Introduzione

Negli Stati Uniti, la pratica del remake ha goduto di un’attenzione in costante crescita nell’arco dell’ultimo cinquantennio. Analogamente ai sequel, prequel, reboot e spin-off, i remake sono stati spesso identificati come esponenti della contemporanea cultura del riuso, evidenti manifestazioni della crisi creativa di Hollywood e della sua incapacità di prendersi qualsivoglia azzardo commerciale. Nel nostro articolo adottiamo una prospettiva di carattere diacronico e quantitativo per analizzare e interpretare i metadati disponibili relativi a 986 remake hollywoodiani prodotti tra il 1915 e il 2020. La nostra ricerca mostra il numero di remake americani realizzati anno per anno, la loro incidenza sul totale di film prodotti annualmente, la percentuale di remake presenti tra i film più visti dagli utenti di IMDb così come l’intervallo temporale che separa il remake dalla versione originale e l’evoluzione della percentuale di remake il cui titolo è in tutta evidenza riconducibile a quello dell’originale. Abbiamo dimostrato che la convinzione secondo cui la contemporaneità è il periodo in cui emerge un maggior grado di derivatività proviene in realtà da un fattore psicologico noto come availability bias (determinato dalla maggior disponibilità di statistiche riferite alla produzione recente e a una superficiale analisi dei dati storici) e da conclusioni pregiudiziali dovute alla diversa funzione e al prestigio attribuito alle operazioni di remake da parte dei registi della Hollywood classica e della New Hollywood.

(Traduzione di Stefano Caselli, Alberto Libera e Nicolo Vigna. Testo pubblicato originariamente su Journal of Adaptation in Film & Performance, Volume 15, Issue 3, Dec 2022, p. 211 – 226)

Teorizzare i remake

Il dibattito sul presunto esaurimento creativo del cinema hollywoodiano imperversa ormai da anni, trovando grande riscontro nella critica e suscitando altrettanto interesse tra gli studiosi di cinema (cfr. Druxman 1975; Mazdon 2000; Pallister 2019). Il principale oggetto del contendere riguarda la scarsa quantità (percepita) di sceneggiature di successo basate su idee originali, sostituite negli ultimi decenni non solo dalle più tradizionali tipologie di adattamento letterario ma anche dal ricorso a formule di ripetizione ormai collaudate come remake, sequel, prequel, spin-off e reboot (cfr Avram 2013; Klein e Palmer 2016). Un esempio significativo è stato il periodo compreso tra il 2017 e il 2019, quando per tre anni consecutivi nessun film basato su un’idea originale è apparso tra i primi dieci titoli al botteghino statunitense. Situazioni simili si sono verificate in precedenza nel 2011 e nel 2014.
Gli studiosi cercano di fornire spiegazioni convincenti per l’evoluzione della cosiddetta re-culture (Avram 2013) o recycled culture (Dika 2003), che vanno dal ricorso ad analisi di natura prettamente finanziaria incentrate sul modello di franchising del cinema hollywoodiano (cfr. Basuroy e Chatterjee 2008; Bohnenkamp et al. 2015) alle analogie culturali con i campi della musica, della letteratura e dell’intrattenimento digitale (es. Smith 2009) fino alle argomentazioni filosofiche sul significato postmoderno dell’esaurimento culturale, della ripetizione permanente e della fine della storia (cfr. Varndell 2014).
Insieme all’adattamento cinematografico di testi letterari è soprattutto il remake (al cinema e in tv) ad aver attirato una notevole attenzione da parte degli studiosi – benché la pratica di rifare film di successo e aggiornarli sulla base dei progressi tecnologici, del gusto e del contesto culturale e politico sia vecchia quasi quanto il cinema. Questo ceppo di studi cinematografici è fiorito negli ultimi due decenni circa (Cuelenaere 2020: 210) di pari passo con la diffusione ubiquitaria e la popolarità dei remake stessi – dagli adattamenti cinematografici di vecchie serie TV negli anni ’90 alle versioni americane di film horror asiatici negli anni 2000 fino ai recenti adattamenti live action dei grandi successi animati Diseny, voluti dalla casa di produzione stessa (cfr. Horton e McDougal 1998; Loock e Verevis 2012).
Come sostiene Verevis, tale proliferazione di remake (e sequel), che è «forse più percepita che reale», è spesso associata alla crisi creativa dell’industria cinematografica hollywoodiana, che sua volta si traduce in «strutture dalle trame conservatrici» (Harvey citato in Verevis 2004: 88) e in forme «automatiche di auto-cannibalizzazione» (Miller citato in Verevis 2004: 88). Si lega inoltre alle «finalità puramente commerciali perseguite delle grandi società conglomerate di Hollywood» (Verevis 2004: 88) orientate a capitalizzare su strutture già collaudate. 
Secondo Verevis, il cui lavoro è stato ispirato da Simonet (1987) e da diversi studiosi del cinema di genere (Kolker 1998; Neale 1990; Altman 1999), «come proprietà istantaneamente riconoscibili, i remake (insieme a sequel e serie) soddisfano l’esigenza tipicamente hollywoodiana di fornire affidabilità (ripetizione) e novità (innovazione) all’interno dello stesso involucro produttivo» (2004: 88). In questo modo consentono ai registi di riutilizzare «celebrità legate a contratti di esclusiva, personaggi di finzione protetti da licenza, processi brevettati, modelli narrativi ed elementi di genere – attraverso i quali Hollywood si assicura «ampie fette di pubblico ancor prima della realizzazione del progetto» (Verevis 2004: 88).
Gli studiosi si sono sforzati di delineare il fenomeno nel modo più chiaro possibile, ma questa categoria – come tutte le categorie concettuali – ha confini sfumati. Nel suo importante libro Film Remakes (2006: 1), Verevis cita tre definizioni fondamentali di remake: «film basati su una sceneggiatura precedente» (Mazdon 2000: 2), «nuove versioni di film esistenti» (Grindstaff 2001: 134) e «film che in un modo o nell’altro dichiarano di rifarsi a uno o più film precedenti» (Horton e McDougal 1998: 3). Labayen e Morán li intendono come «processi di adattamento narrativo, estetico e culturale» (citato in Cuelenaere 2020: 4) di produzioni pre-esistenti. Leitch, invece, definisce concettualmente il remake come «un film basato su un altro film o che si misura con un altro film basato sulla stessa proprietà intellettuale» (1990: 138), aggiungendo inoltre che «ogni adattamento cinematografico è definito dal suo uso legalmente autorizzato di materiale proveniente da un modello precedente», ma specifica che «di tutti i diversi tipi di adattamento, solo i remake si misurano direttamente e senza compensazioni legali o risarcimenti economici con altre versioni della stessa proprietà» (1990: 138). La spiegazione di Leitch rivela problemi metodologici connessi a un’analisi di ordine tassonomico e ontologico del concetto di remake; per elaborare una definizione di questa categoria è necessario chiarire se al suo interno vadano inclusi anche i riadattamenti di fonti letterarie precedenti e altre forme intertestuali onnipresenti al cinema, come p.e. l’aggiornamento o il pastiche. Simili considerazioni possono suonare eccessivamente pedanti e filosofiche; per questo Verevis propone di prendere in considerazione fattori istituzionali, industriali e di ricezione, affermando che «il rifacimento di un film non è semplicemente una questione di testi o spettatori, ma è una specie di “sottoprodotto” o comunque il risultato secondario di un’attività discorsiva più ampia» (2006: 2) e in quanto tale va analizzato come forma industriale e testuale e come categoria critica. E aggiunge che «l’onnipresente desiderio di ricorrere a strumenti analitici immutabili e facilmente identificabili nonché il tentativo di circoscrivere la produzione cinematografica all’interno di un limitato “corpus di testi”» (Altman citato in Verevis 2006: 1-2), che lo stesso Verevis biasima nei suoi studi, sono in verità preoccupazioni metodologiche valide per ogni analisi quantitativa della pratica del remake basata su un numero prescelto di testi, come sarà dimostrato più avanti.
Nel corso degli anni, questo crescente volume di ricerche sui remake ha visibilmente guadagnato in raffinatezza mostrando una grande varietà di prospettive: dai paper più smaccatamente teorici (cfr. ad esempio Leitch 1990; Forrest e Koos 2002a; Verevis 2006; Smith 2017; Cuelenaere 2020) agli studi relativi a specifici casi di produzione e ricezione (cfr. ad es. Dönmez 2018; Franciotti e Sbravatti 2019; Boczkowska 2021). Molte di queste ricerche hanno posto l’accento sulla produzione cinematografica recente e la maggior parte ha adottato un approccio meramente qualitativo alla pratica del remake, selezionando esempi destinati a essere rappresentativi di tutto il settore.
Anche se non sussiste niente di sbagliato in queste due tendenze, riteniamo che esse debbano essere però integrate da un approccio quantitativo di carattere storico e diacronico. Come Forrest e Koos hanno osservato,

rimproverare Hollywood per la sua ideologia imperialistica di natura commerciale-industriale serve solo a nascondere la pervasività del remake come pratica cinematografica generale […]. Senza i vantaggi forniti da un quadro più generale, questa visione non può che essere limitata e quindi distorta. (2002b: 28)

Impiegando metodologie di analisi proprie di un campo di ricerche in rapida espansione come quello dell’umanesimo digitale, che consentono di avere un ampio contesto storico di riferimento ricorrendo ad analisi computazionali basate sui dati (cfr. Moretti 2013) e su principi statistici di base, noi speriamo di fare proprio questo: dipingere un quadro più ampio sulla scorta di quanto sostenuto da Forrest e Koos (2002b) e quindi gettare nuova luce su eventi comuni, presupposti impliciti e fenomeni spesso trascurati. Miriamo anche a dimostrare l’efficacia dei metodi quantitativi nell’ambito dei film studies – una piccola ma promettente area di ricerca (cfr. ad es. Salt 2009, 2016; Bateman et al. 2016; Cutting et al. 2011; Heftberger 2018; Hołobut e Rybicki 2020; Tinits e Sobchuk 2020).

Contare i remake

Il fine di questa ricerca era quello di mettere in relazione il patrimonio di conoscenze condivise in merito alla proliferazione della pratica del remake nella Hollywood contemporanea con dati concreti relativi al passato, mossi non solo dall’intenzione di determinare quanti remake sono stati prodotti nella storia del cinema americano ma altresì d’identificare importanti tendenze e consuetudini che possono aiutare a valutare il fenomeno con maggiore profondità. Questo tentativo non è del tutto privo di precedenti: già nel 1987 Thomas Simonet ha sondato un vasto campione composto da 3490 lungometraggi prodotti a intervalli di tre anni tra il 1940 e il 1979 allo scopo di trovare quelle che ha definito «sceneggiature riciclate» (remake, sequel e serial) così da misurare l’impatto sull’originalità della produzione cinematografica determinato dall’acquisizione degli studi hollywoodiani avvenuta per mano di alcune società conglomerate dagli anni ‘60 in poi (Simonet 1987). Ha scoperto che «le produzioni originali sono significativamente minori nei periodi caratterizzati da grandi volumi produttivi che in quelli del controllo conglomerato» (Simone 1987: 161), smentendo così il diffuso pregiudizio che la corporativizzazione dell’industria cinematografica americana abbia accelerato la pratica del riuso delle sceneggiature. Trent’anni dopo, Stephen Fellowes (2015, 2018) ha presentato il risultato di alcuni calcoli effettuati partendo dalla recente ondata di remake che ha caratterizzato la produzione mainstream americana per dimostrarne la loro specifica funzione così come la loro onnipresenza. Significativamente, le sue stime prendono in considerazione solo film prodotti tra il 2005 e il 2017, la qual cosa ha suscitato l’interesse di diversi altri autori in merito alle contemporanee operazioni di remake.
Tuttavia, per tracciare l’evoluzione della pratica hollywoodiana del remake da una prospettiva prettamente quantitativa è necessario espandere radicalmente l’ambito della ricerca per non cadere nel rischio della frammentazione in cui sono incorsi gli studi precedenti. Per un’analisi su larga scala è perciò necessario accumulare il maggior numero d’informazioni, anche se il procedimento porta già in dote un primo ostacolo, ovvero la difficoltà di accesso ai dati. Da questo punto di vista, esiste un grande potenziale ancora inespresso che risiede nella vaste raccolte online di metadati, aggregate da vari siti web come p.e. Internet Movie Database (imdb.com), il portale online che include il maggior numero d’informazioni sui film. I suoi redattori (con l’indispensabile aiuto di tantissimi utenti) raccolgono e verificano credits, riassunti delle sinossi, particolari sulla distribuzione e molto altro ancora, inclusi i tag che segnalano determinate caratteristiche del singolo film. Uno di questi tag è proprio quello che designa il remake, sovente accompagnato da informazioni sul materiale di partenza (presente in una sezione chiamata «Connessioni»). Grazie agli opportuni filtri, IMDb cataloga un totale di 2014 film americani contrassegnati con l’etichetta di «remake», prodotti tra il 1915 – l’anno di The Soul of Broadway [id., Herbert Brenon], il primo remake in ordine cronologico presente in questo dataset – e il 2020, che invece costituisce la nostra soglia più recente.
Questo elenco è servito come base per la nostra panoramica storica, anche se integrato da costanti confronti con ulteriori fonti online e cartacee che hanno rivelato numerose incongruenze o errori commessi da redattori e utenti di IMDb. I più comuni erano l’inclusione tra i remake di differenti adattamenti di una fonte letteraria o teatrale non correlati alle versioni precedenti, di film dai titoli simili o identici ma privi di legami tra loro, di opere liberamente ispirate ad altre, parodie o cut alternativi di un singolo film. Limitando il nostro elenco a quelli che Leitch chiama «veri remake» (1990: 145), definibili come aggiornamenti di modelli cinematografici originali, abbiamo escluso tutti i film appartenenti alle casistiche sopraccitate oltre a un considerevole nucleo di titoli sui quali non è stato possibile effettuare alcuna verifica. Ciò significa p.e. che non è stata inclusa nessuna delle quattro versioni cinematografiche della popolare commedia di Broadway Prima pagina scritta da Ben Hecht e Charles MacArthur poiché considerate come differenti adattamenti dello stesso materiale letterario e non come remake, a prescindere dalle loro reciproche influenze. D’altro lato, il nostro dataset include Psycho [id., 1998] di Gus Van Sant, che è un remake inquadratura per inquadratura del classico di Alfred Hitchcock e perciò si ricollega «geneticamente» al suo predecessore e non è invece liquidabile semplicemente come un secondo adattamento del romanzo di Robert Bloch. Lo stesso vale per i reboot di franchise molto popolari, che compaiono nella nostra lista solamente se basati su modelli cinematografici (è il caso per esempio di Godzilla [id., Gareth Edwards, 2014]) e non su altre forme di proprietà intellettuale quali fumetti, videogiochi ecc. Abbiamo inserito anche alcuni titoli assenti dal dataset di IMDb ma identificabili come remake grazie al supporto di altre fonti, soprattutto l’American Film Institute Catalog e il monumentale libro di consultazione Cinema Sequels and Remakes, 1903-1987 scritto da Robert A. Nowlan e Gwendolyn Wright Nowlan.
Ciò ci ha permesso di compilare un elenco di 986 remake di lungometraggi prodotti negli Stati Uniti tra il 1915 e il 2020. Vista la confusione relativa alle possibili definizioni di remake e fenomeni correlati (vedi capitolo precedente), questo non è chiaramente un elenco definitivo ma crediamo che presenti un quadro sufficientemente accurato delle operazioni di remake avvenute nel corso dei decenni del cinema americano. Inoltre, le analisi statistiche tendono a rilevare mode e tendenze indipendentemente da singoli casi che possono rivelarsi imprecisi.
Allora, che cosa ci rivela questa collezione di dati? Anzitutto, anche se la media di remake prodotti è di circa nove all’anno, la distribuzione degli stessi non è omogenea. Se li disponiamo in un grafico che mostra la produzione annuale di remake nell’ambito dell’industria americana (Figura 1) appaiono immediatamente evidenti alcuni schemi ricorrenti. Infatti, colpisce subito la forma a U assunta dal grafico stesso. La maggior parte degli studi più autorevoli sul remake riconoscono la longevità storica di questa pratica risalendo alla fine del XIX° secolo (qui omesso per via della nostra attenzione riservata al lungometraggio come espressione privilegiata dall’industria cinematografica, non paragonabile ai modelli operativi del cinema delle origini) senza che la cosa abbia mai portato a una riflessione seria sulle dinamiche storiche del fenomeno. Inoltre, questo grafico mostra che non solo il volume dei remake prodotti è cambiato nel corso del tempo ma si è anche modificato in maniera abbastanza regolare, con due picchi distinti: uno tra la fine degli anni ‘30 e l’inizio degli anni ‘40 e uno collocato negli anni ‘90 e Duemila. Bisogna anche aggiungere che è durante il primo di questi due intervalli a essersi verificata la più grande proliferazione di remake nella storia del cinema americano, con i suoi 350 film che costituiscono più di un terzo del totale complessivo (per fare un confronto: sono solamente 270 i remake prodotti durante il secondo picco tra gli anni Novanta e Duemila). 

remake percentualeFigura 1: Numero di remake hollywoodiani anno per anno (1915-2020)

remake percentuale su totaleFigura 2: Percentuale di remake sul totale dei film prodotti (1915-2020)

Al contrario, gli anni Settanta rappresentano il punto minimo, con soli tre remake prodotti nella prima metà del decennio.
Questo contraddisce fortemente l’ipotesi invalsa e quasi mai messa in discussione che vede la pratica del remake come predominante nel cinema contemporaneo. Certo, un lettore scettico potrebbe essere riluttante a confrontare queste statistiche dal momento che l’intero volume della produzione americana è cambiato nel corso del tempo; ma è possibile aggiustare il tiro creando una relazione diretta tra il numero totale di film prodotti ogni anno e quello più specifico dei remake realizzati nello stesso intervallo di tempo, sulla base delle informazioni fornite dall’American Film Institut Catalog e dei numeri estrapolati dal web (Figura 2). Ne risulterebbe una linea tutto sommato piatta dovuta alla sostanziale diminuzione della produzione durante gli anni ‘60, ‘70 e ‘80 (cfr. Forrest e Koos, 2002b: 23) e all’altrettanto sostanziale rimbalzo avvenuto negli ultimi due decenni (quando la produzione annuale ha superato quota cinquecento titoli – una quantità paragonabile a quella dei film prodotti durante il boom della Seconda Guerra Mondiale – e che ha raggiunto quota 1680 film realizzati nel 2019). Ciò significa che, a prescindere dall’angolo di visuale adottato per studiare il fenomeno, la Hollywood classica è stato il periodo più prolifico per quanto concerne la pratica del rifacimento di materiale pre-esistente. 

Interpretare i metadati sui remake

Questa conclusione può suonare alquanto inaspettata se pensiamo al fatto che gli studi sui remake prendano in considerazione perlopiù periodi recenti. Non resta allora che trovare una spiegazione soddisfacente. Perché ci concentriamo tanto sul ruolo del remake nel cinema americano contemporaneo e trascuriamo la forte pervasività storica di tale pratica? Per rispondere alla domanda mescoleremo analisi storica e analisi dei dati ottenuti così da validare le nostre ipotesi sulla base delle statistiche disponibili.
Anzitutto, l’illusione di una crescente derivatività della produzione hollywoodiana è spiegabile rifacendoci al concetto di euristica della disponibilità (o availability bias, ndt), della quale cadono vittima recensori e commentatori contemporanei. Il termine viene dalle scienze cognitive e dalla psicologia comportamentale e descrive la nostra tendenza a dare priorità o maggiore attenzione ai dati più immediatamente disponibili, ignorando di conseguenza altre informazioni (cfr. Gilovitch et al. 2002). Cosa c’entra questo coi nostri dati? Per chiarirlo, anzitutto dobbiamo riflettere sull’importanza che gli anni Settanta rivestono all’interno del dibattito popolare sul cinema americano. Dopo la crisi dell’industria alla fine degli anni Sessanta, nel decennio successivo si è verificato un processo di svecchiamento e rinnovamento del linguaggio cinematografico: non solo è nata allora la cosiddetta New Hollywood, ma sono emerse anche le formule del blockbuster e, più tardi, del franchise cinematografico. Sempre in quegli anni il mercato si è evoluto in modo tale da portare, attraverso diversi processi di assimilazione che hanno coinvolto le case di produzione, alle strutture corporative di oggi. È negli anni Settanta che molti registi come George Lucas e Steven Spielberg, attivi ancora oggi, hanno iniziato le loro carriere – e che sono state lanciate molte serie di film tra le più amate di sempre. Possiamo considerare gli anni Settanta come il punto di partenza della Hollywood moderna e del «cinema come lo conosciamo» – ovvero la culla dell’industria cinematografica di cui tutt’oggi facciamo esperienza.
Ed è proprio in questo periodo che si registra una drastica diminuzione del numero di remake hollywoodiani di film nazionali e stranieri. Come spiegano Forrest e Koos (2002b: 23), «questi anni segnavano la transizione dalla vecchia alla nuova Hollywood, e quindi la trasformazione della produzione e del marketing, sempre più orientati verso un pubblico nuovo e più giovane. Gli anni Sessanta e Settanta videro una vasta ri-distribuzione di vecchi film, come Via col vento (1939, ri-distribuito nel 1967-68) e Tutti insieme appassionatamente (1965, ri-distribuito nel 1973)» (Forrest e Koos 2002b: 23). Ciò che l’industria cinematografica un tempo avrebbe rifatto, adesso lo ricommercializzava. Gli autori, seguendo Ray (1985), notano che dal 1966 al 1977 Hollywood ha anche portato alla «più grande produzione di sequel di sempre», una pratica che per quanto non dissimile da quella del remake certifica tuttavia un ben diverso trend culturale. Spiega Ray (citato in Forrest e Koos 2002b: 23) che la Hollywood classica aveva «relegato definitivamente i sequel allo status di film di serie B, preferendo invece seguire la scia dei grandi successi riciclando attori in ruoli sostanzialmente simili» (Casablanca [id., Michel Curtiz] del 1942 ha ispirato Il giuramento dei forzati [Passage to Marseille, Michael Curtiz] del 1944; ad Acque del Sud [To Have and Have Not, Howard Hawks] del 1944 si ricollega Il grande sonno [The Big Sleep, Howard Hawks] del 1946). La New Hollywood è stata invece ben meno flessibile ed è andata costruendosi massicciamente su «”proseguimenti” di film di successo», al punto che «un terzo dei 220 film più redditizi di quegli anni sono stati sequel o film che comunque aprivano la strada a uno o più sequel» (1985: 262). In quegli anni, il vecchio studio system tramontava mentre salivano alla ribalta i registi della New Hollywood (Ray 1985: 266-267). Influenzati dalla Novelle Vague francese, questi ultimi si rivolgevano al pubblico «frammentato del dopoguerra», per il quale i remake non erano poi così interessanti. Dalla metà degli anni Ottanta, comunque, Hollywood è poi tornata alla pratica del remake (Forrest e Koos 2002b: 23).
Difatti, è in tale circostanza che entra in azione l’availability bias: benché l’immaginario culturale ritenga il periodo che va dagli anni Settanta in poi come il più rigoglioso della storia del cinema, il nostro grafico indica invece qualcosa di ben diverso. Escludendo alcuni sporadici casi risalenti ai primi anni Settanta, nella metà di destra vediamo il numero di remake crescere costantemente, per quanto di poco (circa quattro o cinque l’anno) verso la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, fino a raggiungere cifre doppie negli anni Novanta e Duemila (il punto più alto è raggiunto nel 2009, anno di produzione di ben 23 remake). Questa dinamica spiega in parte come mai associamo il «vecchio cinema» a una scarsa presenza dei remake, se non addirittura alla loro totale assenza, mentre siamo inclini a pensare il «nuovo cinema» come terreno di coltura per un crescente numero di rifacimenti, con tutta probabilità estendendo il trend anche a un passato di cui generalmente non si possiede una conoscenza approfondita.
In ogni caso, almeno qualche appassionato, storico o critico ben ferrato sulla Hollywood classica non dovrebbe essere soggetto a tale bias. E invece anche costoro, per lo meno a giudicare dal corpus di ricerche in materia, sembrano non associare il cinema classico americano degli anni Trenta e Quaranta alla proliferazione dei remake. Come potremmo spiegare altrimenti l’ossessione contemporanea per il tema, evidente sia in ambito accademico che professionale?Possiamo tornare alla nostra ipotesi dell’availability bias ma formularla in modo un po’ più sofisticato in relazione a tutta la storia del cinema americano. Dopotutto, forse non è la nostra scarsa conoscenza del cinema classico hollywoodiano a mettere in secondo piano la proliferazione di remake di quegli anni, ma la nostra memoria selettiva relativa a quello stesso periodo, basata su gerarchie culturali. In altre parole, forse i remake di oggi sono meno numerosi ma più significativi all’interno del dibattito cinematografico contemporaneo rispetto ai loro predecessori? Anche una simile domanda può essere soggetta a un’analisi quantitativa e verificata empiricamente.
In questo ci possono aiutare i metadati di IMDb. Tra le funzioni principali del portale c’è proprio quella di misurare la popolarità dei film attraverso i voti dell’utenza. Ogni pagina – di film o serie tv – può essere votata da 1 a 10, e un complicato l’algoritmo calcola una media ponderata al fine di determinare un punteggio finale. Usando questi dati possiamo fare una stima di quali film siano (ancora) guardati e apprezzati dal pubblico. Per ovvie ragioni, produzioni recenti generano molto più interesse dei classici, finanche dei più amati, quindi effettuare una comparazione diretta avrebbe ben poco senso. Possiamo però misurare la popolarità di certi film in relazione all’anno di produzione, ovvero controllare se un particolare film risulta essere tra i più popolari della sua epoca. Non siamo interessati a quali remake classici gli spettatori considerino di successo, ma a quanti di questi siano invece conosciuti. Di conseguenza la nostra scala non considera la popolarità di un film ma il numero di persone che l’ha visto e valutato (Figura 3) – in effetti, per quanto brutto un film può comunque essere parte della storia del cinema.

remakeFig. 3: numero di remake tra i 100 film più visti di ciascun anno (1915-2020).

Queste statistiche possono sollevare una serie di obiezioni. Anzitutto, si potrebbe chiedere come mai misuriamo la popolarità dei remake degli anni Trenta e Quaranta tra gli spettatori contemporanei. La risposta è duplice: anzitutto, è difficile raccogliere dati altamente significativi riguardanti il pubblico del passato (per esempio sui box-office), tanto che molti studi accademici sul tema si basano su informazioni frammentarie o incomplete (cfr. Glancy e Sedgwick 2012; Snelson 2017); in secondo luogo, anche fosse possibile raccogliere dati precisi sul numero dei remake classici e suoi loro spettatori, ciò risulterebbe comunque irrilevante ai fini di un’analisi della percezione contemporanea di quegli stessi film, che è invero ciò che concerne il presente studio. Un altro potenziale problema con questi risultati è che presentano solo valori nominali. Tale questione può essere risolta facilmente, calcolando quanti tra tutti i remake prodotti siano entrati nella top 100 dei film più visti al giorno d’oggi suddivisi anno per anno (Figura 4).
Vediamo chiaramente che per quanto la maggior parte dei remake sia stata prodotta negli anni Trenta e Quaranta, nessuna di tali operazioni rientra in quello che viene comunemente definito come il canone del cinema classico. In altre parole, questi remake vengono visti di rado dalla maggior parte degli spettatori, appassionati o studiosi. Sono film che non hanno conquistato un posto nella memoria collettiva del cinema americano. Solo il 18 percento dei remake di quel periodo rientra tra le produzioni più viste dell’epoca, mentre quasi la metà (199 su 423) di quelli prodotti negli ultimi quarant’anni rientra tra i 100 più visti, diventando di diritto il piatto principale di ogni dieta cinefila. La differenza è ancora più evidente se consideriamo i più grandi successi – ovvero i film che rientrano nella top ten dei più visti dei singoli anni: solo tre tra quelli prodotti tra 1931 e 1950 e ben 12 tra il 1991 e il 2010.

remake 100 film popolariFigura 4: percentuale di tutti i remake prodotti che rientrano nella top 100 dei film più popolari di un determinato anno (1915-2020).

Fornire una spiegazione per questo fenomeno andrebbe ben oltre il proposito di questo studio e richiederebbe una prassi metodologica assai più precisa, basata sull’analisi dei film stessi, sulle strategie di produzione e di marketing degli studi cinematografici e della ricezione critica del tempo. È una direzione che alcuni hanno già intrapreso (cfr. Leitch 1990; Rosewarne 2020) e che potremmo sintetizzare dicendo che i remake nella Hollywood classica avevano un ruolo ben diverso da quello che possiedono oggigiorno. Infatti, i remake realizzati di recente costituiscono dei veri e propri eventi, vengono ampiamente pubblicizzati e sono spesso indirizzati ai fan di vecchia data e a qurgli spettatori nostalgici che desiderano provare le stesse esperienze indotte dai film amati durante l’infanzia, motivo per cui il materiale oggetto di remake è spesso scelto solo dopo un’attenta valutazione del suo grado di notorietà. Negli anni Trenta e Quaranta valeva invece l’opposto: la maggior parte dei remake riguardava mediocri film di serie B contraddistinti da un’alterna fortuna al botteghino, da modalità di racconto oramai sorpassate e da immediata obsolescenza (Taves 2021; Verevis 2006; Mazdon 2000; Rosewarne 2020). Secondo Forrest e Koos (2002b), gli studios raramente riadattavno i film di maggiore successo, il cui sfruttamento avrebbe verosimilmente deluso il pubblico. Scrivono gli autori che «invece, i film più riadattati erano per lo più di serie B, ovvero modesti successi di cassetta difficilmente presenti nel ricordo degli spettatori» (Balio, citato in Forrest e Koos 2002b: 31-32). Troviamo una conferma statistica indiretta di questa ipotesi misurando il gap temporale tra originale e remake, meglio definito come grado di «prossimità del remake» (Bohnenkamp et al. 2015: 21).
Come si vede dal grafico (Figura 5), la «prossimità» negli anni Trenta e Quaranta era in media inferiore ai dieci anni. Questo significa che a essere rifatti erano per lo più film relativamente recenti – a volte separati da un intervallo di soli due o tre anni dall’uscita, pratica popolare principalmente per i western di serie B o per i musical. Si trattava con tutta probabilità di opere in larga parte sconosciute al grande pubblico, soprattutto vista la persistenza nelle sale dei film del tempo, ben più ampia rispetto a quanto avviene ai giorni nostri. La funzione dei remake di allora era ben diversa dalla funzione dei remake di oggi, considerando anche che dagli anni Settanta in poi i remake vengono realizzati una volta trascorsi circa venticinque anni dai rispettivi originali (ovvero dopo un’intera generazione). I remake di allora non dovevano configurarsi come una specie di fuga nostalgica – ma conforme al patrimonio tecnologico del presente – verso l’infanzia  Come sempre, ci sono alcune eccezioni alla regola che riguardano nello specifico i remake dei film stranieri di successo, rifatti dagli studios entro pochi anni dalla loro uscita. La maggior parte dei remake contemporanei invece è costituita da film famosissimi realizzati almeno un ventennio prima (basti pensare a Il re Leone [The Lion King, Jon Favreau, 2019] o A Star is Born [id., Bradley Cooper, 2018]). Ipotesi suffragata anche da un’altra osservazione – la proporzione dei remake che hanno mantenuto il titolo del film originale, esplicitando la loro connessione con opere pre-esistenti (fig. 6). Questa statistica è cambiata nel corso del tempo in modo abbastanza prevedibile: al di sotto del 20% negli anni Trenta e Quaranta (meno di uno su cinque) fino a raggiungere quasi l’80% negli ultimi vent’anni. Ancora una volta, è evidente come gli studios hollywoodiani si sforzassero in età classica di nascondere le operazioni di remake anziché di esibirle, il che contribuisce senza dubbio a una sorta d’invisibilità dei remake classici in sede di analisi storica.

remake gap temporaleFigura 5: gap temporale tra originale e remake (1915-2020)

remake titoloFigura 6: percentuale di remake con titoli che richiamano esplicitamente l’originale (1915-2020)

Riconoscere quanto le pratiche cinematografiche fossero diverse in passato ci consente anche di mettere sotto la lente d’ingrandimento un fenomeno minoritario che ha però coinvolto un gruppo relativamente ampio di remake prodotti tra il 1930 e il 1931. Questo picco statistico può essere spiegato solo se riflettiamo sulla particolare natura dei remake in questione. Nei primi anni Trenta il passaggio al cinema sonoro era quasi completo non solo negli Stati Uniti, dove era iniziato nel 1927, ma anche negli altri principali mercati cinematografici (a eccezione di Giappone e Unione Sovietica, dove richiese qualche anno in più). In quel tempo, il cinema americano era già leader nel settore dell’esportazione, tanto che gli incassi esteri formavano una fetta considerevole dei proventi totali di Hollywood. In questo contesto, l’avvento del cinema sonoro era visto quasi come una sfida: l’importanza del dialogo avrebbe creato una barriera linguistica che nel cinema muto era semplicemente inesistente (grazie all’uso di intertitoli facilmente traducibili e rimpiazzabili). Prima che gli strumenti di oggi – doppiaggio e sottotitoli – diventassero uno standard, gli studios americani sperimentarono la produzione di film girati nella lingua del pubblico di riferimento per agevolarne così l’esportazione. Per minimizzare i costi di produzione, vennero quindi utilizzati materiali già a disposizione (come set, maestranze e talvolta anche attori, NdT), la qual cosa portò alla creazione di versioni parallele a quelle in lingua inglese (le cosiddette multiple-language version, o MLV, cfr. Evans 2019: 162; Forrest e Koos 2002b: 32) o al rifacimento di vecchi film in lingua straniera (cfr. Forrest e Koos 2002b: 9). Infatti, nei dati da noi raccolti troviamo venti remake di tale natura, rilasciati per lo più nel 1930 (sei titoli) e 1931 (dieci), che costituiscono un terzo di tutti quelli girati in quel periodo – fatto che spiega un incremento dei numeri così breve e repentino. Con undici titoli in lista, i remake in lingua spagnola sono i più numerosi, il che riflette anche la rinnovata attenzione generale rivolta dagli Stati Uniti all’America Latina (che presto avrebbe portato alla Good Neighbour Policy di Roosevelt del 1933) e l’espansione degli studi hollywoodiani in quella direzione.

Verso la cultura del riciclo

Questa ricerca quantitativa preliminare sui remake hollywoodiani può servire da base per studi ancor più approfonditi. Indagini future potrebbero spiegare certe peculiarità dei dati finora presentati, le circostanze storiche e i fattori dietro i numeri trovati, o altri trend significativi. Più che altro, ci auguriamo che un maggior numero di studi di matrice quantitativa faccia seguito a questo, estendendo il focus della ricerca oltre il remake per includere anche altre forme di riuso di materiali al cinema (adattamenti letterari, sequel ecc.) che sono state la base del cinema americano fin dalle sue origini; in secondo luogo, un raffronto tra i dati di Hollywood e quelli relativi ad altre industrie cinematografiche nazionali, alla ricerca di pattern e differenze oppure teso a una comparazione tra diverse tipologie di remake. Lungo questo solco è possibile individuare un ancora più generale tendenza culturale a riciclare contenuto, di cui il cinema rappresenta solo una specifica istanza. Una simile tendenza include fenomeni come le diverse edizioni o le traduzioni dei libri, i vari adattamenti di un’opera teatrale, le cover e i remaster in musica, gli aggiornamenti, ripubblicazioni e continuazioni di videogiochi di successo ecc. È necessario riflettere su questa cornice, così ampia e pervasiva come declinata su varie specificità mediali, per comprendere appieno la pervasività e complessità della cultura in cui viviamo. E passare all’analisi dei dati e alla ricerca empirica può darci una forte spinta in questa direzione.

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