È innegabile che gli echi dell’isolamento dovuto alla pandemia si siano propagati anche al cinema. Persino in quei film che non esplorano direttamente il periodo del Covid-19, da Sto pensando di finirla qui [I’m Thinking of Ending Things, Charlie Kaufman, 2019] al recentissimo Beau ha paura [Beau Is Afraid, Ari Aster, 2023]. Certo, è vero che il cinema ha sempre raccontato il senso di scollamento tra l’individuo e la realtà, basti pensare p.e. alla grande tradizione del noir e del gotico o all’inquadratura che chiude Sentieri selvaggi [The Searchers, John Ford, 1956], dichiarato modello di Paul Schrader e Martin Scorsese per Taxi Driver [id., Martin Scorsese, 1976]. Ma la questione andrebbe ribaltata. O quantomeno allargata.

L’ultima inquadratura di Sentieri selvaggi.

Perché forse a essersi modificata non è solo la modalità della rappresentazione quanto anche la qualità della percezione. E mi sia perdonata la torsione personalistica (pur nella consapevolezza che l’esperienza del singolo non può essere assunta come paradigma collettivo), ma a rivedere Toro scatenato [Raging Bull, Martin Scorsese, 1980] in occasione della riedizione al cinema a colpirmi non è stato, infatti, il ritmo nervoso impresso dal montaggio di Thelma Schoonmaker o il bianconero espressionista e da miniatura barocca di Michael Chapman. Non è stata l’elegia malinconica e spietata di un looser che diventa epitome del feroce individualismo dell’american way of life e dell’euforica self-reliance emersoniana. Non è stata nemmeno l’evidente corrispondenza autobiografica tra il protagonista Jake La Motta e il regista Martin Scorsese, reduce da un ricovero per un’emorragia causata dall’abuso di stupefacenti (e in altra sede forse andrebbero analizzare le analogie tra questo film e il di molto successivo Al di là della vita [Bringing Out the Dead, Martin Scorsese, 1999]), entrambi italoamericani inquieti e paranoici in lotta anzitutto con se stessi e destinati a diventare pedine dello showbiz. E non lo è stata neppure la stupefacente ambientazione in una New York che sembra un quadro iperrealista, con le sue casa di mattoni a schiera e i volti patibolari dei mafiosi che bazzicano il Bronx (chissà se David Chase aveva in mente questo film quando ha affidato a Frank Vincent il ruolo di Phil Leotardo ne I Soprano [The Sopranos, creata da David Chase, 1999-2007]. Oppure gli incontri di boxe che diventano via via sempre più simili a incubi espressionisti (ecco da dove provengono le – terrificanti – soluzioni adottate nel match conclusivo di Creed III [id., Michael B. Jordan, 2023]). O la performance di un Robert De Niro capace di sbozzare il ritratto di una persona divisa in due: agile come una faina e dall’infima percentuale di grasso corporeo oppure tormentata dall’adipe in eccesso e sfigurata dal naso schiacciato e dalle arcate sopraccigliari fracassate, sempre circondata dagli specchi che ne rimandano un’immagine deformata, una figura quasi «posseduta» (come lo sono molti dei personaggi scritti dal co-sceneggiatore Paul Schrader1) di cui Scorsese cerca di filmare anzitutto il flusso inarrestabile della coscienza (curioso come nello stesso anno di uscita del film E.L. Doctorow abbia compiuto un tentativo analogo dando alle stampe il suo Il lago delle Strolaghe). 

Niente di tutto ciò. A impressionarmi è stato il modo in cui Toro scatenato si trasforma nel racconto di un uomo isolato, separato ed esiliato dal mondo. Questo fin dai titoli di testa sulle note della Cavalleria rusticana di Mascagni, dove Jake saltella in ralenti senza nemmeno rivolgere uno sguardo alle poche persone che sostano a bordo ring, intabarrato nel suo boxing robe mentre le corde tese sembrano imprigionarlo. 


E la sensazione prosegue anche nella sequenza successiva, un flashforward ambientato nel 1964 (l’azione vera e propria inizierà invece ventitré anni prima) dove Jake, invecchiato, bolso e con il volto simile a una maschera di cera, prova un monologo che avrebbe dovuto recitare di lì a poco («I’m no Olivier»). Un dialogo con se stesso e senza spettatori, recitato in uno squallido camerino dove il surrogato del pubblico è non a caso un grande specchio orizzontale. La stessa situazione verrà poi ripresa nel finale. 

Incipit ed explicit.

Se Toro scatenato è meno radicale di Taxi Driver nello scandire le vicende rigorosamente dalla prospettiva alterata e contraddittoria del suo protagonista (e questo perché alcuni momenti vengono narrati dal punto di vista del fratello Joey, interpretato da Joe Pesci come se fosse una specie di grillo parlante, ovvero l’unico a permettere a La Motta di mantenere un contatto con la realtà2), è pur vero che è per certi versi ancora più intransigente nel mettere in scena il suo sradicamento: perché se in Taxi Driver, Travis Bickle/Robert De Niro cercava ancora una ragione per appartenere a un mondo per lui incomprensibile e dare sfogo alla sua rabbia3, Jake non sembra nemmeno essere cosciente della sua impotenza e delle fratture che lo escludono dalla famiglia, dalla comunità e dalla società e che finiscono anche per dissociarlo da se stesso. Non è un caso che questo senso di clausura e di esclusione trovi una su corrispettivo visivo nelle numerose sbarre reali o metaforiche che attraversano il film: abbiamo già visto la funzione delle corde nell’incipit, ma pensiamo anche al primo incontro tra il protagonista e la futura seconda moglie Vickie (Cathy Moriarty), in cui i due si guardano e si parlano proprio attraverso una rete di metallo, o alla sequenza del carcere.

Il primo incontro tra Jake e Vickie.

La reclusione di Jake.

Senza contare che le interpolazioni digitali del restauro 4K donano alla fotografia una specie di trasparenza da acquario che fa ulteriormente risaltare la sfilacciatura tra personaggio e sfondo.


Proprio come le nebbie lattiginose o le volute di fumo (completamente antinaturalistiche) che talvolta avvolgono il ring e i pugili.

Come in effetti ha scritto Roberto Manassero, Toro scatenato è «un film in prima persona assoluta»4, dove l’esperienza individuale si frantuma in una miriade di percezioni, in un desiderio di autoannullamento (ancora una volta tipicamente «schraderiano») che trova espressione nella violenza quasi parossistica degli incontri di boxe. Iconograficamente più simili a scene di martirio.

Forse è proprio questa sua china interiorizzata e introflessa a fare di Toro scatenato un film difficilmente ascrivibile a una corrente, a un genere o a un periodo storico, dove suggestioni provenienti dalla New Hollywood (la riscrittura dei generi, la presenza di «quell’isolamento che nel cinema classico – e più largamente nell’intera letteratura americana – era stato segnale o di una grandezza morale o di una scelta errata ma nondimeno grandiosa (si pensi a Herman Melville) o anche di un’alienazione rispetto a una realtà insoddisfacente, [e che] diventa ora “assenza di realtà”»)5 si uniscono a lampi postmoderni (il rapporto problematico e frammentato tra il soggetto e il mondo) e a squarci modernisti (la confusione dei piani di realtà).

E le cui immagini sembrano cambiare pelle, modificarsi, riadattarsi. Se è vero che ancora oggi, in epoca post-Covid, costringono lo spettatore a misurarsi con la sua realtà, il suo modo di essere e percepire il mondo. 

NOTE

1. La sceneggiatura venne inizialmente scritta da Mardik Martin e poi rielaborata da Paul Schrader, che vi lavorò a lungo ma senza lasciare del tutto soddisfatti Scorsese e De Niro, i quali poi operarono in pochi giorni una revisione definitiva.

2. Lo stesso Joey è colui che, con un semplice tocco di pragmatico buonsenso, convince Vicky a incontrare il futuro marito Jake.

3. Dopo aver letto la sceneggiatura di Taxi Driver ricevuta in seguito a un incontro a tre con Schrader e Brian De Palma, Scorsese disse: «Conosco questo Travis. Provo i suoi stessi sentimenti e sono quegli stessi sentimenti che vanno esplorati, cacciati fuori ed esaminati. Conosco il senso di rifiuto che prova Travis, la sua incapacità di creare relazioni durature. Conosco quel sentimento mortale, quell’essere perennemente arrabbiati.»

in A. J. Rausch, The Films of Martin Scorsese and Robert De Niro, The Scarecrow Press Inc., Lanham/Toronto/Plymouth, 2010

4. R. Manassero, Toro scatenato (Raging Bull), in Cineforum 500

5. F. La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Il Castoro, Milano, 2004.