Dopo l’impossibile eliminazione, da parte di un manipolo di guerriglieri ebrei, dei vertici del Partito Nazista in un cinema parigino in Bastardi senza gloria [Inglourious Basterds, 2009], e l’altrettanto impossibile vendetta di un ex schiavo afroamericano negli Stati Uniti del sud in Django Unchained [id., 2012], Quentin Tarantino torna per la terza volta, con C’era una volta… a Hollywood [Once Upon a Time… in Hollywood, 2019], a immaginare l’esito controfattuale di un evento storico violento e traumatico: l’eccidio di Cielo Drive, avvenuto a Los Angeles la notte del 9 agosto 1969, in cui tre seguaci del noto criminale Charles Manson assassinarono l’attrice Sharon Tate – incinta all’ottavo mese -, Jay Sebring, Abigail Folger, Wojciech Frykowski e Steven Parent. Ma cosa sarebbe accaduto se gli assassini avessero invece fatto irruzione nella villa dell’attore western in declino Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) e si fossero imbattuti nel suo stunt-man Cliff Booth (Brad Pitt)? Cosa sarebbe accaduto se Cliff, in una sequenza di violenza iperrealistica e tipicamente tarantiniana, avesse a sua volta eliminato gli hippy omicidi, salvando così inconsapevolmente la vita a Sharon Tate (Margot Robbie)? Attraverso questa formula si può sinteticamente tracciare la piega ucronica1 che il nono lungometraggio di Tarantino prende rispetto al corso di uno degli eventi di cronaca nera più tristemente noti della Storia americana. Il regista si appropria del passato e lo reinventa, lo manipola a suo piacimento facendo scivolare l’attualità storica nell’appiattimento bidimensionale di un linguaggio cinematografico tipicamente tarantiniano, segnato da linguaggio volgare e prolisso, violenza grafica e iperbolica, personaggi spesso stereotipati sulla base di un citazionismo onnivoro e compiaciuto.

Potrebbe sembrare paradossale, se non addirittura pericoloso (e il film non è stato esente da superficiali letture “politiche”)2, che il regista per eccellenza legato, fin dall’esordio con Le Iene [Reservoir Dogs, 1992], alla poetica postmoderna di un cinema autoreferenziale e totalmente fine a se stesso si sia occupato ora di convocare una vicenda fin troppo reale nel suo insanabile orrore storico. È su questa linea sottile e ambigua che Tarantino gioca, qui come nei due precedenti titoli ucronici, una complessa partita tra Cinema e Storia, tra realtà e finzione. L’appropriazione del passato trova una sua particolare coerenza con tutta la filmografia del regista statunitense, da sempre nota per la fitta trama di citazioni, rimandi, omaggi e parodie riferite al cinema (e più in generale, alla cultura popolare) del passato, elementi mescolati insieme nella piattezza divertita del pastiche postmodernista. In questo senso, anche l’eccidio di Cielo Drive può diventare, nelle mani dell’autore, oggetto di un gioco combinatorio che trasforma l’evento storico in un racconto di finzione, addirittura in una fiaba: fin dal titolo stesso, C’era una volta… a Hollywood dichiara esplicitamente il tentativo di costruzione di un regime discorsivo teso a prendere le distanze dalla cronaca in sé, per raccontare invece una storia fantastica ambientata nella terra della “fabbrica dei sogni”, dove due cavalieri improvvisati (Rick Dalton e Cliff Booth) sconfiggono il Male (i seguaci di Manson) e salvano la principessa (Sharon Tate).

Il problema, ovviamente, e il pubblico lo sa perfettamente, è che cinquant’anni prima dell’uscita di questa “fiaba” cinematografica, nella realtà, è stato il Male a trionfare. L’operazione di Tarantino è dunque più complessa di quanto appaia in superficie: lungi dal negare l’evento, il regista al contrario ribadisce costantemente che esiste un divario di per sé incolmabile tra realtà e finzione; coerentemente con le logiche del racconto ucronico, C’era una volta… a Hollywood funziona proprio per il fatto di tenere ben presente la portata reale della Storia di cui si sta appropriando e che continua a pesare, per tutto il film, sulla coscienza dello spettatore. L’atto di riscrittura del film non si indirizza dunque soltanto sul fatto storico che viene rovesciato dalla fantasia cinematografica ma anche sulla percezione di tale evento che si è andata sedimentando nel corso degli anni. A essere riscritto è soprattutto un trauma storico che ha segnato l’America e il mondo del cinema hollywoodiano nella fase di tramonto della sua golden age; un trauma che non è mai stato veramente superato, che si è sclerotizzato nella cultura popolare e che anche qui, fino alla risoluzione controfattuale del finale, rischia ancora una volta di ripetersi. La seguente analisi delle sequenze di C’era una volta… a Hollywood dedicata alla rappresentazione degli eventi storici, in particolare delle figure del carnefice (Charles Manson) e della vittima (Sharon Tate), può permetterci di osservare il dialogo che Tarantino costruisce con un trauma che sembra essere ripetuto (con una Storia reale e violenta che tenta di impossessarsi dello spazio della finzione cinematografica) ma che viene invece risolto con il linguaggio iconoclasta e pirotecnico tipico dell’autore.

Lo spettro del carnefice: Charles Manson e la “Family”

Intento a riparare l’antenna sul tetto della villa di Rick Dalton, Cliff Booth viaggia con il pensiero alle sue memorie di stunt-man: un flashback presentato come una sorta di sogno a occhi aperti, una lunga sequenza di pura finzione improvvisamente interrotta dall’arrivo in Cielo Drive di un hippy che si dirige verso la villa dei Polanski. Anche se non è nominato, questo personaggio non ha bisogno di presentazioni: il pubblico lo riconosce immediatamente come Charles Manson. Questa è l’unica sequenza dell’intero film dedicata alla rappresentazione di Manson (qui interpretato da Damon Herriman)3: una singola scena, breve e di per sé autoconclusiva, ma estremamente significativa nell’economia del binomio Storia-Cinema imbastito da Tarantino nel lungometraggio. La Storia irrompe in maniera improvvisa e inquietante, rubando per pochi secondi lo spazio della finzione cinematografica attraverso la riproposizione di un episodio realmente avvenuto: il 23 marzo 1969, Manson si recò effettivamente alla villa di Cielo Drive per parlare con il produttore Terry Melcher, ex inquilino dell’abitazione, per discutere della possibilità di avviare una carriera nell’industria discografica; incontrò invece il fotografo Shahrokh Hatami e l’attrice Sharon Tate. In seguito, avrebbe ordinato ai seguaci della “Famiglia” di fare strage di chiunque si trovasse nella villa la notte del 9 agosto 1969. Tarantino sceglie dunque di ricostruire un episodio particolarmente significativo nell’ambito dell’intera vicenda di Manson: il momento in cui il carnefice incontra la sua futura vittima.

Charles Manson (Damon Herriman) saluta la sua futura vittima, Sharon Tate.

La Storia, e il portato traumatico che ne consegue, si ripetono qui identiche alla realtà4, consegnando allo spettatore una rappresentazione del futuro assassino ambigua e implicitamente densa di significato. Chi conosce la sua biografia sa che nel marzo del 1969 Manson aveva già alle spalle un lungo passato di reati di vario genere ed era circondato da un gran numero di proseliti grazie al suo carisma e alla sua peculiare “filosofia” condita di derivazioni dalla scientologia e dalle sette sataniste, un culto basato su principi profondamente sessisti e razzisti che sarebbe sfociato poi nella teoria apocalittica dell’Helter Skelter5; tuttavia, in questa fugace apparizione Tarantino ci presenta Manson come una figura apparentemente innocua, un “fricchettone” sorridente e addirittura impacciato, che rincorre inutilmente il proprio sogno di diventare una rockstar. A rendere particolarmente destabilizzante questa sequenza è forse proprio il fatto che, anziché trattare Manson appiattendo la figura storica a mera “icona pop”6 (tale infatti è l’immagine che di Manson, come “mente criminale” per eccellenza, si è sedimentata nella cultura di massa), il regista si sia limitato a riproporre un puro e semplice episodio di cronaca, un momento del trauma che è compito dello spettatore elaborare7. Da qui in poi, l’ombra di Manson continuerà ad aleggiare per tutto il film: più volte citato dai suoi seguaci come “Charlie”, l’assassino diventa il costante promemoria di una ferita reale e inguaribile che lo spettatore si aspetta continuamente che venga riaperta.

Tarantino crea, in tutte le sequenze che vedono protagonisti i membri della “Family”, una tensione che è figlia più delle scelte registiche impiegate per chiamare in causa la coscienza storica del pubblico che non di ciò che effettivamente accade sullo schermo. Nella lunga sequenza in cui Cliff visita lo Spahn’s Movie Ranch, siamo condotti nel covo di chi sappiamo compirà nella realtà il massacro di Cielo Drive: ancora una volta la Storia tenta di imporsi sul Cinema, questa volta basandosi sulla letterale occupazione che la “Family” fece di un set cinematografico western in disuso. Il pubblico è portato, insieme a Cliff, a temere il peggio per il vecchio proprietario cieco George Spahn (Bruce Dern): complice una messinscena marcatamente espressionistica, con lunghi silenzi, frequenti carrelli, jump cut, passaggi bruschi dai totali ai primissimi piani e inquadrature sghembe e drammatiche (come nel dialogo tra Cliff e la hippy Linette Fromme detta “Squeaky”), si va accumulando una tensione che secondo le regole del cinema tarantiniano dovrebbe esplodere nel consueto bagno di sangue, e che invece si risolve in un niente di fatto8. Tarantino sfonda il velo della finzione e inganna volutamente lo spettatore, il quale è portato a intravvedere nel branco di nullafacenti della “Family” il seme della follia che li porterà, di lì a pochi mesi, a compiere uno dei delitti più atroci della storia americana.

L’immagine impossibile di Sharon Tate

Altrettanto degne di attenzione, nell’economia della prospettiva controfattuale adottata da Tarantino, sono le sequenze dedicate alla rappresentazione della vittima: Sharon Tate, nelle relativamente poche scene che la vedono protagonista, ci è presentata con uno sguardo in bilico tra realtà storica e finzione cinematografica, tra la memoria collettiva che ha indissolubilmente imbrigliato la figura dell’attrice alla sua tragica fine (e dunque ha reso l’ha resa una sorta di “icona pop” al pari di Charles Manson) e la volontà, all’opposto, di dare alla vittima una possibilità di riscatto. La Sharon Tate interpretata da Margot Robbie ci viene mostrata con uno sguardo diverso rispetto a quello che per decenni l’ha segnata, un punto di vista che nel corso del film si conferma apertamente “revisionista” nei confronti della percezione culturale della vittima prima ancora che verso la mera fattualità storica: l’attrice, con una promettente carriera in ascesa (a fare da controcanto al declino di Rick Dalton), è proiettata verso un futuro che storicamente le sarà negato, ma che almeno cinematograficamente può essere immaginato e messo su schermo9. Particolarmente toccante, da questo punto di vista, è la sequenza in cui Sharon Tate, dopo aver acquistato una copia di Tess dei d’Urberville di Thomas Hardy (che proprio Polanski adatterà nel 1979), si reca in una sala cinematografica per vedere se stessa in Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm [The Wrecking Crew, Phil Karlson, 1968]. Ancora una volta Tarantino sorprende per la piega imprevedibile qui assunta dal film, che ancora una volta ribadisce lo scarto incolmabile tra realtà e finzione: il regista, lo ribadiamo, non nega l’evento storico; anzi addirittura lo enfatizza, costruendo la sequenza sulla duplice configurazione mediale dell’immagine data dalla compresenza “impossibile” di immagine finzionale (l’interpretazione di Margot Robbie, ovvero la “finta” Tate che sopravvive) e immagine di repertorio (l’attrice texana degli anni Sessanta, la “vera” Tate uccisa nel 1969). Tarantino ci ricorda dunque che nel suo ripetere (e riscrivere) la Storia, l’unica arma che ha a disposizione per evitare che il trauma si ripeta ancora è immergersi completamente nell’universo della finzione: è far trionfare il Cinema sulla Realtà.

La “finta” Sharon Tate (Margot Robbie) guarda la sua controparte storica sul grande schermo.

Fuori dal trauma: il “lieto fine” ucronico

Nell’ultimo atto di C’era una volta… a Hollywood lo spettro della tragedia storica, atteso fin dall’inizio del film, si fa pericolosamente concreto. La voce fuori campo di Kurt Russell, che fino a poco prima aveva narrato l’incursione di Rick Dalton nel mondo degli spaghetti western di Sergio Corbucci e dei poliziotteschi di Antonio Margheriti (una sequenza di puro “meta-cinema” alla Tarantino), racconta con estrema precisione di dettagli la giornata del 9 agosto 1969 per come storicamente è stata vissuta da Sharon Tate e dalle altre tre persone che sarebbero state assassinate quella notte10. Ancora una volta, come nella sopracitata sequenza con Manson, la ripetizione degli eventi sembra rendere l’incubo del massacro finale ormai inevitabile.

La Storia cessa improvvisamente di ripetere il suo corso nel momento in cui il gruppo di hippy assassini della “Family” (Tex Watson, Susan Atkins e Patricia Krenwinkel) si imbatte in un furioso Rick Dalton. È qui che comincia la deviazione ucronica vera e propria di C’era una volta… a Hollywood: da questo momento, il binomio Storia-Cinema si traduce in uno scontro letterale che si estrinseca nel tentativo della Storia di ritornare a imporsi, con la sua tragica realtà, sul Cinema, e nell’opposta possibilità concessa al Cinema – e solo al Cinema – di riscrivere la Storia e bloccare il meccanismo di ripetizione del trauma storico. Gli assassini di Cielo Drive abbandonano l’idea di irrompere in casa Polanski, e rivolgendosi verso un nuovo bersaglio, l’icona televisiva Rick, progettano una sorta di folle vendetta della Realtà sulla finzione, tramutando la violenza cinematografica in violenza reale. Queste sono le parole pronunciate da Susan Atkins (interpretata da Mikey Madison) ai suoi complici:

Sentite questa… mentre facevamo il trip collettivo, vedevo espandersi una certa idea nella mia testa. Allora sentite: siamo cresciuti guardando TV, fin qui ci siamo? E se si cresce guardando TV, si cresce guardando omicidi: in ogni programma televisivo che non fosse I Love Lucy trovavi omicidi. Quindi, la mia idea è: uccidiamo proprio chi ci ha insegnato a uccidere. Insomma, dove cazzo siamo, belli, siamo nella fottuta Hollywood, belli! Le persone che un’intera generazione ha guardato uccidere il prossimo vivono qui […].

Tuttavia, nel mondo “fiabesco” del racconto tarantiniano l’ultima parola non può che appartenere al sogno, alla finzione – al Cinema. Non è certo un caso che tutti i personaggi che partecipano alla sequenza ucronica finale siano sotto effetto di stupefacenti o di alcool, o che in ogni caso si trovino in uno stato di allucinazione e alterazione della percezione del reale: «Voi siete reali?» chiede Cliff Booth ai tre assassini dopo aver fumato una sigaretta intinta nell’acido; «Ah, sono reale come un donut, brutta merda», è l’eloquente risposta di Tex Watson (Austin Butler). Il Reale tenta di irrompere nella Finzione, ma la vendetta non può che avvenire in una condizione onirico-allucinatoria: metaforicamente, non può che accadere nell’ambito della “macchina dei sogni” cinematografica. A rimarcare la distanza tra realtà e finzione è la significativa inquadratura in cui Watson punta una pistola vera di fronte a Cliff, il quale risponde a sua volta mimando una pistola con le dita:

Così, in un’unica inquadratura, Tarantino ci mostra da un lato la Storia con tutta la sua concreta e tangibile portata, dall’altra il cinema (simboleggiato dallo stuntman Cliff Booth) con tutta la sua goffa finzione. Il binomio tra ciò che è vero e ciò che non lo è, tra quello a cui dobbiamo credere guardando questo film e quello che invece risulta illusorio, è il cuore pulsante del progetto ma, ancor più in generale, della seconda parte della carriera di Tarantino11.

Faccia a faccia tra Storia e finzione: l’assassino Tex Watson (Austin Butler) e lo stuntman Cliff Booth (Brad Pitt).

Nel momento in cui il meccanismo della ripetizione storica si inceppa, in cui si avvia la deriva ucronica del finale, la partita si può giocare liberamente sul terreno della pura fantasia cinematografica. Il regista può finalmente dettare le regole a suo modo ribaltando la cronaca, compiendo la propria revenge fantasy secondo i canoni rappresentativi a cui il pubblico è affezionato fin dai tempi di Le iene; lo spettatore, dunque, indotto fino all’ultimo a temere il peggio per Sharon Tate (e cioè a vedere riconfermata ancora una volta una Storia tristemente nota), si ritrova invece ad assistere a una sequenza di puro “tarantinismo”, scandita dalla rappresentazione di una violenza tipicamente gore, eccessiva e cartoonesca, da un montaggio frenetico costruito sulle note trascinanti di You Keep Me Hangin’ On e persino da qualche gag che contribuisce a trasformare l’orrore del massacro reale nell’umorismo catartico di un’isterica vendetta fittizia. Il tentativo ultimo della Storia di dominare il Cinema si rovescia nel suo esatto opposto, in una vendetta squisitamente cinematografica, esplicitamente inverosimile, sulla tragedia storica. Non a caso a compiere questo rovesciamento è principalmente Cliff, lo stunt-man, rappresentante per eccellenza della natura affabulatoria della finzione cinematografica; e sempre non a caso, a subire la sorte peggiore tra i tre hippy è proprio Susan Atkins, che aveva proposto di ammazzare i “porci” di Hollywood e che muore arsa viva dal lanciafiamme di Rick Dalton (un attrezzo di scena, uno strumento del Cinema che in grande stile trionfa sulla Realtà).

La soluzione proposta da Tarantino non può che essere parziale: essendo affidata alle logiche interne del Cinema (e in particolare di un Cinema così autoriflessivo come quello tarantiniano), non può che essere la compensazione immaginaria di un trauma storico reale12; nella realtà, la ferita lasciata aperta dalla follia della “Family” continua a essere presente e il trattamento eccezionalmente serio e privo di qualsivoglia ironia che Tarantino riserva a Charles Manson e Sharon Tate ci riconferma la tragicità dell’evento storico. In questo senso, il “lieto fine” che chiude il film risulta paradossalmente pessimista, poiché ucronicamente si può far vincere il Cinema sulla Storia, ma nella realtà Sharon Tate è sempre e comunque stata vittima di un delitto folle e insensato13. È tuttavia nel campo della percezione e assunzione culturale della Storia che il Cinema può effettivamente possedere agency ed è lì che C’era una volta… a Hollywood trova una sua ragion d’essere “terapeutica”: nell’invito rivolto allo spettatore a uscire dal meccanismo della ripetizione infinita del trauma, un invito che si concretizza soprattutto nel riscatto della figura della vittima. Non si tratta più, dunque, della coazione a ripetere nevrotica di Freud, quanto piuttosto, richiamando Walter Benjamin, di una ripetizione distruttiva e costruttiva insieme del passato afferente alla dimensione ludica14 – un gioco combinatorio e manipolatorio del referente storico, un rimescolamento delle carte che, nonostante gli eccessi del linguaggio tarantiniano, si presenta come estremamente serio. Sempre in termini benjaminiani, la rappresentazione cinematografica di un passato non quale è stato ma quale avrebbe potuto essere, e la conseguente riattualizzazione di questo passato15 attraverso la messa in scena di una possibile configurazione alternativa degli eventi suonano nella coscienza dello spettatore contemporaneo come un nuovo meccanismo di ripetizione: un meccanismo che, anziché imbrigliare la vittima storica nell’”eterno ritorno” del suo martirio, spinge invece a redimere questa figura16, a restituirle dignità umana. Il pirotecnico ribaltamento della Storia nel finale di C’era una volta… a Hollywood nasconde, inaspettatamente, un dovere etico, il dovere di immaginare una Storia possibile e – per citare Georges Didi-Huberman – salvare l’onore di chi quella Storia l’ha realmente subita.17

Se Sharon Tate non può essere salvata nella realtà, si può – e si deve – salvarla almeno da quell’immaginario popolare che la vede passivamente legata ai nomi dei suoi carnefici e alla data del 9 agosto 1969. Nelle mani di Tarantino, il Cinema diventa il mezzo attraverso cui ripensare il passato per agire sulla coscienza storica e culturale dello spettatore nel presente – e, di conseguenza, nel futuro.

NOTE

1. Il termine Ucronia, neologismo dal greco coniato dal filosofo francese Charles Renouvier nel diciannovesimo secolo, fa riferimento a una peculiare forma di narrazione contro-storica la quale convoca un episodio storico registrato e ben noto al pubblico di riferimento per poi divergerne esplicitamente, tentando di raccontare non ciò che è effettivamente accaduto, ma ciò che sarebbe potuto accadere se la Storia avesse preso un corso differente, sconfinando nell’ambito della speculazione controfattuale e dell’ipotesi impossibile. Diversamente dal mero revisionismo o negazionismo storico, il racconto ucronico si basa su un dialogo intenzionale tra Storia reale e storia ipotetica, e dunque presuppone che il fruitore tenga sempre presente lo scarto tra realtà e finzione: un presupposto, questo, ben visibile nella cosiddetta “trilogia revisionista” di Quentin Tarantino.

2. Così per esempio Richard Brody, sulle pagine del «The New Yorker», stronca il film definendolo «oscenamente regressivo» nella sua celebrazione di un machismo “retrò” anni Cinquanta (il divo in declino Rick) che trionferebbe sulla counter-culture giovanile degli anni Sessanta. Cfr. Cfr. R. Brody, https://www.newyorker.com/culture/the-front-row/review-quentin-tarantinos-obscenely-regressive- vision-of-the-sixties-in-once-upon-a-time-in-hollywood

3. Nel romanzo tratto dal film, Tarantino dedica a Manson e alla “Family” uno spazio decisamente maggiore rispetto a quello effettivamente concesso nel film, indugiando, oltre alle scene presentate sullo schermo, anche sul “rito di iniziazione” della hippy Pussycat e sul sogno del “capofamiglia” di sfondare nell’industria discografica (nella realtà, Manson effettivamente scrisse il brano Cease to Exist, che i Beach Boys presentarono nel 1968 con il titolo Never Learn Not to Love). Cfr. Q. Tarantino, Once Upon a Time in Hollywood: A Novel, HarperCollins, 2021.

4. Nel film l’unica differenza rispetto alla vicenda storica è che a parlare con Manson non è il fotografo Hatami, ma il coiffeur Jay Sebring (interpretato da Emile Hirsch), ex fidanzato di Sharon Tate e tra le vittime reali dell’eccidio del 9 agosto 1969. Per un resoconto dettagliato dell’episodio, cfr. E. Sanders, La Famiglia, ed. it. Feltrinelli, Milano, 2018, in particolare i capp. 24 e 25.

5. Cfr. E. Sanders, op. cit., e V. Bugliosi, C. Gentry, Helter Skelter. Storia del caso Charles Manson, ed. it. Mondadori, Milano, 2006.

6. Di parere contrario è Alberto Morsiani: «[…] ciò che […] ha attratto [Tarantino, ndr] è stato il fatto che Manson, negli anni, è diventato un’icona, anche se negativa, di quella cultura pop e di massa che il regista ama sopra ogni altra cosa, un prodotto, a tutti gli effetti […] parte integrante di quel tessuto di riferimenti alla portata di tutti che fanno dell’America quella che è: Manson come un brand di successo al pari di tanti altri generi di consumo conosciuti e apprezzati dalla gente, come certificano i tanti film, libri e serie tv che gli sono stati dedicati nel tempo». Cfr. A. Morsiani, Il vendicatore dell’immaginario, in «Cineforum», anno 59, n.9, novembre 2019, p. 8.

7. Nell’ottica di un tale trattamento della figura di Manson, risulta efficace la scelta di Tarantino di tagliare dal montaggio finale le inquadrature che originariamente avrebbero dovuto chiudere la sequenza: Manson avrebbe salutato amichevolmente Cliff Booth per poi esplodere improvvisamente in una sorta di danza furiosa e priva di senso, e infine esclamare allo stunt man: “Fuck you, Jack!”. Conferendo invece al personaggio un atteggiamento apparentemente innocuo e inoffensivo, Tarantino chiama direttamente in causa la memoria storica dello spettatore imponendo uno iato evidente tra ciò che il pubblico vede e ciò che conosce di Manson.

8. A. Lipszyc, Affect Unchained: Violence, Voyeurism and Affection in the Art of Quentin Tarantino, in «Eidos. A journal for philosophy of culture», vol. 4, n.2, 2020, p. 137: «The atmosphere of the Western-like ranch itself is constantly vibrating with tension which, again, finds no clear resolution. We are tricked into thining that something terrible will happen in a moment, we follow Cliff in his suspicions that the members of the Manson Family have done some harm to the owner of the ranch, but then again nothing really happens and we get some picturesque images of horse-riding, while Cliff beats up a rather helpless member of the gang. We are left in utter confusion […]. And what did you expect to see? Monsters, Hollwood style?»

9. «For so much of the film, Rick is the Hollywood of the past, while Cliff exists solely in its present; Sharon, however, points to a future that Hollywood could be…if only the past and present had been a little different». Cit. da T. Woods, Still Here. A Journey Through The Funky Fanfare of Once Upon a Time…in Hollywood, in «Bright Wall/Dark Room.com», 1° marzo 2019, https://www.brightwalldarkroom.com/2020/02/03/once-upon-a-time-in-hollywood-2019/

10. Con un linguaggio inconsueto per Tarantino, questa sequenza è costruita non solo didascalicamente sulla base del commento in voice over, ma anche attraverso un accorgimento tipico di molti film di ricostruzione storica, la presenza di scritte in sovrimpressione che scandiscono l’ora precisa degli avvenimenti narrati. Tarantino gioca qui con i codici linguistici propri di un genere cinematografico (l’Historical Movie) che andrà esplicitamente a smentire nel finale controfattuale del film.

11. S. Soranna, Realtà o finzione?, in «Cineforum», anno 59, n.9, novembre 2019, p. 15.

12. L. Gandini, Recensione a Once Upon a Time… in Hollywood, in «Cineforum», anno 59, n.6, luglio 2019, p. 58: «Per Tarantino, il riscatto può avvenire soltanto sul piano della riscrittura della Storia, depositaria di un’autenticità a contatto con la quale la finzione hollywoodiana ritrova improvvisamente una ragione d’essere. […] viene così a essere spazzata via ogni pretesa di attendibilità del cinema agli eventi documentati, alla verità dei manuali e delle cronache, in favore di un potere di affabulazione immaginario che non conosce confini».

13. A. Lipszyc, Op. cit., p. 137: «I cannot think of a more tactful and humane way a film can deal with a disaster like the Tate murder. While watching the unreal orgy of violence we stop caring about the people we see on the screen. We care about Sharon Tate and her friends, who – in the so-called real life – are actually being slaughtered in the other house, behind the screen. This time the hyperbolic violence, rather than being the source of cheap thrills, serves literally as a screen image and a utopia, an impossible way out which we simply beg for. And so we get it: after the slaughter, together with [Dalton] we get invited to the utopian, dreamlike zone, the Polański house next door. […] it is also at this very moment that the affect goes unchained in us and – no, we do not laugh – we mourn, and we cry, and we badly, badly, badly want to save Sharon Tate».

14. M. Montanelli, Il principio ripetizione. Studio su Walter Benjamin, Mimesis, Milano/Udine, 2017, p. 74: «La ripetizione che Benjamin individua nel gioco infantile è una ripetizione costruttiva, altra rispetto al “carattere demoniaco” dell’”eterno ritorno dell’uguale”. Se Freud nella coazione a ripetere ha ravvisato una pulsione diretta “espressione della natura conservatrice degli esseri viventi”, per Benjamin, al contrario, nel gesto ripetitivo del bambino è racchiusa la spinta innovatrice, la capacità creativa, rivoluzionaria dell’uomo». Il corsivo è dell’autrice.

15. Ivi, p. 121: «[…] [Per Benjamin, ndr] conoscere la storia vuol dire strappare il passato alla catena degli eventi […] per riconoscergli un significato nuovo in vista dell’azione attuale. Perché il materialismo storico legge il passato con il filtro del presente, perché lo sottrae alla sequela dei fatti, citandolo con nomi nuovi in contesti sempre diversi, rende possibile la dissoluzione della fantasmagoria dell’eterno ritorno […]». Il corsivo è dell’autrice.

16. Ivi, pp. 131-132: «Il passato rammemorato, estraniato dal suo contesto originario, dalla catena lineare degli eventi, diventa nuovamente citabile, nuovamente ripetibile, ma sempre a un grado differente: a essere attualizzato in forma virtuale, accanto al trascorso apparentemente concluso, è il fascio delle sue possibilità rimaste incompiute […]. L’indicazione teologica secondo cui “il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione” mostra allora qui tutta la sua pregnanza politica».

17. Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, ed. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005, p. 223: «Perseo affronta malgrado tutto la Gorgone, e questo malgrado tutto – questa possibilità di fatto, a dispetto di una impossibilità di principio – si chiama immagine: lo scudo, il riflesso non sono soltanto la sua protezione, ma anche l’arma, l’astuzia, il mezzo tecnico di cui egli dispone per decapitare il mostro. All’impotente fatalità dell’inizio (“non si può guardare in faccia la Medusa”) si sostituisce la risposta etica (“ebbene, affronterò comunque la Medusa, guardandola altrimenti”) […]. Ecco perché un “rettangolo di trentacinque millimetri” […] “salva l’onore”, cioè salva almeno dall’oblio un reale storico minacciato dall’indifferenza. La dimensione etica non scompare nelle immagini; viceversa, nelle immagini essa si esaspera […]». Il corsivo è dell’autore.