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In questo episodio si parla di un videogioco piuttosto recente, Returnal [Housemarque, 2021], e in particolare di come Returnal, come altri titoli, si serva di una delle proprietà fondamentali di ogni esperienza videoludica, la ripetizione, a fini narrativi – e in particolare configurandosi, tramite la ripetizione, come trauma fiction interattiva.

Returnal è uno sparatutto in terza persona che racconta della vicenda di Selene, un’astronauta, che durante un viaggio spaziale riceve un segnale misterioso da un pianeta che manda in avaria i sistemi della sua navicella. La protagonista precipita sul pianeta e si trova alle prese con un ambiente abitato da alieni ostili e continua a cercare il segnale ricevuto nella speranza di trovare un modo per tornare a casa. Dopo poco, l’astronauta trova in giro per il pianeta il suo stesso corpo morto, delle registrazioni che lei stessa ha lasciato, e scopre di essere prigioniera di un loop temporale. Ogni volta che muore, uccisa dalle creature del pianeta, si risveglia nel momento stesso in cui precipita. Pur mantenendo i ricordi delle esperienze precedenti, scopre quindi di fatto di essere prigioniera del pianeta e di non poter morire: la morte non fa che riavviare il ciclo.1

Returnal usa a fini narrativi una delle caratteristiche peculiari del medium videoludico, ovvero la sua ripetibilità o reversibilità. Anche i videogiochi che a livello diegetico ignorano del tutto il concetto di loop sono, a ben vedere, dei loop: in quanto artefatti tecnologici digitali, non fanno che proporre a chi gioca un flusso in cui, a ogni errore, il mondo di gioco viene ripristinato a uno stato precedente (game over) in un ciclo infinito – o per meglio dire, una spirale infinita, essendoci sempre qualcosa che da un’iterazione all’altra del ripristino si mantiene, in certi casi anche soltanto l’esperienza acquisita dall’utenza. Returnal, come altri, si basa tutto sulla narrativizzazione di questa proprietà del virtuale: a ogni game over si parte daccapo, ma a ogni esperienza il mondo di gioco cambia, pur rimanendo una composizione degli stessi elementi di partenza. I livelli sono in altre parole generati proceduralmente a partire da una somma di atomi di base. A ogni partita, le competenze di chi gioca e di Selene aumentano, la sua conoscenza del mondo avanza, e al tempo stesso aumenta la capacità di affrontare le sfide che ha davanti. La struttura è quella di un roguelite, più che di un roguelike: non tutto si resetta da una partita all’altra, ma alcuni power-up ed equipaggiamenti permangono da un ciclo all’altro in modo da facilitare le partite successive.

Al fianco di questo, Returnal recupera due elementi ricorrenti nel filone, o per lo meno nelle sue articolazioni più recenti: le meccaniche da sparatutto e bullet-hell, qua trasposte in tre dimensioni rispetto ad altri titoli come The Binding of Isaac [McMillen, Himsl, 2011] ed Enter the Gungeon [Dodge Roll, 2016], e una difficoltà spiccata, soprattutto nelle prime fasi in cui ancora si devono sbloccare gli oggetti utili alla prosecuzione. Anche in seguito, Returnal insiste a proporre un livello di sfida estremamente elevato – del resto il gioco perderebbe senso qualora venisse completato in un numero esiguo di cicli, mentre invece la presenza e l’ossessività del loop assumono un senso solo nel momento in cui questo viene reiterato all’infinito.

Arriviamo ora agli aspetti più affascinanti di Returnal. Quel che emerge avanzando nei cicli ed esplorando sempre più a fondo il pianeta alieno è che sia il pianeta sia la stessa esperienza del loop non sono quel che sembrano sulle prime. Si inizia a capire man mano che la psiche della protagonista influenza pesantemente il pianeta, che presto si popola edifici o personaggi del suo passato. Andando più avanti, si scopre poi che forse il pianeta non è affatto un pianeta, e che Selene stessa forse non è un’astronauta, e che il viaggio spaziale non è un viaggio spaziale. Tutto ciò di cui si fa esperienza si svela, andando avanti, come una proiezione della psiche della protagonista, che ha proiettato le sue insoddisfazioni, il fatto per esempio di non essere diventata un’astronauta, le sue frustrazioni, i suoi irrisolti e in ultima analisi i suoi traumi in uno spazio oscuro e in un tempo ciclico.

Fin dalle prime ore, il gioco mescola il linguaggio della fantascienza e quello dell’horror psicologico: nel pianeta alieno incontriamo da subito spazi anacronistici e figure dal passato della protagonista.

In questi risvolti Returnal ricorda Silent Hill [Konami, 1999], o più precisamente Silent Hill 2 [Konami, 2001], soprattutto nel suo modo di recuperare l’immaginario del Solaris [1972] di Tarkovskij. Ruota in altre parole attorno a una Cosa che incunea, deforma e totalizza lo spazio dell’azione, e che dal dentro viene proiettata al fuori. Ne scrive ampiamente Žižek,2 rielaborando Lacan3. Žižek si concentra in particolare su Solaris, descrivendo il pianeta al centro del film come spazio-tempo in cui si manifesta il pensiero stesso, vera e propria ‘macchina dell’Es’ che dà modo al dentro di manifestarsi nel fuori, ricolmando il vuoto dell’esterno. In Solaris, come in Silent Hill 2, la Cosa dà origine a un oggetto costruito dal desiderio e dal rimorso – in entrambi i casi la moglie dei protagonisti. In Returnal il discorso è meno incentrato sul rapporto uomo-donna, ma ruota sempre attorno alla proiezione che è al contempo terrificante e perturbante. Le figure che Selene incontra durante la sua esplorazione, siano esse la creatura tentacolare degli abissi, l’astronauta giocattolo, e innumerevoli altre visioni, sono echi del trauma che ha subito e segno della sua responsabilità (percepita o effettiva) in esso. Come la donna in Solaris e Silent Hill 2, le presenze in Returnal sono al contempo incarnazioni dell’orrore dell’alterità assoluta (del pianeta alieno in questo caso) e la proiezione di un senso di colpa, di un desiderio. Si scopre così che il trauma di Selene, che ha perso il figlio in un incidente d’auto, è stato in un certo senso auto-indotto. Ha forse voluto perdere il figlio – ed è proprio questo che non riesce a superare.

La Cosa allo specchio: da Returnal Solaris, passando per Silent Hill 2.

Al discorso sulla Cosa e sulla fantascienza, quindi sullo spazio profondo e altro come pretesto per riflettere sul sé, Returnal abbina quello sulla ciclicità, proponendo una convergenza efficace tra il discorso meta-testuale, sulla diegetizzazione del gioco in quanto mondo dell’esperienza reversibile, e quello narrativo della Cosa in termini lacaniani. In particolare, Returnal rafforza i propri risvolti psicologici e i propri riferimenti psicanalitici tramite l’espediente del loop, utilizzandolo per raccontare il trauma.

Returnal racconta del trauma come di un terreno proibito. Nel gioco non si arriva mai a una vera e propria elaborazione del trauma della protagonista, tutt’altro. Volendo citare i trauma studies contemporanei definiremmo il trauma, sia a livello cognitivo che culturale, come una cesura tanto forte e prorompente da essere impossibile da elaborare.4 Il trauma rientra spesso nel rimosso, nel nascosto, ed è quello che succede anche in Returnal. La superficie fantascientifica di Returnal è increspata dall’eco del trauma, che affiora qua e là e determina l’azione nel gioco pur senza emergere in modo esplicito a livello narrativo. In Returnal l’esperienza di gioco è a posteriori del trauma. In questo senso il comparto fantascientifico, che è anche quello che la protagonista si immagina, altro non è che un modo per allontanare la realtà traumatica, per nasconderla. Questo lo si vede anche nelle meccaniche di gioco: in Returnal non si fa che saltare in giro, sparare, schivare colpi, raccogliere oggetti, conoscere dettagli di una generica civiltà aliena andata distrutta. Tutto quello che si fa, in altre parole, è ritardare, rimandare, o nascondere la scesa a patti con la realtà narrativa del gioco. In questo, diventa anche del tutto efficace il fatto che a livello di interazioni Returnal sia così difficile: è possibile, senza troppo sforzo immaginativo, che chi gioca resti letteralmente impelagato nella fantascienza e nel bagno di proiettili per decine e decine di ore, prima di arrivare a capire o formulare ipotesi su cosa stia accadendo davvero. Addirittura, ci si può rimanere imbrigliati per sempre qualora si smetta di giocare del tutto. Returnal utilizza meccaniche, atmosfera, e ambientazione per ‘occultare’ il proprio comparto narrativo, che diventa quindi un rimosso anche a livello esperienziale. In venti ore di gioco, non dedichiamo alle vicende traumatiche della protagonista più di una manciata di minuti. Il resto è letteralmente un naufragare in potenziamenti delle armi, nemici e pattern d’attacco, spostamenti per zone molto simili tra loro, districamenti in bagni di proiettili luminosi, e poi morte, morte di nuovo, morte ancora una volta, e innumerevoli tentativi tutti simili tra sé. In questo senso, Returnal fa un uso abbastanza efficace di quelli che a conti fatti potrebbero essere visti come dei limiti di integrazione tra meccaniche e narrazione: la ripetizione ossessiva, la costante scesa a patti con una ‘superficie’ delle cose che appare generica, derivativa e poco interessante rispetto al nocciolo del racconto, altro non sono che il fulcro vero e proprio del gioco. Come la protagonista rimuove il trauma e si imprigiona in un mondo pieno di alieni e sempre simile a sé stesso, così noi che giochiamo ci troviamo a vivere un flusso di gioco ottuso, che trova il suo senso proprio nel diventare ripetitivo e frustrante.

La difficoltà in Returnal consiste soprattutto nello schivare il gran numero di proiettili presenti a schermo, come da tradizione bullet-hell.

Returnal fa un uso interessante delle meccaniche sia sulla base di quanto detto ora sia per quanto riguarda l’uso del loop, tanto narrativo quanto di gameplay. Elemento comune del trauma per molti studiosi, a partire Freud, è il legame tra esperienza traumatica e coazione a ripetere. Scrive anche Ricoeur che quando la memoria viene bloccata, tanto a livello individuale e cognitivo, quanto culturale, si entra in un vero e proprio loop di evitamento, rimozione, e compulsione.5 La coazione a ripetere avviene nei termini della rimozione: si ripetono azioni senza essere consapevoli che si sono già compiute in precedenza, oppure che servano da evitamento per ciò che quelle stesse azioni ci impediscono di cogliere. Nel caso di Returnal, la coazione a ripetere del flusso di gioco rientra in questo secondo tipo: nel flusso di azione e sparatutto, la protagonista di fatto impedisce a sé stessa di ricordare quanto accaduto.

C’è poi, in molte coazioni a ripetere e in particolare in Returnal, un carattere compensativo: se il trauma è per il soggetto un momento di impossibilità, impotenza, o disempowerment, spesso nella coazione a ripetere si cerca invece un capovolgimento di ruoli. In Returnal questo avviene nei termini di empowerment videoludico: Selene non ha potuto salvare il figlio e nella sua avventura diventa un’eroina super-potente in lotta contro gli alieni, tra centinaia e centinaia di proiettili visibili a schermo. La difficoltà del gioco in questo senso serve anche da innesco per un senso di padronanza e soddisfazione maggiorato a sfide superate. A livello di meccaniche, Returnal propone una sfida difficile ma sempre superabile, e con crescente soddisfazione. A livello di narrazione, tutto questo altro non è che un modo di impedirsi di raggiungere la verità, tanto per la protagonista che per chi gioca.

Ecco allora che Returnal seguita un discorso sul trauma, e più nello specifico sulla psiche traumatizzata, che nel videogioco sembra trovarsi particolarmente a suo agio. Se il videogioco è ripetitivo, reversibile, e quindi ossessionato dalla ripetizione per sua stessa natura, si presta più che bene a raccontare la psiche traumatizzata e la coazione a ripetere che spesso contraddistingue il nostro rapporto col trauma. Questo ‘loop’, che va ad abbinarsi al loop di gameplay, si associa in particolare a meccaniche basate sulla ripetizione come quelle roguelite, ma anche in altri casi.

Il primo esempio che viene in mente è quello di The Binding of Isaac, forse capolavoro assoluto del filone. Nel gioco si controlla un bambino traumatizzato e suicida che, vestendo i panni di varie sue versioni alternative, non fa che rivivere all’infinito una impossibile liberazione dalla figura della madre. Tutto il gioco ruota attorno al rapporto tra Isaac, la madre e il padre, ed è affollato di creature, oggetti e simboli attraverso cui è possibile farsi un’idea della storia nel suo complesso. Storia che, in ultima analisi, non ci viene mai mostrata compiutamente. Anche in The Binding of Isaac c’è quindi una coazione a ripetere evidente, per completare il gioco è necessario un monte ore sconfinato, oltre le mille, anche in quel caso sostenuta dagli espedientit tipici del roguelite. Ogni volta Isaac deve affrontare il viaggio che va dalla cassa in cui si è chiuso all’utero materno. Anche in quel caso, il flusso di gioco principale serve quasi da ‘distrattore’: è un flusso ottuso, pieno di proiettili da schivare e oggetti da trovare, che quasi per sua stessa natura devia dal senso ultimo del racconto. È quindi anche questa una superficie che lascia soltanto affiorare il trauma del protagonista, nascondendolo sotto strati e strati di gioco e compulsione a ripetere. Di nuovo, tanto per il protagonista quanto per chi gioca – non a caso è del tutto possibile completare il gioco al 100% ignorando del tutto il comparto narrativo, o fraintendendolo.

In The Binding of Isaac troviamo un approccio alla trauma fiction interattiva simile a quello di Returnal. Anche qua, i vari rimossi del protagonista sono celati oltre un’esperienza di gioco ripetitiva e particolarmente sfidante.

Qualcosa di simile si trova anche in giochi non roguelite o roguelike. Un esempio abbastanza esplicito in questo senso è Silent Hill 4: The Room [Konami, 2004]. Il gioco ha una struttura lineare ed è diviso in due metà, la cui seconda parte è tutto un tornare sugli stessi luoghi, alle stesse situazioni, e alle stesse meccaniche. Anche in questo caso, c’è un intreccio significativo tra coazione a ripetere (e rivisitare, riesplorare gli stessi luoghi) e narrazione della psiche di un personaggio, con tutti i livelli che altro non sono che ricordi distorti della mente che ha intrappolato e infestato l’appartamento di Henry.

In P.T. [Kojima Productions, 2014], la demo giocabile e ormai rimossa dagli store del Silent Hill diretto da Hideo Kojima e Guillermo del Toro, la cosa appare con ancora maggiore forza. Nel gioco non si fa che riattraversare all’infinito un corridoio della stessa abitazione. Anche in questo caso, gli eventi che man mano rendono il luogo sempre più cupo e sinistro sono solo la superficie di una narrazione che, a ben vedere, si snoda tra indizi molto sottili. Anche qui, poi, la struttura di gioco ripetitiva a ben vedere racconta di una vita tranquilla sconvolta da un trauma – è quindi convergenza di trovate meta-narrative, uso consapevole (e autocritico) delle meccaniche di gioco, e comparto narrativo incentrato su psiche e trauma.

Returnal seguita un discorso che fa un uso autoriflessivo delle meccaniche di gioco e ambientazione con le finalità dell’horror psicologico. Lacan parlava dell’opera d’arte come bordatura di un vuoto originario, quello della Cosa appunto. In questi mondi di gioco, la bordatura è particolarmente evidente in quanto superficie che al tempo stesso circonda il rimosso, il trauma o il desiderio, e però al contempo non fa che renderlo più prorompente e disturbante (un po’ come, per rifarci di nuovo all’immaginario di Silent Hill, il telo che copre la sagoma sanguinolenta sulla sedia a rotelle). L’appartamento, il baule, la villetta su due piani, il pianeta alieno sono spazi che ‘bordano’ la Cosa, che la nascondono e al tempo stesso la fanno affiorare, che affiori poi sotto forma di un feto gigante, di una madre deforme, di una moglie defunta, di un astronauta o di un mostro tentacolare. E nello stesso tempo le meccaniche di gioco stesse sono ‘bordatura’ dello stesso vuoto – lo nascondono, lo vietano, eppure ne sono superficie ed espressione.

 

NOTE

1. Si è parlato di ciclicità di recente, proprio su questo podcast.

2. S. Žižek, The thing from inner space. On Tarkovsky, Angelaki, 4(3), 1999, pp. 221-231.

3. Per una trattazione sintetica, vedi M. Recalcati, Le tre estetiche di Lacan, The Symptom. Online Journal for Lacan.com, 6.

4. A titolo d’esempio, vedi C. Caruth (a cura di) Trauma. Explorations in Memory, Baltimore and London: The Johns Hopkins University Press, 1995, pp. 3-13.

5. P. Ricoeur, Memory, History, Forgetting, London: The University of Chicago Press, [2000] (2004).