ovviamente, con la figura materna), oltre che con la propria ancestrale cultura africana (Rama ha una relazione con un uomo bianco e vive una vita pienamente integrata in una società occidentalizzata, bianca, disincantata11 in senso weberiano12). Anche da un punto di vista più attivo-creativo Rama sembra essere bloccata, incapace di generare: sia in quanto donna incinta indecisa sul tenere il feto o se abortire, sia in quanto artista-scrittrice che sta lavorando al suo ultimo romanzo ma che, non a caso, non vediamo nemmeno una volta impegnata nell’atto concreto di scrivere. Piuttosto, Rama è vittima di un’impasse che è tutta legata a un confronto diretto con l’altro e, di conseguenza, con se stessa: quello che manca alla scrittrice è proprio la capacità di instaurare un legame con l’esperienza concreta, fatta di passato (la propria cultura d’origine), presente (la maternità) e futuro (il processo di Laurence).
Similmente al protagonista di Teorema, Laurence diviene una specie di “alterità innominabile”, quasi divina (o forse estremamente umana) nel suo restare impassibile di fronte alle domande incalzanti della corte, e capace di sconvolgere le regole del gioco. L’infanticidio non ha un motivo apparente, mentre verità e bugia sono concetti privati senso che si riflettono l’uno nell’altro senza fornire alcuno strumento per districare la matassa dell’esperienza autentica dell’altro-da-sé. I pregiudizi riguardo il colore della pelle su cui si basano i ragionamenti della giuria e le testimonianze di personaggi come lo scultore con cui Laurence ha avuto una relazione (e da cui ha avuto la figlia) si rivelano per quello che sono: poco più che costrutti arbitrari necessari unicamente a produrre un verdetto e mantenere una parvenza di ordine e stabilità nella realtà provinciale del paese che dà il titolo al film. La pericolosità retriva del razzismo strisciante della borghesia europea e bianca emerge inequivocabilmente scena dopo scena e il progressivo disorientamento della corte è il disorientamento dello spettatore, che con il progredire del film si trova di fronte a un personaggio imprevedibile, colto e intelligente ma senza una ragione apparente che l’abbia guidata.
È così che entra in gioco il terzo livello di rapporto con l’altro con cui il film si misura, ovvero proprio quello con lo spettatore. Diop vuole infatti creare una vera e propria esperienza in grado d’interagire con le emozioni e i sentimenti del suoi fruitore: l’uso delle lunghe riprese fisse e l’impossibilità di trovare risposte richiedono un ruolo attivo, quasi compartecipe dell’esperienza del processo che produce una forma d’immedesimazione più con il personaggio di Laurence che con quello di Rama. La stessa regista è molto chiara su queste sue intenzioni:
Potrei dire che il personaggio principale del film è lo spettatore, perché lo metto nella stessa posizione di chi assisteva al processo: allo stesso modo, durante il film uno pensa una cosa e poi il contrario, fa un tragitto attraverso diverse cose. Con questi lunghi piani sequenza, lunghi anche 25 minuti, invito lo spettatore a traversare la psiche di questa donna così complessa, così cupa, così profonda. Lo invito a fare un’esperienza più che a dare un giudizio13.
L’interazione attiva tra spettatore e testo richiesta dalla regista è ciò che quindi può donare senso a una situazione complessa come quella rappresentata: una forma di contiguità che si concretizza proprio nel momento-chiave in cui la m.d.p. osserva impassibile lo sguardo di Laurence. Dopo, il film finirà per liberarsi di ogni concretezza fattuale: non ci viene rivelato il verdetto, il tribunale appare vuoto. Rama torna alla sua vita profondamente cambiata, e si rivela quindi non tanto come estensione dello sguardo dell’autrice quanto piuttosto come di quello dello spettatore: in questo gioco di scambi di ruoli tra regista, spettatore, Rama e Laurence, io e altro risiede il nucleo del film.
È necessario, sembra volerci dire Diop, riscoprire i complessi legami che uniscono madre a figlia per comprendere il futuro, liberandosi del peso di costruzioni socioculturali e manichee che annullano la complessità della realtà e dei suoi lati oscuri; così come ricercare un dialogo tra passato e presente, riscoprendo quella che Lacan chiamava extimité14, ovvero la consapevolezza che ciò che più è intimo forse si trova al di fuori di noi, nell’altro. Tutto il processo si rivela allora come tentativo di recuperare una forma di organicità dell’esperienza (individuale tanto quanto collettiva). E sarà proprio il mistero della maternità a rmettere in comunione definitiva mente e carne, Io e Altro.
NOTE
1. cfr. l’intervista dell’autrice per “Film comment” https://www.filmcomment.com/blog/interview-alice-diop-on-saint-omer/
2. L. Wittgenstein, Prefazione, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916. Nuova edizione, traduzione di Amedeo G. Conte con una nuova introduzione, Collana Biblioteca, Torino, Einaudi, 1997.
3. Ibid.
4. cfr. intervista dell’autrice per “Film comment”, cit.
5. In quanto immigrata ma anche in quanto e-migrata.
6. cfr. M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), trad. it. a cura di Valerio Marchetti e Antonella Salomoni, Feltrinelli, Milano, 2004.
7. F. Di Martino https://www.spietati.it/saint-omer/
8. Non sarà un caso che il film, pur puntando su un estremo realismo, mostri numerosi punti di contatto con almeno due degli autori trascendentali di Paul Schrader (si vedano, a proposito, i flashback di Rama, o quel qualcosa che accade durante lo scambio di sguardi tra le due donne), e che Diop affermi di aver avuto spesso in mente, durante le riprese, Il processo a Giovanna d’arco (Procès de Jeanne d’Arc, Robert Bresson, 1962) cfr. https://www.filmcomment.com/blog/interview-alice-diop-on-saint-omer/
9. Si veda la scena in cui la giovane vaga, apparentemente disperata e incapace di orientarsi, in una folla composta di persone bianche, che assume connotazioni grottesche e inquietanti.
10. Tra cui il già citato Ludwig Wittgenstein, ma anche, come emerge da altre interviste dell’autrice, Frederick Wiseman (cfr. https://www.filmcomment.com/blog/interview-alice-diop-on-saint-omer/; https://www.documentary.org/online-feature/not-just-filmer-filming-filmed-ethical-softness-alice-diops-documentaries).
11. Risulta qua interessante la trovata narrativa delle “maldicenze” e della “stregoneria” dalla quale Laurence vorrebbe difendere la figlia, e che risulta volutamente ambigua: si tratta di un pregiudizio di stampo colonialista inculcatole da una società razzista o, piuttosto, di una sorta di ritorno del represso al quale la donna soccombe in un tentativo fallimentare di integrarsi nella società francese?
12. cfr. M. Weber, La scienza come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, traduzione di Pietro Rossi, Introduzione di Massimo Cacciari, Milano, Oscar Mondadori, 2018, pp. 3-47.
13. Si veda l’intervista della regista per “L’espresso”, https://espresso.repubblica.it/idee/2022/12/13/news/alice_diop_saint_omer-378900034/
14. Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre VII. L’éthique de la psychanalyse. 1959-1960, Paris, Seuil, 1986. Il termine figura all’inizio della lezione XI, L’amour courtois en anamorphose, del 10 febbraio 1960, consultabile su https://lacan-con-freud.it/lacanseminaires/s7_l_ethique.pdf