Non si può prescindere, parlando di Omicidio in diretta [Snake Eyes, 1998 – singolare condivisione del titolo originale di Occhi di serpente di Abel Ferrara (1993, conosciuto però anche come Dangerous Game)], dalle riflessioni di Gianni Canova. Nel suo fondamentale L’alieno e il pipistrello, il grande critico e saggista individua, in Omicidio in diretta di De Palma, una delle opere cardine nell’ambito della crisi delle forme (e della visibilità) del cinema contemporaneo.
Omicidio in diretta si apre con un vertiginoso pianosequenza in steady-cam di dodici minuti. O meglio, un finto pianosequenza in cui i raccordi sono invisibili sul modello di Nodo alla gola [Rope, 1948] di Alfred Hitchcock. La scena è introdotta dal volto di una reporter televisiva che annuncia l’imminenza di una forte precipitazione pronta ad abbattersi sul casinò Powell Millennium1 di Atlantic City, dove sta per svolgersi un incontro di pugilato valevole per il titolo dei Pesi Massimi. Un movimento di macchina, però, permette allo spettatore di scoprire che l’immagine d’apertura è quella di un monitor televisivo (un codice, un segno, ma anche un artificio tecnico). Una panoramica verticale con l’asse della m.d.p. inclinato vero sinistra, poi, presenta il protagonista di Omicidio in diretta, il cinico e corrotto poliziotto Ricky Santoro: un transfert, quindi, dallo sguardo incorporeo della tecnica a quello del soggetto umano.
Su questo aspetto si ritornerà successivamente.
Il prosieguo della sequenza si configura come un perfetto overture che, spazialmente, segue Rick aggirarsi dietro le quinte del casinò e lo accompagna fino alla prima fila da cui assiste, in qualità di addetto alla sicurezza, all’incontro di boxe.
Il dato fondamentale di questo folgorante incipit, però, è la sua natura di tracciato scopico. In altre parole, la m.d.p. s’incarica di seguire il protagonista lungo tutto il percorso mostrandone contemporaneamente il campo e il controcampo in regime di continuità. Eppure, con il procedere del dispositivo diegetico, si scoprirà che davanti agli occhi del poliziotto sono sfilati tutti gli indizi necessari a svelare un complotto che porterà, in conclusione di sequenza, all’omicidio del Ministro della Difesa, in procinto di votare contro l’approvazione di una legge militare.
Santoro, però, non ha saputo vederli.
È quindi su una paradossale declinazione del principio di negazione alla vista che si gioca la partita, non solo dell’incipit (in fondo, nei dodici minuti d’apertura non si vede mai il ring dove si combatte il match) ma anche del film stesso (che di quest’apertura è una specie di sviluppo concentrico e quasi frattale).
Scrive a tal proposito Gianni Canova, come, a differenza dell’effetto di realismo evocato da Bazin e di miglioria, potenziamento e accrescimento della visione teorizzata dalla modernità, «il cinema contemporaneo, invece […] inizia a praticare il piano sequenza non come forma vertiginosa ma ricca della visibilità, bensì come artificio linguistico che sperimenta sul (e nel) suo stesso parossismo la difficoltà – se non addirittura l’incapacità – di vedere. Si consideri, ad esempio, l’incipit di Omicidio in diretta […], suggestivo e problematico esempio di film postmoderno sullo sguardo e sulla pluralità di occasioni che il nuovo scenario tecnologico offre al nostro inesausto bisogno/desiderio di sperimentare nuove modalità di esercizio del vedere.»2
Come già accadeva al Jack Terry di Blow Out [id., 1981], Ricky Santoro si trova costretto a ricomporre anamnesticamente i segni apparsi davanti ai suoi occhi, frazionati e sfuggenti, e a rimodellarli in un nuovo sistema coerente. Per farlo, entrambi si avvalgono di strumenti tecnologici come organi artificiali che rafforzano (e talvolta surrogano) lo sguardo. Ogni visione, anche la più nitida, contiene infatti un grado più o meno decisivo di occultamento. L’occhio umano non è onniveggente, non può mettere tutto a fuoco.«L’ampio movimento iniziale ci presenta una serie di segni che nascondo qualcosa, segnali cifrati da decifrare in seguito. La macchina da presa nel suo sfoggio tecnico [grassetto del redattore] magnifica il visibile inteso come superficie significante in attesa di un’attribuzione retrospettiva di significato. Vediamo una donna in parrucca, un uomo che urla una frase, seguiamo gli spostamenti dei personaggi giù dal ring, mentre ciò che avviene sul ring non ci viene mostrato. Siamo di fronte all’ennesimo caso di scena originaria.» (Bisoni)3
Il pianosequenza iniziale fornisce indizi e dettagli che andranno poi riorganizzati in una nuova struttura coerente per squarciare il velo della mezogna
L’atto del vedere, quindi, è congenitamente frammentario, imperfetto, parziale. Un leitmotiv che informa tutta la filmografia depalmiana già ab origine (si vedano i casi di Ciao America [Greetings, 1968] e Murder à la Mod [id., 1968]) e che qui si rilancia in una struttura teorica che verrà poi sublimata dal di nove anni posteriore Redacted [id., 2007]. La partizione del vedere, in fondo, è una caratteristica che investe le modalità di percezione dell’uomo come lascito genetico/ereditario. Si pensi addirittura al modo in cui nel suo capitale testo La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Bruno Snell abbia perfettamente testimoniato come la lingua omerica non conoscesse un verbo che da solo indicasse il nudo atto della visione, ma, al contrario, facesse riferimento ad un patrimonio linguistico di almeno una decina di forme che ne attestavano molteplici determinazioni (fissare, spalancare gli occhi, avere uno sguardo che lampeggia ecc.). Indicativamente, lo stesso Θεωρεῖν (‘theorein’, successiva forma per «vedere») «non era in origine un verbo ma è [una parola] tratta da un nome, Θεωρός (‘theorós’), e deve dunque significare “essere spettatore”»4.
La visione quindi è un atto puramente soggettivo toccato dai limiti dello spettatore (del vedente), dal suo statuto di percettore inevitabilmente parziale in un mondo divenuto, come insegna Barthes, mitologia (ovvero racconto, narrazione) di segni spesso ambigui. Sempre Claudio Bisoni ricorda come, ironicamente, De Palma espliciterà questa mancanza nel trailer di Femme fatale [id., 2002]:«Davanti agli occhi di quest’ultimo [lo spettatore, NdA], in pochi minuti, scorre tutta la pellicola, a una velocità che rende le immagini indecifrabili. Una scritta informa del fatto che si è appena assistito alla proiezione del nuovo film di Brian De Palma . […] Già dal trailer è in gioco il fatto che tutto è davanti ai nostri occhi ma non è lì per essere colto e registrato con l’attenzione che i particolari richiederebbero.»5
Tra i fattori da cui scaturisce quest’inevitabile parzialità, dunque, particolare rilevanza ha l’assenza di oggettività. Ovvero, di registrazione non mediata o filtrata da elementi percettivi o emozionali che ne distorcono o attenuano il significato. Non si tratta solo della capacità di attribuire la giusta validità ai singoli elementi da riordinare in prospettiva, ma anche di far fronte al falso e all’inganno. Santoro, infatti, conduce la propria indagine interrogando tre testimoni-chiave (il pugile Tyler pagato per andare al tappeto, la bella Julia Costello in possesso d’informazioni decisive circa la pericolosità dei programmi militari, l’amico d’infanzia Kevin Dunne, comandante dell’esercito e uomo di grande carisma) ognuno dei quali si produce in un racconto sotto forma di flashback (ricostruzione anamnestica). Se però le parole di Tyler e Julia sono perfettamente aderenti alla verità dei fatti, l’esposizione di Kevin si dimostrerà invece del tutto mendace. Per meglio visualizzare questo capzioso stratagemma, De Palma mutua dal maestro Hitchcock l’espediente del «finto flashback» (ovvero di un flashback che mette in scena, dal punto di vista diegetico, una simulazione di verità e non la verità stessa) utilizzato in Paura e palcoscenico [Stage Fright, 1950].
I tre racconti di Tyler, Kevin e Julia costituiscono altrettanti flashback che ampliano non solo la quantità d’informazioni (false, nel caso del secondo) ma anche lo spettro del visibile: nel flashback del pugile p.e. vediamo per la prima volta il ring, in quello del militare ci spostiamo in una nuova prospettiva dietro le quinte, ripresa per mezzo di una una falsa soggettiva
Lo sguardo, la memoria, la capacità di ricostruzione analitica ricevono dunque l’ennesimo scacco. Che cosa perciò permetterà a Santoro di riannodare i fili e squarciare il velo della menzogna e dell’inganno? La risposta, ovviamente, non può che essere una: la tecnica.
Già in Blow Out, come ricordato, Jake Terry cercava di comprovare le proprie teorie servendosi di un supporto tecnologico come la sonorizzazione del filmino girato dall’operatore Manny Karp. Come, più o meno similmente accadeva al protagonista di 23 passi dal delitto [23 Paces to Baker Street, 1956] di Henry Hathaway, il cui senso deficitario (la vista) era rimpiazzato da una protesi tecnologica che pareggiava i conti potenziando l’udito. Il caso di Snake Eyes6, però, è piuttosto differente: Jack, infatti, aveva già intuito la verità e necessitava di uno strumento per comprovarla (trasformarla cioè in inferenza); Santoro, dal canto suo, non può effettuare alcuna deduzione utile senza l’affacciarsi in scena del deus ex machina della tecnica. Quest’ultima si presenta con le fattezze di un grosso dirigibile meccanico sul quale è montato un sistema di telecamere e sulla cui superficie è disegnato l’occhio proveniente da Il falso specchio di Magritte. Un «occhio immateriale» (Bisoni)7, quasi una presenza priva di massa, dalla cui registrazione a-soggettiva è possibile trovare (e provare) la soluzione dell’enigma.
Solo attraverso lo sguardo immateriale del dirigibile si può stabilire la verità. La ricostruzione è oggettivata dallo split-screen che sintetizza informazioni e conseguenti deduzioni
Da questo punto di vista, Omicidio in diretta stringe con Blow-up [id., 1966] di Michelangelo Antonioni un rapporto molto più profondo di quello, più superficiale e non così stringente, istituito da Blow Out. Nel capolavoro del cineasta ferrarese, il fotografo interpretato da David Hemmings scopriva le tracce di un (possibile) omicidio solo ricorrendo all’ingrandimento di alcuni scatti da lui effettuati in un parco pubblico londinese. Questi indizi, però, erano totalmente invisibili all’occhio nudo, irraggiungibili dalla pupilla e dall’osservatore che aveva scelto di soffermare il proprio sguardo (potenziato dal teleobiettivo spinto della macchina fotografica) sui soggetti fotografati. La tecnica, ancora una volta come deus ex machina, interveniva conseguentemente ad illuminare nuovamente lo sguardo del protagonista, supplendo alla cecità metaforica dello stesso. Antonioni, però, in piena modernità, metteva ancora al centro del discorso il soggetto e il suo senso di smarrimento e spaesamento che determina un grado ulteriore di ambiguità: la verità perciò rimaneva ancora sfuggente, la visibilità potenziata generava un’ulteriore stratificazione del senso dove «gli elementi significanti, messi in relazione, perdono di chiarezza anche se raggiungono la loro completa obiettività.»8
De Palma, invece, inscrive Omicidio in diretta in uno scenario storico-antropologico in cui «la tecnica non è più oggetto di una nostra scelta, ma è il nostro ambiente, dove fini e mezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passioni, persino sogni e desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della tecnica per esprimersi.» (Galimberti)9 In particolare, in un mondo segnato da una profonda mutazione antropologica, ovvero un’epoca di autodeterminazione della tecnica di cui «non siamo più in grado di seguirne la trama […] (in cui) si riduce la nostra capacità di percepire i processi, gli effetti, gli esiti e, se lo pretendessimo, gli scopi, di cui siamo parti e condizioni»10
Grazie al filmato del dirigibile, Ricky Santoro sopperisce ai propri limiti di soggetto/spettatore/percettore e riesce a stabilire una verità certa, definitiva, provata. In questo, il personaggio è quindi più vicino al Philip Hannon di 23 passi dal delitto che al Jack Terry di Blow Out o al fotografo Thomas di Blow-up. In Redacted, come anticipato, il regista newyorchese, a mo’ di chiusura del discorso, si sarebbe affidato solamente ad uno sguardo metafisico, diafano e intangibile come quello dei sistemi di registrazione, delle videocamere di sicurezza, delle schermate delle chat dei computer, delle camere digitali che sono unica traccia di un soggetto umano ormai ridotto a strumento. Testimoniando perciò l’irreversibile ribaltamento dei rapporti tra il corpo/sguardo/soggetto e la tecnologia/capitale.
In ordine: Blow Out, Blow-up e Redacted
Proprio questa prepotente epifania della tecnica e la conseguente attestazione dei limiti dello sguardo è il vettore più interessante di un’opera profondamente autoriflessiva (non solo sul mezzo, ma anche sulla stessa filmografia depalmiana) come Omicidio in diretta. A ben vedere, si tratta di un percorso teorico già ampiamente anticipato da Le due sorelle [Sisters, 1973] che ancora una volta si dimostra come film-testo fondamentale e orbitante intorno a buona parte dell’opera del regista.
L’onnipresente tema del doppio, infatti, è qui utilizzato in maniera letteralmente superficiale come feticcio, patina che rimanda ad un palinsesto immediatamente riconoscibile come depalmiano: che Kevin sia chiaramente una proiezione, ancorché distorta e illusoria, di tutto ciò che il corrotto looser-in-cerca-di-riscatto Ricky Santoro (Nicholas Cage) vorrebbe essere, De Palma non lo nasconde ma lo dichiara frontalmente mettendolo in bocca proprio al suo protagonista. Ancora più significativamente, il personaggio di Julia (Carla Gugino), mora che si presenta con un’abbondante parrucca biondocrinita, è un un rimando –ironico, tropologico e decantato dell’ambiguità caratterizzante – alla teoria dei personaggi femminili depalmiani, a cominciare dal binomio Gloria/Holly di Omicidio a luci rosse [Body Double, 1984]. Seppur in maniera meno cruciale, anche Omicidio in diretta si colora infatti di quell’ombra autoreferenziale che caratterizza un breve segmento del cinema dell’autore, un insieme di opere dove lo stesso cinema di De Palma è utilizzato come ideogramma, modello grafico-estetico (ancora una volta patina e superficie) da mettere in abisso e portare alle estreme conseguenze con un atteggiamento tanto ludico quanto perfettamente autocosciente. Omicidio in diretta è in questo senso una tappa intermedia di un percorso aperto da Doppia personalità – Rasining Cain [Raising Cain, 1992] e condotto alla fase terminale da Femme fatale.
Più decisamente sentito è invece un altro sentiero tematico interno tipicamente depalmiano. «Omicidio in diretta, come molte pellicole drammatiche, tratteggia una situazione ideale. Nella vita reale, tante più informazioni raccogli quanto meno capisci. Questa è stata la lezione lasciataci dall’indagine sull’omicidio di Kennedy, dove la proliferazione delle informazioni non è servita a risolvere il mistero» – sostiene il regista stesso.11
Il penetrante senso di paranoia che sfocia nel timore del complotto non è però solo un’ennesima variatio di piste già esaurite da Ciao America e Blow Out, ma anche – al pari dell’immediatamente antecedente e ampiamente sottovalutato Mission:Impossible [id., 1996] –una particolare condensazione d’umori di un decennio che vive la transizione all’era digitale, quella della completa manipolabilità.
Anticipati in questo dall’uscita del romanzo Libra (1988) di Don DeLillo, gli anni Novanta estrinsecano tale paura con romanzi come lo spietato American Tabloid (1995) di James Ellroy – da un altro capolavoro ellroyano, La dalia nera, De Palma avrebbe tratto il suo Black Dahlia [The Black Dahlia, 2006] – o Infinite Jest (1996) di David Foster Wallace; con la letteratura di consumo come quella prodotta p.e. da Tom Clancy (vedasi in particolare Debito d’onore del 1994) e da Robert Ludlum (non è un caso che il primo sia diventato un video game writer e l’universo narrativo del secondo, con la sua saga dedicata a Jason Bourne, si sia espanso proprio all’interno del macrocosmo “segnico” della videoludica); serie TV come X-Files [The X-Files, creata da Chris Carter, 1993], oppure film come JFK – Un caso ancora aperto [JFK, 1991] di Oliver Stone ma anche pellicole non ammantate da alcuna aura autoriale come Ipotesi di complotto [Conspiracy Thoery, 1997] di Richard Donner, Arlington Road – L’inganno [Arlington Road, 1999] di Mark Pellington o Nemico pubblico [Enemy of the State, 1998] di Tony Scott (per giunta criptoremake de La conversazione [The Conversation, 1974] di Francis Ford Coppola). Quasi sempre si tratta di opere in cui la tecnica si manifesta direttamente o è lambita indirettamente attraverso alcune sue determinazioni e manifestazioni: crisi dell’individuo sempre più schiavo della produzione di massa e del circolo produzione-consumo, assenza di un fine, inadeguatezza del senso, delegittimazione del concetto d’identità e subordinazione del singolo al sistema burocratico-produttivo-amministrativo. In fondo, l’indagine di Santoro diventa anche un tentativo non solo di redenzione dei propri peccati, ma anche di liberazione. Un disperato grido di rivolta (l’esatto controcanto del silenzioso iter dell’Ethan Hunt di Mission:Impossible) contro «la scopa del sistema».
Per concludere, inevitabile accennare all’ingerenza produttiva che ha costretto De Palma a cambiare in corsa il finale inizialmente previsto. Nelle intenzioni dell’autore, infatti, l’intero complesso casinò-hotel del Powell Millennium avrebbe dovuto essere spazzato via da un biblico acquazzone, capace di annientare un’umanità reietta sull’orlo dell’autodistruzione come fosse un secondo diluvio universale. Una conclusione profondamente apocalittica che riflette moralisticamente (sia detto senza particolare accezione, positiva o negativa che sia) il giudizio di De Palma sul mondo del gioco d’azzardo qui messo in rappresentazione:«considero quel mondo come un inferno […] la tua anima ti viene strappata proprio come ti viene svuotato il portafoglio»12. Le reazioni negative degli spettatori ai primi screening13, però, avrebbero convinto la produzione a chiedere una sostituzione della sequenza (mostrata parzialmente nel documentario De Palma [id., Noah Baumbach e Jake Paltrow, 2015]).
Il regista decise quindi di attenuare l’ansia millenaristica ricorrendo ad un finale dove l’ordine viene ristabilito, il casinò viene comunque semidistrutto dalla buriana, il cattivo (Kevin) si autopunisce con la morte per le proprie colpe e Santoro si riscatta dei propri vizi passati e accetta serenamente di passare un po’ di tempo in prigione, perfettamente consapevole che Julia è pronta ad abbracciarlo una volta uscito.
Sembrerebbe una soluzione un po’ scontata, non fosse che De Palma decide di chiudere Omicidio in diretta con una lentissima zoomata in avanti che sembra provenire da uno sguardo extra-corporero (perfettamente simmetrico rispetto a quello – assolutamente tecnico – del dirigibile pittato con l’occhio di Magritte). Il campo si restringe progressivamente fino a individuare un pilone di cemento del nuovo casinò in costruzione, dal quale fa capolino il monile di una dei complici di Dunne, freddata proprio dal militare. Si tratta di un movimento di macchina di natura ottico-meccanica e dalla durata lentissima ed estenuante, che prosegue lungo i titoli di coda.
Il nuovo tempio del capitale si costruisce letteralmente sui cadaveri, ma questo è un indizio che lo spettatore può cogliere solo se sceglie di fermarsi a guardare.
NOTE
1. non è impossibile che il nome del complesso in cui si svolge il film sia un omaggio al grande regista britannico Michael Powell, il cui L’occhio che uccide [Peeping Tom, 1960] è sempre stato una delle maggiori fonti d’ispirazione per De Palma
2. G. Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani (Milano), 2004, p. 89
3. C. Bisoni, Brian De Palma, Le Mani (Genova), 2002, p. 219
4. B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi (Torino), 2002, p. 22
Per i riferimenti ai significati particolari dei verbi omerici riferiti all’atto del vedere si confronti con p. 20
5. C. Bisoni, op. cit., p. 229
6. Il titolo Snake Eyes non è solo interpretabile letteralmente come «occhi di serpente», che sono già di per se stessi occhi “fragili”, non protetti dalla pupilla. La locuzione, infatti, è anche un riferimento gergale al punteggio più basso (il 2) nel gioco d’azzardo del lancio dei dadi. Gli occhi, ancora una volta, vengono sconfitti.
7. C. Bisoni, op. cit., p. 221
8. G. Tinazzi, Michelangelo Antonioni, Il Castoro (Torino), 2002, p. 109
9. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’era della tecnica, Feltrinelli (Milano), 2002, p. 50
10. ivi, pp. 463-464
11. in Brian De Palma’s Split Screen. A Life in Film, University of Mississippi/Jackson, 2015, p. 670
La traduzione dall’inglese è dell’autore dell’articolo
12. ivi, p. 676
13. cfr. D. Keesey, op. cit.