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L’episodio è dedicato a Outer Wilds [Mobius Digital, 2019] e in particolare a come, sia dal punto di vista di meccaniche che di narrazione, interpreti il rapporto tra io e mondo in chiave trascendentale.
Nel gioco siamo nei panni di un alieno che parte per esplorare lo spazio. Entrando in contatto con un dispositivo di una civiltà ormai estinta, finiamo in un loop temporale che, a ogni nostra morte, si riavvia. Non solo possiamo morire accidentalmente, riavviando quindi il ciclo, ma sopravvivendo per una ventina di minuti dall’inizio del loop scopriamo anche che il sole al centro del suo sistema solare implode, distruggendo tutti i pianeti e tutte le forme di vita circostanti. In altre parole, sia che moriamo per cause accidentali o che veniamo spazzati via dall’implosione del sole, restiamo prigionieri in una gabbia temporale che ha durata massima di poco più di venti minuti.
Dopo poco più di venti minuti, la stella al centro del sistema solare in cui ci troviamo imploderà. Dover agire entro un loop temporale ristretto innesca dinamiche che, inevitabilmente, rendono il gioco un’esperienza particolarmente affascinante da un punto di vista esistenziale. Visto il poco tempo a disposizione, siamo costretti a compiere un numero limitatissimo di azioni – spesso ci troviamo di fretta, tralasciamo alcune cose, non ci soffermiamo quanto vorremmo a parlare con un personaggio o a esplorare un certo luogo. Spesso, trascorriamo i venti minuti di fretta, affannandoci per riuscire a risolvere un puzzle o per far luce su qualche mistero. La colonna sonora che annuncia l’esplosione del sole, come vedremo tra poco, ci invita a una riflessione su come abbiamo scelto di impiegare il nostro tempo. Abbiamo davvero avuto la vita che volevamo? Abbiamo fatto ciò che volevamo? Ne è valsa la pena? Rivivremmo questi venti minuti allo stesso modo?
Dopo una breve premessa, ci troviamo quindi dinnanzi a un universo in cui scegliere liberamente dove andare, cosa guardare e cosa cercare, nel tempo di una ventina di minuti che di volta in volta si riavviano. Ci sono varie realtà che possono attirare la nostra attenzione: la civiltà aliena che si è estinta ha lasciato ovunque tracce, tecnologie e testimonianze; molti pianeti hanno logiche assurde che impediscono di coglierne i segreti più reconditi – come superare una corrente ascensionale per raggiungere il nucleo di un pianeta fatto d’acqua oppure trovare la via d’uscita in un groviglio di rovi giganti che sembra alterare lo spazio; alcuni dei viaggiatori spaziali partiti prima di noi sono andati dispersi e magari potrebbe essere interessante a fargli visita, e così via. Non ultima, la questione stessa del loop e del sole che esplode alla fine di ogni ciclo: come mai siamo prigionieri di questo anello temporale di cui nessun altro è consapevole? Come mai il sole esplode, c’è modo per fermarlo? Outer Wilds non impone a chi gioca una lista di cose da fare o di priorità: si è del tutto liberi di procedere a ogni ciclo e raggiungere uno qualsiasi dei pianeti vicini al nostro, gestire il tempo a nostra disposizione come più vogliamo, e volgendo l’attenzione a cosa ci interessa di più, seguendo vere e proprie traiettorie investigative emergenti, ovvero che il gioco non suggerisce in alcun modo, ma che siamo noi a innescare e plasmare entrando di volta in volta in contatto con le realtà disseminate organicamente per lo spazio esplorabile. Molto spesso il videogioco ricorda il genere walking simulator, altre volte flette più verso il survival, con ossigeno e carburante da gestire per mantenere la tuta spaziale in funzione, altre volte ancora si avvicina invece al puzzle basato su enigmi ambientali o al survival horror (soprattutto nel DLC Echoes of the Eye [Mobius Digital, 2021]).
L’unico modo per consultare le varie ‘rotte’ narrative del gioco è il computer di bordo dell’astronave che usiamo per spostarci nel sistema solare. Qui, le informazioni e potenziali piste (come in un videogioco investigativo) vengono raccolte una volta che si trovano durante l’esplorazione.
A livello narrativo, Outer Wilds fa uso quasi esclusivo di storytelling ambientale e indexical: più o meno tutto ciò che nel gioco si viene a sapere del sistema solare che ci circonda deriva da un processo attivo di raccolta, identificazione e interpretazione di indizi, tracce, segni e più in generale elementi dell’ambiente esplorabile. Utilizzando pochi strumenti a nostra disposizione (un rilevatore di suoni, un dispositivo lancia-sonde che ci consente di fotografare foto anche a grandi distanze, una tuta spaziale e la nostra astronave) esploriamo un ambiente vastissimo che rifugge a ogni tentativo di linearizzazione, percorribile in ogni direzione e in qualsiasi ordine, in cui sono disseminati indizi di senso riconducibili a eventi e personaggi che ci hanno preceduti. Come nella maggior parte dei videogiochi basati su questo tipo di storytelling, il mondo di Outer Wilds è post-apocalittico per definizione: siamo gli unici a muoversi e ad agire in uno spazio invece popolato per lo più di morti (la civiltà che ci ha preceduti) o fantasmi (gli altri viaggiatori spaziali, smarriti e in attesa della fine). Come abbiamo già osservato in merito agli spazi videoludici post-apocalittici, a prescindere dall’ambientazione, l’enfasi sullo storytelling indexical o ambientale non può che generare mondi in cui la narrazione è già accaduta, ed è quindi declinata al passato, mentre la nostra azione presente non è che un raccogliere i cocci di quello che è stato nel tentativo di capirci di più. Outer Wilds racconta poi di una seconda apocalisse in arrivo, più definitiva della prima: se la civiltà aliena di cui recuperiamo tracce e tecnologie si è estinta per motivi misteriosi, l’intero sistema solare sta per essere spazzato via dalla trasformazione in supernova della sua stella. Come abbiamo visto nell’episodio dedicato alle apocalissi nel contemporaneo, siamo quindi non solo in un tempo ciclico, ma in bilico tra due apocalissi: una passata e una futura.
Basandosi su storytelling ambientale e indexical, Outer Wilds presenta una narrazione declinata al passato, in cui ogni evento è già accaduto e sta a noi ricostruirlo a partire da tracce, rovine e indizi. Sopra, le pergamene che ci vengono lasciate dalla civiltà aliena estinta, attraverso cui possiamo ricostruire conversazioni perse nel tempo. Sotto, alcuni scheletri della stessa civiltà.
È dal punto di vista delle meccaniche di gioco in relazione a queste modalità e finalità narrative che Outer Wilds diventa particolarmente affascinante. Il loop temporale in cui siamo imbrigliati contribuisce a creare un sistema di progressione del tutto peculiare, che di fatto non si basa sul classico ‘scoprire nuovi luoghi’, ‘accedere a nuovi spazi’ che è proprio dei giochi a prevalenza esplorativa o di molti puzzle game a enigmi. Il sistema solare è tutto a disposizione fin dalla nostra primissima spedizione. Il level design stesso rifugge da soluzioni che impongano a chi gioca determinate priorità: tranne in sporadici casi, non ci sono per esempio serrature da aprire con chiavi da trovare altrove, combinazioni numeriche da inserire, o luoghi da raggiungere solo dopo aver ottenuto un potenziamento da qualche altra parte. In questo senso, siamo lontani sia dal puzzle game classico quanto dalla struttura metroidvania. Nel gioco non si aprono nuove vie, non si costruiscono attivamente percorsi, non si ottengono nuove abilità che consentono di raggiungere luoghi prima irraggiungibili: l’universo in cui ci muoviamo resta lo stesso da inizio a fine, le possibilità del nostro avatar non cambiano mai, e quel che acquisiamo andando avanti con i cicli è soltanto conoscenza, competenza e sensibilità.
Questo tipo di progressione ha evidentemente un retrogusto epistemologico: indagando per i vari pianeti otteniamo informazioni che aumentano la conoscenza che abbiamo del passato, e di riflesso del presente e del futuro, dell’universo in cui siamo immersi. Per esempio, conoscendo nuove tecnologie aliene scopriamo come si attivano dispositivi lontanissimi, e attivando quei dispositivi veniamo a conoscenza degli studi fatti dagli alieni sull’imminente esplosione del sole, capendo quindi un evento futuro tramite una conoscenza del passato appartenente a chi l’ha studiato e compreso prima di noi.
Le conoscenze che acquisiamo non modificano il mondo che ci circonda, sono piuttosto chiavi di lettura che ci consentono di guardarlo e viverlo con occhi diversi. Un esempio tra i tanti possibili è quello degli uragani su Profondo Gigantesco. Il pianeta è ricoperto interamente di acqua, con qualche sparuta isola qua e là, e un buon numero di uragani mantiene il clima in perenne tempesta. Scopriamo ben presto che il nucleo del pianeta è inaccessibile: molti altri viaggiatori ci hanno provato, ma non sono riusciti a raggiungerlo a causa di una forte corrente ascensionale. A suon di esplorare in giro, possiamo scoprire che la civiltà aliena estinta che ha esplorato il sistema solare è riuscita a superarla e raggiungere il nucleo. Come? Utilizzando la spinta di uno degli uragani, l’unico discensionale e non ascensionale, riconoscibile dalla rotazione opposta agli altri. In molti videogiochi, scoprire un’informazione non solo rende accessibile una via, ma molto spesso addirittura la crea dal nulla. In Outer Wilds, l’uragano discensionale è presente fin da subito. È una conoscenza acquisita tramite esplorazione e approfondimento a consentirci di guardarlo con occhi diversi, di avvicinarci alla sua corrente e non fuggirne. In altre parole, costruiamo un modello della realtà che di volta in volta aggiorniamo, che ci permette di dare a ciò che ci circonda un senso di volta in volta nuovo, pur senza trasformare attivamente la realtà di riferimento (o il nostro personaggio).
Nell’immagine sopra, una veduta di Profondo Gigantesco e dei suoi tornado. Per quanto quello che ruota in senso antiorario sia presente da subito in gioco, scopriamo che possiamo utilizzarlo per oltrepassare la corrente ascensionale di Profondo Gigantesco solo esplorando l’Osservatorio su Vuoto Fragile, un altro pianeta (immagine sotto). Ovviamente è anche possibile scoprire che il tornado antiorario serve a questo scopo senza passare per l’Osservatorio, magari finendoci dentro per sbaglio.
Sarebbe però riduttivo interpretare il flusso di gioco in chiave meramente epistemologica. Sembra piuttosto che il gioco si ponga in un’ottica trascendentale. Suggerisco in particolare di intrecciare la chiave di lettura trascendentale e il sottotesto esistenziale dell’esperienza, ben più esplicito durante la partita. Per capire come, anzitutto, è opportuno porre attenzione all’uso della musica in Outer Wilds, che poi nel finale assume un ruolo fondamentale.
La colonna sonora ha un ruolo del tutto particolare nel gioco, da un punto di vista tematico (i personaggi che incontriamo suonano tutti uno strumento, la musica ricopre un ruolo fondamentale in tutte le culture che incrociamo) quanto narrativo. Sia che si tratti di musica diegetica che extradiegetica, ha un mood preciso: commovente, crepuscolare, talvolta apertamente drammatico. Quando extradiegetica, la musica parte in momenti specifici e fuori dal nostro controllo: quando voliamo tra un pianeta e l’altro, trovando dei resti dei Nomai, oppure alla fine di ogni ciclo, quando il sole sta per esplodere. Se diegetica, la musica viene invece suonata dai personaggi che incontriamo lungo i nostri viaggi. Le musiche extradiegetiche sono quelle che più evidentemente esercitano una funzione contemplativa, o catartica: non appena lasciamo l’atmosfera di un pianeta e ci troviamo davanti ai corpi celesti sparsi qua e là, in perenne rotazione e in un mare di altre stelle a un’infinita distanza, è quasi inevitabile non sentirci sospesi – nel vero senso della parola – in contemplazione dinnanzi a un cosmo immenso, pieno di misteri che forse non decifreremo mai. Quando si avvicina la fine di un ciclo e la colonna sonora si fa drammatica, è quasi impossibile non sorprenderci a ragionare su come abbiamo impiegato il nostro tempo, o in quale azione ci coglierà l’inevitabile fine: a volte mentre cerchiamo di uscire da una grotta per rivedere il cielo, altre volte mentre galleggiamo nello spazio, altre volte ancora mentre ci affanniamo per far tornare la nostra imbarcazione in acqua.
La musica diegetica spesso ha un effetto simile: quando incontriamo Gabbro su Profondo Gigantesco, per esempio, è sdraiato su un’amaca e intento a suonare una specie di flauto. Parlandoci, lui smette momentaneamente di suonare per rispondere alle nostre domande. Ogni volta che i tornado del pianeta lanciano le isole che galleggiano sulla sua superficie quasi oltre l’atmosfera, il dialogo però viene interrotto. Automaticamente, non essendo interpellato, Gabbro riparte a suonare il flauto. Capita quindi quasi inevitabilmente, vista la mole di dialoghi con il personaggio, che durante la nostra chiacchierata con lui l’isola su cui ci troviamo venga lanciata in aria, e che Gabbro si metta di conseguenza a suonare il suo flauto, galleggiando per la quasi totale assenza di gravità della stratosfera. Tutto mentre noi, a nostra volta galleggiando per la gravità quasi assente, non possiamo far altro che guardarci intorno (questo perché in condizioni di gravità specifiche è impossibile interagire coi personaggi).
Prima che iniziamo a parlare con Gabbro (immagine in alto), lui suona il suo flauto sull’amaca. Quando ci parliamo (immagine al centro), abbassa momentaneamente il flauto e smette di suonare per darci attenzione. Se un tornado sbalza l’isola nella stratosfera (immagine in basso), il dialogo si interrompe bruscamente e Gabbro, fluttuando sull’amaca, torna a suonare il suo flauto. Possiamo tornare a parlarci solo quando l’isola precipita di nuovo in acqua.
La sequenza riassume il ruolo che la musica ha in Outer Wilds. Nel gioco siamo costantemente alle prese con misteri da svelare, strani fatti da indagare, pianeti da esplorare, eppure all’improvviso ci troviamo sospesi nel nulla, con una musica che ci invita a fermarci, a guardarci attorno, ad aspettare l’inevitabile magari guardando le stelle, anziché affannandoci a raggiungere il prossimo pianeta. La colonna sonora, e soprattutto il modo in cui viene usata, rafforza in altre parole l’assunto fondamentale delle meccaniche di gioco: ci invita a prenderci una pausa, a posare uno sguardo nuovo sul mondo che ci circonda, a osservare e riosservare l’universo con occhi diversi. È un invito a una riconsiderazione trascendentale dell’esperienza: il sistema solare in cui siamo è sempre lo stesso, la fine è sempre imminente, ma siamo a guardarla quasi pacificati con la nostra impotenza e piccolezza, con le nostre disavventure – cosa che di per sé definisce il pensiero trascendentale. Quel che facciamo è ri-significare continuamente il reale.
Nel finale questo uso della musica diventa ancora più esplicito. Alla fine del gioco raggiungiamo l’Occhio dell’Universo solo per scoprire che in realtà non c’è alcun modo per impedire che il sole esploda – cosa che, a ben vedere, niente e nessuno ci ha mai suggerito. L’Occhio dell’Universo reagisce in modo molto particolare all’ingresso di un soggetto, per questo al suo interno troviamo una serie di proiezioni della nostra mente, che presto lo trasformano in uno spazio mentale e del ricordo. Vi troviamo tutti i viaggiatori che abbiamo incrociato nelle nostre avventure, ognuno col proprio strumento musicale. L’ultima sezione di Outer Wilds consiste proprio nel radunare questi ricordi attorno a un fuoco e farli suonare un’ultima volta, processo che a ben vedere non cambierà nulla ma che ci consentirà di assistere da vicino alla fine del nostro sistema solare e alla nascita di uno nuovo.
La sezione finale del gioco ben riassume la prospettiva trascendentale di cui si è parlato finora. Benché il sistema solare stia collassando, raduniamo i ricordi dei nostri compagni attorno a un falò e facciamo suonare loro un’ultima malinconica ballata. Il falò come luogo di ritrovo e di riposo torna più volte nel gioco: attorno ai falò disseminati in giro possiamo sederci, riposare, dialogare con altri esploratori e mangiare dei marshmallow. In altre parole, i falò ci invitano a riconsiderare il nostro ruolo nel mondo di gioco e a prenderci una pausa dalla frettolosa acquisizione di nuove competenze o informazioni. Nel finale, il fumo del falò diventa il bagno di luce che ci inghiotte e che fa finire la partita una volta per tutte.
È un finale che ribalta una tradizionale tendenza all’empowerment che, nel videogioco, vede l’utenza sempre in grado di aggiustare il mondo, salvarlo, riportarlo a uno stato iniziale oppure farlo evolvere. In questo caso, tutti gli sforzi del gioco si svelano vani: facendo leva sul disempowerment, tutto Outer Wilds ruota attorno non al salvare l’universo, ma a guardarlo finire (e rinascere) da un punto di vista diverso. Anziché rovesciare, annullare o rinviare la fine, Outer Wilds invita ad accettarla, a fare tesoro di quanto accaduto, a scendere a patti con una realtà immodificabile. Il processo è sostenuto dalla musica: nel collezionare ricordi e nel portarli attorno a un fuoco comune, andiamo a ripescare tutte le melodie che abbiamo sentito fino a quel momento. La fine dell’universo arriva proprio al suono di tutti questi ricordi.
La conclusione di Outer Wilds non è solo impattante dal punto di vista emotivo, ma anche e soprattutto da quello teorico e narrativo. Suggerisco di interpretare il videogioco non solo come un efficace strumento di riflessione esistenziale, ma anche (e soprattutto?) come una specie di simulatore di trascendenza. Il reale di cui racconta è complesso, stratificato, oscuro e profondamente drammatico. Questo reale è immutabile e noi, come ogni altro essere vivente, non possiamo fare nulla per impedire che succeda quel che succeda. Il percorso che effettuiamo in Outer Wilds è interiore, passa per il mondo di gioco ma non vi si esaurisce. Per tutto il gioco, impariamo a vedere differenze tra gli uragani, a usare congegni alieni, a raggiungere aperture nascoste nei labirinti sotterranei. Impariamo in altre parole a guardare il mondo con occhi diversi, a riscoprirlo, ad avvicinarci alle verità che ci ossessionano. Una volta trovate quelle verità, però, non veniamo premiati con il potere di cambiare le cose. La fine dell’universo è proprio come l’uragano che gira al contrario in Profondo Gigantesco: è sempre stata davanti ai nostri occhi, è immutabile, ed è il nostro modo di guardarla a cambiare. Dopo un viaggio fatto di progressive ri-significazioni del reale, veniamo posti dinnanzi a quella che forse è la verità più difficile di tutte da accettare: che non possiamo salvare noi stessi né il nostro mondo, non possiamo impedire al sole di collassare. E lo facciamo dopo aver radunato e portato assieme tutti i nostri ricordi, tutte le nostre fughe catartiche, tutte le esperienze avute durante il nostro viaggio. Qua Outer Wilds simula il processo trascendentale quasi didascalicamente: prendiamo il nostro bagaglio di esperienze, lo assorbiamo, e torniamo a contemplare il mondo con sguardo diverso. Pacificati con le sue contraddizioni e con la sua assurdità, se possibile con la stessa possibilità di ammettere una fine.
Da inizio a fine, chi gioca non ha potere di cambiare nulla nell’universo di Outer Wilds. Musica, meccaniche di gioco e sistema di progressione ruotano tutte attorno a un’indagine sulla realtà che si direziona al superamento dell’apparente tragicità dell’esistenza. L’Occhio dell’Universo, meta ultima del nostro viaggio, è nient’altro che questo: un occhio, appunto, attraverso cui guardare la realtà da una prospettiva nuova.
L’Occhio dell’Universo, meta ultima del nostro viaggio, è nient’altro che uno spazio interiore, da cui guardiamo la fine riappacificati con il nostro passato e il nostro ruolo nel cosmo. Un occhio, metaforico e non, da cui guardare il reale con una sensibilità nuova.
Riuscendo a tradurre così efficacemente questa dimensione trascendentale in esperienza di gioco, Outer Wilds diventa uno dei titoli più affascinanti dello scorso decennio – tanto da una prospettiva filosofica ed esistenziale quanto in ottica di game design.