Autore di un cinema inclassificabile e anarchico, narratore dei reietti e degli emarginati della società, Pedro Costa si è imposto negli ultimi due decenni come una delle figure cruciali del cinema d’autore portoghese. Con otto lungometraggi all’attivo, nonché un pungo di cortometraggi, alcuni dei quali inseriti in opere collettive – pensiamo a Lo stato del mondo [O Estado do Mundo, 2007] e Centro Histórico [id., 2012] –, Costa è indubbiamente uno dei più originali sperimentatori contemporanei della settima arte. Appare dunque necessario se non inevitabile ripercorre e sistematizzare il percorso artistico compiuto dal regista lusitano nell’arco di più di trent’anni, ond’evitare quei fraintendimenti che un’opera di tale complessità può comportare. A colmare il vuoto bibliografico italiano su Pedro Costa ci ha pensato la Bébert Edizioni, casa editrice bolognese attenta alle realtà più radicali e importanti del cinema contemporaneo – come dimostra, d’altronde, la precedente monografia dedicata al cinema di Béla Tarr1.
Questi fiori malati – così titola il libro scritto da Michael Guarneri, già curatore della succitata monografia su Tarr – non è difatti solo un’approfondita introduzione al cinema di Pedro Costa; per certi versi, il libro assume i tratti di un «diario ufficioso» del regista, raccontandoci i suoi primi passi nel mondo del cinema, le sconfitte, i successi, e, soprattutto, l’appassionata ricerca di quella “forma cinematografica” a lui più congeniale.
Partendo dalla realtà portoghese della metà degli anni Settanta, dalla passione per il punk e la new wave, per il cinema classico hollywodiano e per i grandi maestri della modernità, il libro ricostruisce le tappe fondamentali che hanno portato Costa a divenire un regista di riferimento, premiato e stimato in tutto il mondo – come dimostra la premiazione al Festival di Locarno, nel 2014, del suo ultimo capolavoro, Cavallo Denaro [Cavalo Dinheiro].
Cavalo Dinheiro.
Una monografia come una sorta di diario, dicevamo. Sì, perché il libro si caratterizza, in primis, per il vasto uso di citazioni e dichiarazioni riportate all’interno del testo. Ciò, probabilmente, per non tradire o per non allontanarsi troppo dalle intenzioni poetiche di Costa, e, al contempo, per restituire al lettore i sogni artistici inseguiti e raggiunti dal regista di Ossos [id., 1994]. Quei fiori malati si apre e si chiude, infatti, con due “lettere aperte” indirizzate al regista da parte dell’autore; lettere che, indirettamente, definiscono l’approccio stesso della monografia, caratterizzata da un’attenta ricerca e da una precisa ricostruzione della genesi delle singole opere e della loro realizzazione. Ciò, a scapito della mera interpretazione testuale, spesso confinata nella parte finale dei singoli capitoli.
In un periodo di scritture frenetiche, di recensioni di “pancia”, di tweet e di post, Quei fiori malati va per così dire controcorrente, non proponendo al lettore percorsi puramente ermeneutici ma trasportandoci idealmente in quei luoghi dove gli stessi film sono stati girati, facendoci così rivivere le difficoltà e gli entusiasmi incontrati da Costa durante la loro realizzazione.
Ne change rien [id., 2009].
Assolutamente necessario risulta, dunque, il primo capitolo, di pura collocazione biografica e storica, nel quale vengono messe a fuoco le tensioni politiche e sociali del Portogallo dalla seconda metà degli anni Cinquanta (periodo in cui nasce Costa) fino alla fine degli anni Ottanta (ovvero, gli anni corrispondenti al debutto del regista nel lungometraggio con O Sangue [id., 989]). Si tratta di un periodo turbolento, contraddistinto dalla dittatura di Salazar, dalla politica coloniale, e che troverà la propria “esplosione” nella cosiddetta Rivoluzione dei Garofani, nella metà degli anni Settanta.
Costa, figlio di una famiglia medio borghese, vive queste realtà di rimando, calandosi sempre più nel mondo artistico della controcultura giovanile, iscrivendosi ad una scuola di cinema, seguendo le lezioni del maestro António Reis, e realizzando i suoi primi lavori per la televisione. Verrà poi O Sangue, opera prima che, come suggerisce Guarneri, rappresenterà una sorta di commiato, di addio alle passioni cinefile della giovinezza.
O Sangue.
È infatti attraverso i due lungometraggi successivi, Casa de Lava [id., 1994] e Ossos, che, come specifica il libro, Costa compie i passi più importanti verso la definizione estetica e politica del suo cinema: un progressivo abbandono della fiction in senso stretto, dei grandi mezzi di produzione (la separazione dal celebre producer del cinema d’arte europeo Paulo Branco), «delle troupe e dei camion», per dirla con Costa, in favore di un lavoro sempre più intimo e personale, tutto concentrato nel barrio lisbonese di Fontaínhas. In particolare, l’interesse di Costa si concentra sulla figura di Vanda Duarte, giovane tossicomane già interprete, con la sorella Zita, di Ossos e protagonista indiscussa del primo capolavoro del regista, No Quarto de Vanda [id., 2000]. Sono, queste, le pagine più appassionanti del libro, ovvero quelle che ci permettono di scrutare dal “buco della serratura” un regista che insegue una personalissima idea di cinema in perenne equilibro tra documentario e finzione. Con la giovane Vanda, spiega Guarneri, Costa prova fino allo sfinimento per ottenere quella performance che solo lui ha in mente; «una bressoniana progressione verso l’esattezza»2, sempre a contatto diretto con i suoi interpreti.
No Quarto de Vanda.
Il cinema della maturità di Costa si sviluppa attorno ai suoi sfortunati protagonisti, che rivivono la loro vita e i loro fantasmi davanti allo schermo del macchina da presa. È il caso di Ventura, alias José Tavares Borges, possente capoverdiano che, dopo Vanda, diviene il volto del cinema di Costa dalla metà degli anni Duemila fino ad oggi. Da Juventude Em Marcha [id., 2006] fino al già citato Cavalo Dinheiro, passando per alcuni corti, Ventura diviene metafora vivente del fallimento dell’integrazione degli immigrati capoverdiani nella capitale lusitana.
Parimenti, il suo cinema sperimenta sempre più a fondo le possibilità linguistiche del digitale, raggiungendo una forma estetica pressoché definitiva, sempre più stilizzata, memore non solo dei grandi modelli americani (John Ford, Jacques Tourneur, Fritz Lang) ma anche europei – su tutti, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, la mitica coppia di registi che Costa ha modo di conoscere, riprendendoli durante il montaggio di Silicia! nel documentario Où gît votre sourire enfoui? [id., 2001].
Juventude Em Marcha.
Ma questi sono solo alcuni dei tanti percorsi che Questi fiori malati propone. Sarà compito del lettore avventurarsi in questo appassionante racconto di uno dei registi più iconoclasti, complessi e personali oggi in attività.
NOTE
1. M. Grosoli, Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr, Bébert Edizioni, Bologna, 2014.
2. M. Guarneri, Questi fiori malati. Il cinema di Pedro Costa, Bébert Edizioni, Bologna, 2017, p. 118.