Alla fine de La fiamma del peccato [Double Indeminity, Billy Wilder, 1944], Phyllis Dietrichson (Barbara Stanwyck) muore, la sua stessa arma viene rivolta contro di lei dall’uomo che aveva cercato d’incastrare. Quell’unico momento di esitazione, di debolezza, di sentimento persino, le costa la vita. Era il pegno che dovevano pagare all’epoca le manipolatrici e le mangiauomini: la morte o, come minimo, la galera. Quarant’anni dopo, la dark lady è sempre bellissima e fatale, ma ha sviluppato doti di maggior “mimetismo”. Matty Walker (Kathleen Turner) non ha più bisogno di scendere le scale con calcolata eleganza, né di ombre per nascondersi o di luce per accecare il malcapitato con la propria bellezza. E Matty è senz’altro bellissima, ma non appare poi così misteriosa. La sua è una situazione alquanto comune: una giovane moglie annoiata, sposata a un uomo ricco che non ama. È un tale cliché che sottolinearne le implicazioni, all’inizio degli anni Ottanta, non ha più molto senso. Lo spettatore stesso oramai non ha più bisogno di essere imboccato. E così, in Brivido caldo [Body Heat, Lawrence Kasdan, 1981], Ned (William Hurt), un mediocre e svogliato avvocato, incontra Matty in un locale all’aperto, e poi la ritrova in un bar. Dei luoghi comuni, pubblici, in cui lei si confonde (pur non passando mai inosservata) in mezzo alla gente. Ma Matty è scaltra e manipolatrice non meno di Phyllis. E così, dopo abbondanti sedute di sesso selvaggio – che il cinema poteva finalmente mostrare – Ned si ritrova lo stesso a seguire il piano di lei per filo e per segno. Stavolta però la dark lady non muore, anzi ne esce alla grande, e a finire in galera è l’uomo che ha raggirato. Senza contare che Ned, rispetto all’aitante Walter del film di Wilder, è un maschio non soltanto più vanesio, ma anche più debole: anche dopo aver capito di essere stato raggirato, dopo aver affrontato Matty non riesce a ucciderla, ma anzi tenta di salvarla dalla trappola che lei stessa ha costruito, senza comprendere che lei ha già un piano B.

la fiamma del peccato double indemnity billy wilderLa fiamma del peccato

brivido caldo body heat kathleen turnerBrivido caldo

Passano altri quarant’anni e Lei, la femme fatale, si ripresenta, ancora più dimessa, ancora meno appariscente. Stavolta si chiama Marilyn (Diane Kruger) e la vediamo mentre esce dall’acqua con un costume rosso, in una località che si affaccia sull’oceano, nei pressi di Providence. Sempre bellissima, certo, ma non sembra dar peso alla cosa. Per noi spettatori e per Connor (Ray Nicholson) è un’apparizione improvvisa (out of the blue, appunto), ma che sembra del tutto casuale, mentre è invece studiatissima: la donna conosce bene non solo il passato del giovane, ma anche il percorso quotidiano di jogging. Oltretutto Marilyn ha parecchi anni più di Connor (oltre quindici in più, stando all’anagrafica dei due interpreti), e fa il minimo sindacale per sedurlo. Sa bene che lui, dopo aver passato anni in prigione perdendo una buona parte della propria giovinezza – per via di uno stupido incidente oltretutto – ha bisogno più che mai di qualcosa di speciale, di un’avventura inebriante che lo risarcisca, lo consoli e lo riscatti del tempo perduto. Perciò, se la temperatura di Phyllis e di Matty (body heat) era senz’altro incandescente, quella di Marilyn lo è nella misura in cui è anche e soprattutto accogliente, “materna”, per un giovane dalle poche belle speranze come Connor.

out of the blue diane kruger

out of the blue recensioneIl primo incontro fra Marilyn e Connor

Neil LaBute non è nuovo alla rappresentazione della guerra dei sessi (che implica, inevitabilmente, la sconfitta a priori del maschio). Ne fece un primo, drastico e tagliente manifesto con il suo primo lungometraggio, Nella società degli uomini [In the Company of Men, 1997]. Un tema che diventa speculare nel sorprendente The Shape of Things [id., 2003], che il cineasta ha tratto da un suo testo teatrale, e nel quale è una donna, Evelyn, a prendersi la sua vendetta, plagiando un ragazzo, un mezzo sfigato, e trasformandolo in un uomo del tutto diverso e sicuro di sé, per poi “esporlo” come un’opera d’arte e infine abbandonarlo, distruggendolo. E anche nell’altro suo film uscito nel 2022, House of Darkness [id.], LaBute ripropone, in piena epoca #MeToo, questo eterno scontro in perdita (per il maschio) sotto forma di horror vampirico.

Out of the Blue è un film smaliziato che propone una rilettura contemporanea del noir classico, più che del neo-noir, nonostante l’ambientazione assolata e en plein air. E lo fa in modo aperto e “senza trucchi”: a livello diegetico, attraverso il riferimento a Il postino suona sempre due volte di James M. Cain (la cittadina, Twin Oaks si riferisce espressamente al caffè del romanzo, e il romanzo stesso entra in campo più volte) e spezzoni di film che Connor guarda alla TV (La fiamma del peccato e Detour – Deviazione per l’inferno [Detour, Edgar G. Ulmer, 1945], fra gli altri); ma anche a livello formale, intervallando le varie macrosequenze con l’innesto di cartelli con scritte bianche su sfondo grigio, che scandiscono con annotazioni temporali il tempo del racconto (“Tre giorni dopo”, “Poco tempo dopo”, etc.).

out of the blue noirL’uso dei cartelli in Out of the Blue

Una passione “illecita” (Marilyn è, ovviamente, sposata), la presenza di scene di sesso e un doppio omicidio farebbero rientrare Out of the Blue nel thriller erotico. Di fatto, rispetto agli esempi più tipici di questo sottogenere, entrambi gli elementi che danno nome e identità al genere sono piuttosto sottotono, “in minore”, come sbiaditi o più precisamente understated, minimizzati. Mostrati ma non esibiti, come deprivati dalla loro forza costituzionalmente derivante dall’eccezionalità dell’evento e delle figure coinvolte. Certo, un po’ dipende dalla destinazione d’uso, che è oramai quella delle piattaforme, nuova sede di questa recente rinascita “timida” del thriller erotico (tra le altre cose, qui si scopa vestiti e la fellatio in biblioteca avviene fuori campo). Ma forse si tratta anche di una presa di posizione dello stesso LaBute, regista e sceneggiatore, del suo modo di reimmaginare la “scena primaria” del noir. Torniamo al capostipite di Billy Wilder: lì l’agire della femme fatale era raffigurato come un evento eccezionale, perché c’era ancora – o si fingeva per convenzione che ci fosse – una visione morale del mondo. Nel neo-noir di Kasdan, il medesimo evento viene ricreato all’interno di una visione aderente all’imperante mediocrità, ma ancora capace di destare scossoni e sorprese. LaBute invece ripropone questo stesso pattern quasi fosse una stanca replica televisiva, un mondo-provincia “post-tutto” in cui ingannare o essere ingannati è la norma: al cinema, in Tv, nella vita. Per questo motivo lo stile sobrio che adotta si riflette in qualche modo nella strategia messa in atto dal suo personaggio femminile.

out of the blue recensione

out of the blue neil labuteLa scena della fellatio in biblioteca

Meno appariscente e più mimetica, rispetto a Matty Walker, Marilyn è l’arma antiuomo definitiva, la più efficace, quella che col minor dispendio di energie possibili ottiene il massimo dei risultati. La sua bellezza, la sua astuzia sono facilmente sottovalutabili, non hanno a prima vista nulla di eccezionale, nulla che non si sia già visto – ma sono perfettamente funzionali ai suoi scopi. C’è da dire che in questo è aiutata anche dalla situazione in cui versa il maschio: vulnerabile, inesperto, insicuro, in posizione del tutto arretrata sulla linea di partenza, il belloccio interpretato da Ray Nicholson è, a sua volta, un pallido sottoprodotto sia della prestanza e della simpatia di Fred MacMurray, sia della mediocrità comunque ancora aitante e seduttiva di William Hurt. Dalla sua ha la giovinezza e un bel fisico da mostrare, certo. Ma il sorriso aperto e fiducioso di Connor alla donna in costume rosso equivale già a una capitolazione, a una dichiarazione di sconfitta. Ecco dunque perché la tensione nel film latita: non c’è partita. Ma questo anche perché, lo scopriremo proprio nell’ultima sequenza, il maschio conta così poco che non è neanche l’unico ad essere ingannato. Nemmeno la consolazione di una sconfitta eroica perché unica. Il suo destino è misero ed è la nullificazione, qualcosa di terribilmente facile da rimuovere dalla linea dell’orizzonte.

Ancora una volta, in LaBute, tra tutte le forme delle cose, quella del maschio è la più maneggevole, malleabile e deformabile a piacimento. Fino alla sua irrevocabile scomparsa. Basti pensare che l’unica figura maschile forte, ma diciamo pure alfa, del film, quella di Jock, l’agente per la libertà vigilata di Connor (ottimamente interpretato da Hank Azaria), al di là dei suoi modi bruschi e perfino brutali, cela a sua volta l’impotenza e una totale impreparazione agli eventi: la sua scommessa sulla “buona condotta” di Connor è destinata all’inevitabile scacco. La sequenza finale, poi, ci e si interroga sul fatto che la femme fatale, questa figura spesso così goffamente fraintesa e contestata, possa essere non solo effetto-monito-nemesi del patriarcato, ma possa addirittura sopravvivergli e trovare una propria funzione al di là della sua contrapposizione al maschio: non più Girl Power, ma Power e basta.