In questo saggio mostreremo che la piattaforma Netflix, fin dalle origini, ha fondato la sua esistenza sulla categoria della “ripetizione” (il remake, le forme del genere, ma anche le strategie produttive) attraverso la creazione e/o il consolidamento di strumenti quali il reload o il binge watching, nonché l’interesse egemone per la serialità. Ha quindi creato un universo mediale, negli anni sempre più autarchico e autoriferito, che presenta tra i suoi motori principali la rievocazione nostalgica di un passato prossimo (solitamente individuato negli anni ’80 del ‘900).

Sosterremo che grazie a questi dispositivi Netflix ha modificato alcune nozioni estetiche tradizionali, a partire da quella famigerata di “autore”, e si è imposta come vero e proprio ipertesto, che autorizza a definire la piattaforma stessa un’opera a sé. E vedremo che sono proprio i meccanismi della ripetizione formale e della nostalgia a dare forma a questa radicale operazione estetica e commerciale.

L’insistita ed esibita autoreferenzialità, sia interna ai prodotti che “esterna” (interscambio di attori, vicinanze dovute all’algoritmo etc.) e l’uso di schemi reiterati non sono quindi un vezzo o una suggestione incidentale, ma sono connaturati alla nascita e allo sviluppo della piattaforma. Ne sono il tratto distintivo, non solo rispetto a tutto ciò che è venuto prima (le tv tradizionali, le grandi produzioni) ma anche confrontandola con le altre “colleghe”.

Netflix ha costretto tutte le altre produzioni e i canali ad adeguarsi alle nuove forme televisive e ai nuovi modi di concepire la fruizione: è questo senza dubbio l’impatto che ha avuto sull’universo mediale contemporaneo, riconfigurando gli schemi entro cui concepire la produzione di opere, ed estendendo quindi il proprio raggio di influenza al cinema. Tutto ciò è avvenuto con una autoconsapevolezza estetica ed economica considerevole, giungendo perfino a qualcosa di molto vicino a un poetica programmatica, come risulta chiaro da Hastings e Meyer [2020] in cui il co-fondatore rivendica per la piattaforma la “cultura della re-invenzione” (concetto che in sé connota anche recupero del passato e rimescolamento formale degli stilemi).

1. Brand New World

Una delle caratteristiche presenti fin dagli albori del progetto Netflix è il richiamo interno, intertestuale, tra i prodotti presenti nella piattaforma.

In S01E04 di The OA [id., creata da Zal Batmanglij e Brit Marling, 2016 – 2019] Jesse, uno dei personaggi che gravitano attorno alla protagonista Prairie Johnson, torna a casa e trova la sorella Ali sul divano che fuma un bong e guarda alla tv il pilota di Stranger Things [id., creata da Matt Duffer e Ross Duffer, 2016 – in corso], serie tra le più note della piattaforma. In seguito Jesse interroga Ali a proposito della loro mamma, facendo riferimento alla natura del PA (Primo Angelo) del titolo della serie: fungendo da vera e propria “interferenza” nella matrioska di originals Netflix, The OA consente a uno dei suoi personaggi di travalicare la natura della realtà attorno a sé, in un autentico gioco di specchi che, alla fine, si rivelerà costantemente sospeso tra la realtà rappresentata e quella dello spettatore.1

Questa pratica metatestuale non è presente sono nella fase creativa degli originals ma si estende a quella produttivo e perfino al momento di scegliere i prodotti da collocare in catalogo. In tal senso è utile la distinzione operata da Jenner [2018] tra in house production e Netflix originals: le prime sono commissioni e/o trasmissioni di altri broadcaster solo in seguito acquistate dalla piattaforma di Hastings e Randolph, che talvolta completa la produzione o le integra semplicemente nella sua libreria; i secondi sono prodotti Netflix tout court, cioè fin dalla ideazione. Sebbene sia opportuno notare, come fa l’autrice, che la distinzione in questione non sia un’esclusiva prerogativa di Netflix, è altrettanto utile segnalare come le dinamiche di produzione del colosso di Los Gatos spesso esplicitano “visivamente”, a livello di interfaccia, il percorso che ha portato a quello specifico prodotto, sia esso seriale o cinematografico, addirittura traghettando da un prodotto all’altro gli stessi membri dei cast o delle troupe. Si crea così un universo mediale in cui ritroviamo stessi volti e stessi stili in prodotti diversi, la cui vicinanza altrimenti si limiterebbe alla prossimità “fisica” nel medesimo catalogo, il più delle volte affidandosi a registi che abbiano già esperienza all’interno dell’ecosistema o ne siano diventati parte.2

nostalgia-netflix I protagonisti di The OA guardano Stranger Things

Lo sviluppo di un ecosistema, che fosse al contempo economicamente sostenibile e allineato a uno specifico target non è stato lineare.3 Iniziato il processo di espansione globale, nel 2014 le idee aziendali rispetto al target originario cambiano radicalmente, complice anche il fatto che inizialmente la trasmissione dei prodotti Netflix era affidata alla tv pay-per-view o alle emittenti locali (Sky Atlantic in Italia, Canal+ in Francia, ecc.): l’ecosistema nasce come un’ibridazione tra un progetto quasi concettuale, una vera e propria poetica aziendale e l’interazione con i singoli broadcaster nazionali che l’azienda stessa dalle origini cercava di monopolizzare (cfr. tutta la prima parte di Crawford [2020]).4

Questo ci riporta a Stranger Things, che pur seguendo il successo di House of Cards – Gli intrighi del potere [House of Cards, creata da Beau Willimon, 2013 – 2018], è anche la prima serie interamente trasmessa da Netflix a registrare numeri di visualizzazione molto alti (la più vista in termini assoluti prima del recente successo di Mercoledì [Wednesday, creata da Alfred Gough e Miles Millar, 2022 – in corso], parzialmente diretta da Tim Burton). E pur aderendo, a detta dell’azienda, al concetto di quality television, la serie è classificabile all’interno del macrogenere teen, contribuendo a una ridefinizione del target spettatoriale: «Netflix, initially branding itself as purveyor of “quality” television, is exploring more “popular” genres» [Jenner 2018]. L’aggiunta in catalogo di commedie, soprattutto sit-com, e l’apertura alle fasce più giovani del pubblico hanno contribuito ad allargare ulteriormente il dominio del brand che, ciononostante, rimane fedele al suo programma originario di operare una separazione tra televisione “lineare” e “nuovo modello”.5 Quest’ultimo non è altro che un modo di fare televisione che – pur non smarcandosi completamente dalla linearità narrativa “classica” – ricerca consapevolmente opere in grado di romperne gli schemi consolidati, anche se si tratta di prodotti già esistenti e in seguito cancellati o dimenticati: un esempio è Arrested Development – Ti presento i miei [Arrested Development, creata da Mitchell Hurwitz, 2003 – 2019], la serie (prodotta anche da Ron Howard) andata in onda prima su FOX e poi riproposta su Netflix, divenuto produttore oltreché distributore (ma come non citare sit-com pionieristiche come Seinfeld [id., creata da Larry David e Jerry Seinfeld, 1989 – 1998] o Community [id., creata da Dan Harmon, 2009 – 2015], incredibilmente “netflixiane” prima del tempo).

nostalgia-netflix Stranger Things: comunicazione tra mondi

In tal senso, diventa più chiaro come le narrazioni interne condivise dai prodotti della piattaforma riflettano le forme della più ampia struttura ipertestuale in cui risiedono (vedremo meglio al paragrafo 3). Tale struttura risponde a paradigmi e scelte ben precise ma non riflette un dogma estetico incontrovertibile, a livello di scrittura o messinscena. Un fenomeno scaturito da questa apertura retroattiva di un sistema altrimenti chiuso è l’effetto “nostalgia per i tempi che furono”, strategia già intuibile dalla decisione di recuperare sit-com del passato. Il successo di critica e pubblico di Stranger Things è il risultato del meccanismo nostalgico: gran parte della critica vi si avvicina proprio perché esso rievoca il periodo anni ‘80 anche a livello citazionista (con chiare ispirazioni allo Stand by Me – Ricordo di un’estate [Stand By Me, 1986] di Rob Reiner o al televisivo It [id., 1990] di Tommy Lee Wallace, entrambi a loro volta tratti da testi di Stephen King), così come risponde perfettamente alla precisa strategia di congiungere il target adolescenziale con una fetta di pubblico anagraficamente più avanzata e certamente meno propensa a sposare le novità proposte dallo streaming multimediale. Il pubblico “adulto” è doppiamente solleticato: la rievocazione avviene sia all’interno di prodotti nuovi che però si rifanno a un passato di totem e valori condivisi sia tramite l’azione diretta in platform con l’aggiunta dei prodotti che provengono da quel passato rievocato.6

Digressione (The Stranger Things Wave)

Il revival anni ‘80 foraggiato dalla serie non poteva che passare attraverso la musica, altrettanto presente al suo interno quanto i riferimenti al cinema: non solo perché incorpora in sé album o singoli che hanno segnato l’immaginario dell’epoca ma anche per il ricorso a singoli elementi compositivi (come può essere un particolare filtro vocale ad esempio). Le atmosfere anni ‘80 le ritroviamo poi nell’uso del synth e quindi in interi sample o database di suoni che vengono campionati da quando “tira una nuova aria”: l’ultimo album di Billie Eilish Happier than Ever [Interscope, 2021] è molto 80’s, ma anche l’ultimo di Taylor Swift con brani come Maroon o Anti-Hero (feat. Bleachers). Charlie Puth, uno dei grossi nomi del pop californiano, ha sfornato anch’egli brani che fin dall’intro richiamano i suoni dell’epoca come There’s a First Time For Everything, così come Harry Styles (As it Was) o The Weeknd (Out of Time), e sono tornati di moda perfino i Gorillaz con Baby Queen.

Da nostalgia a moda mainstream quasi categorica, gli anni ‘80 sono esplosi nell’universo del pop. Perché alla fine la “Netflix wave” si allunga su uno specifico target e su ciò che per quel target significa “essere cool”. Per cui il movimento parte dal richiamo nostalgico volto ad ampliare l’abituale segmento di pubblico e poi torna di proprietà della porzione di pubblico originaria, che elegge a moda le vibrazioni assorbite dal recupero nostalgico.

nostalgia-netflix Uno dei finali possibili di Black Mirror: Bandersnatch

Il concetto stesso di “messa in onda” è pertanto cambiato, e con esso il rapporto tra le forze in gioco, anche per l’emersione della categoria ultramoderna di interattività: il pubblico non è più passivo fruitore di quel che passa in televisione, ma anzi può scegliere e addirittura essere coinvolto attivamente (o semplicemente chiamato in causa) dall’offerta on demand, come succede con Black Mirror: Bandersnatch [id., 2018] di David Slade, che consente allo spettatore di accedere a una molteplicità di finali fornendo i percorsi e le scelte che il protagonista può intraprendere nel corso del film. Pur non essendo un modello interattivo particolarmente nuovo o (a oggi) influente, è un case study interessante sotto molteplici aspetti. La struttura del film prevede l’attuazione di un meccanismo di binging, suggerendo allo spettatore di guardare più volte il prodotto per esplorarne i diversi finali o vicoli ciechi, un po’ come accade nell’esperienza videoludica; non a caso il protagonista è un aspirante creatore di videogiochi che si ispira a sua volta a un romanzo interattivo: di nuovo una perfetta coincidenza tra forma e contenuto, che replica quella tra contenuto e “ambiente mediale”. Difatti si potrebbe dire che questo spin-off della serie di Brooker è un “Netflix in a nutshell”, dal momento che della piattaforma ripercorre tutti i topoi: la ripetizione ciclica degli eventi, siano essi interni o esterni; il richiamo del passato (è ambientato negli anni ‘80); la convergenza paratestuale.

Viene così replicata anche quella critica dei media tipica di tutta la serie Black Mirror [id., creata da Charlie Brooker, 2011 – 2019], acquistata e brandizzata dalla piattaforma dalla terza stagione in poi, e in un certo senso “americanizzata” (originariamente era una produzione britannica). Nelle sue radicali e feroci critiche al mondo social e alle derive distopiche della tecnologia la serie ha costruito un suo marchio di fabbrica che – inserito all’interno dell’ecosistema Netflix – non può che portare con sé fino a mettere sotto esame l’appartenenza stessa del device, quindi della stessa piattaforma, ai paradigmi del contemporaneo fatti detonare nelle stagioni precedenti: Bandersnatch infatti funziona come l’algoritmo di preferenza che, in base ai likes e alle scelte degli utenti, propone percorsi di binge watching, rendendo maggiormente esplicito il suo meccanismo (dando insomma maggiore illusione di libero arbitrio allo spettatore).

Seppur meno legato all’interattività e più ai meccanismi di “creazione di un pubblico” un titolo analogo e rappresentativo è Una serie di sfortunati eventi [A Series of Unfortunate Events, creata da Mark Hudis, 2017 – 2019] la serie tratta dall’omonima saga di romanzi scritti da Daniel Handler con lo pseudonimo Lemony Snicket, sviluppata da Mark Hudis e Barry Sonnenfeld. Prendendo le distanze dall’adattamento cinematografico Lemony Snicket – Una serie di sfortunati eventi [Lemony Snicket’s A Series of Unfortunate Events, Brad Siberling, 2004] con Jim Carrey e Emily Browning, l’adattamento seriale si focalizza quasi interamente sul concetto di ecosistema, e ne imita il funzionamento. Uno dei leitmotiv riguarda un ambito strettamente linguistico: gli adulti spiegano il linguaggio ai bambini (i fratelli Baudelaire), anche se questi ultimi – più colti e portati all’apprendimento – non solo non ne hanno bisogno ma sanno rielaborarlo e rivolgerlo contro i “maestri” quando ne fanno un uso scorretto. Il target è sempre teen e punta sulla distanza generazionale come prova del passatismo e dell’incompetenza del vecchio sistema. Peraltro solo i piccoli sono in grado di riconoscere i travestimenti del perfido Conte Olaf di Neil Patrick Harris, come se fossero più capaci di riconoscere gli inganni che si celano dietro la superficie dell’immagine. La ormai “canonica” struttura netflixiana si bilancia dunque sul rapporto interno/esterno, dove le azioni dei personaggi e le conseguenze di queste sul contesto si relazionano con gli avvenimenti extra-diegetici, esplicitando, seppur sempre con sottigliezza e senza velleità teoriche di sorta, i meccanismi narratologici sottintesi.

nostalgia-netflix I protagonisti di 13 Reasons Why

Meccanismi simili sono presenti in Tredici [13 Reasons Why, creata da Brian Yorkey, 2017 – 2020] serie dal target prevalentemente adolescenziale: la protagonista Hannah Baker comunica immediatamente di essere già morta e di volere interagire direttamente con il pubblico; in realtà la voce fuori campo viene da una cassetta 7 registrata prima del suicidio della ragazza, che l’altro protagonista Clay ascolta di pari passo con lo spettatore, condividendo con lui una forma ideale di binge watching seppur inscritta all’interno della narrazione.

Il processo mitopoietico fin qui descritto si muove speditamente in direzione del “genere”, inteso dalla piattaforma anche come strumento di rievocazione del passato e base per una più ampia serializzazione della nostalgia, 8 sia dal punto di vista delle forme che dei contenuti. La produzione seriale degli originals lavora tantissimo sull’importazione (o esportazione) di modelli che ricostruiscono i generi, spesso giocando sul senso di straniamento dato dalla presenza di determinati characters. Tanto The End of the F***ing World [id., creata da Jonathan Entwistle, 2017  2019] quanto Sex Education [id., creata da Laurie Nunn, 2019 – in corso], infatti, non solo rispondono appieno ai modelli di produzione netflixiani, dal momento che Alex Lawther e Asa Butterfield, protagonisti maschili delle due serie, estendono la propria partecipazione ad altri prodotti interni (il primo in Black Mirror S03 E03 Shut Up and Dance Black Mirror, il secondo nel film Choose or Die [id., Toby Meakins, 2022]) 9 ma trasportano modelli di narrazione tipici del cinema americano in un contesto britannico, miscelando ancora una volta mondi mediali e culturali distinti.

Ulteriore esempio è la trilogia di Fear Street [id., 2021], diretta da Leigh Janiak e adattamento dell’omonima serie di romanzi di R.L. Stine, che si muove su tre diversi piani temporali (1994, 1978 e 1666) affrontando altrettanti modelli “nostalgici”. Si parte dalla radice teen, emulando proprio il percorso storicamente compiuto dalla stessa piattaforma, per poi riproporre le tipiche dinamiche di genere (slasher, soprannaturale, folk horror), innestando nel territorio del lungometraggio un linguaggio codificato dalla serialità. In questo modo, l’intero corpo di contenuti disponibili in catalogo viene in qualche misura riletto e filtrato dalla serie, senza limarne i confini ma anzi operando una commistione mediale con alcuni precedenti:10 la “nostalgia” diventa la pratica di riciclo di immaginari, re-interpretati e dunque nuovamente contestualizzati per un pubblico “nuovo”, che accetta l’ibridazione senza porla in discussione, sentendosi parte attiva di una rivoluzione inconsapevole.

L’espansione globale della piattaforma, quasi come risposta “progressista” al contesto politico post-2016 che l’Occidente ha vissuto come divisivo e polarizzante, ha indotto il colosso di Los Gatos a lavorare sull’aggregazione dei suoi target, rendendo ancor più sofisticato il suo algoritmo nel tentativo di includere porzioni di pubblico sempre maggiori (aumentando così la produzione non in lingua inglese). Come è chiaro in Barker e Wiatrowski [2017], Netflix è solita autoalimentare la sua stessa domanda, creando un evento da una serie di facile consumo e rilasciandolo senza aspettare la tradizionale (e ormai quasi del tutto superata) cadenza settimanale dell’episodio, che invece viene reso accessibile nell’immediato (o al massimo in due tranches). Pratica che, più avanti nel tempo, adatterà al rispetto degli accordi con le emittenti che trasmettono originariamente il prodotto non original in catalogo. Il concetto di fidelizzazione del pubblico si sposa con un’espansione “extra territoriale” dell’azienda, che guarda a broadcaster già attivi, ciascuno con il proprio target e i propri contenuti, eventualmente contribuendo al loro ampliamento e offrendo loro un accesso più semplice e a portata di mano: l’inscrizione all’interno dell’universo mitopoetico netflixiano e la sua distensione (ed estensione) a un pubblico sempre più ampio. Dar forma seriale al recupero nostalgico di memorie sparse, inserite all’interno di un catalogo pensato, è la naturale conseguenza di questo processo.11

Emblematica, a tal proposito, la produzione di Mike Flanagan, nella doppia vista di show-runner e regista. Già Hill House [The Haunting of Hill House, 2018] ragionava su Netflix stessa e sul suo universo audiovisivo: l’eponima magione di Hill House rappresenta appunto la piattaforma, un non-luogo costituito di ricordi, generi e caratteri che fermano il tempo danno forma agli eventi e finiscono per diventarne parte, in una narrazione che si crea da sé con l’ausilio di linguaggi, forme e meta-storie;12 The Midnight Club [id., 2022] rappresenta un’ulteriore radicalizzazione di questi concetti: a Ilonka, di appena 17 anni, viene diagnosticata una forma aggressiva di glioblastoma. Compiuti i 18, chiede di essere ammessa a Brightcliffe, un ospizio per giovani malati terminali. Per confrontarsi con la morte ed esorcizzare l’inevitabile fato che li attende, i ragazzi si vedono ogni sera a mezzanotte per raccontarsi delle storie, variopinte allegorie dei propri sentimenti, timori e paure.

nostalgia-netflix Uno dei lavori più ipertestuali di Mike Flanagan: The Midnight Club

La serie impiega dispositivi estetici per portarci indietro nel tempo, cambiando colore e formato (armamentario tipico di questa nuova era della nostalgia), e ognuna delle narrazioni appartiene a un genere specifico (seguendo perciò un processo di contaminazione e rielaborazione), che pur utilizzando gli stessi caratteri di produzione si distacca al contempo dalla realtà narrata, in un gioco che, quasi scolasticamente, riflette il funzionamento del paradigma netflixiano (principio di autoreferenzialità).

I meccanismi che svelano il processo postmoderno di citazione, rimescolamento e ossessione per l’ibridazione dei generi e delle forme provengono da una visione che, dietro il cinismo e l’ironia, nasconde una profonda nostalgia per il passato delle “grandi narrazioni”; non sono solo gli intellettuali o gli artisti a teorizzarlo, ma anche il pubblico che infatti ci si riconosce sul piano assiologico ed estetico e accorre in massa (dal divano). D’altronde i personaggi delle singole storie di questa variazione decameroniana hanno molto in comune con i narratori (e gli ascoltatori) che si avvicendano sullo schermo: si crea quindi una forma di replicazione, a livello diegetico, del classico processo di immedesimazione del pubblico. Nel mondo esterno, quello della tragedia annunciata, del dramma in costante divenire, lo sguardo spettatoriale è filtrato da Mark e Shasta, interpretati rispettivamente da Zach Gilford e Samantha Sloyan, già attori per Flanagan in Midnight Mass [id., 2021], variazione del modello Bram Stoker che si confronta con il genere vampiresco.

Digressione (Who Framed Robert McKee?)

BoJack Horseman [id., creata da Raphael Bob-Waksberg, 2014 – 2020] prima, F is for Family [id., creata da Bill Burr e Michael Price, 2015 – 2021] poi hanno contribuito a rileggere i prodotti animati occidentali in una chiave più “moderna”, restituendo una dimensione “quotidiana” a una tecnica solitamente utilizzata per creare mondi fantastici. La successiva di Rick & Morty [id., 2013 – in corso] di Dan Harmon ha dato un’ulteriore spinta sul piano della rottura della quarta parete e l’interazione con il pubblico.

Pur muovendosi sulla linea dei piccoli problemi di tutti i giorni, Big Mouth [id., creata  da Nick Stroll, Andrew Goldberg e Jennifer Flackett, 2017 – in corso], una serie che racconta l’iniziazione alla sessualità e le prime tempeste ormonali di un gruppo di pre-adolescenti, fa suo anche un apparato surrealista e metariflessivo stringente. Lungo le sue sei stagioni (a oggi) si è distinta per un’attenzione peculiare alle interazioni con la tecnologia, i suoi device e, fisiologicamente, l’inevitabile coscienza di essere una rappresentazione dello stesso universo di Netflix, agendo all’interno di uno specifico ecosistema (tanto geografico quanto narrativo) dove i personaggi si rivolgono direttamente al proprio pubblico in un gioco di esasperato di ammiccamenti “meta”.

nostalgia-netflix Morty negli uffici di Netflix in Rick & Morty

Rick & Morty  è, se è possibile, ancor più radicale: lo scienziato pazzo Rick Sanchez è il “mammifero” più intelligente dell’universo e l’unico quindi a possedere una consapevolezza tale da riferirsi alle precedenti avventure vissute col nipote Morty parlando delle “stagioni passate”.13 Questo avviene in particolare nelle puntate iniziali di ogni stagione (ed è sempre più frequente a ogni nuova uscita fino a raggiungere il parossismo con l’ultima), come se al suo personaggio fosse riservato il compito di ricordare agli spettatori che cos’è successo fino ad allora. Ma la serie non si ferma qui: meriterebbe un saggio a parte ad esempio l’episodio La Morty a-infinita (S04 E06), in cui i due sono intrappolati su un treno alimentato” a meccanismi narrativi” e devono uscirne con soluzioni ad hoc e inaspettati deus ex machina (tra cui anche l’arrivo di Gesù); si costituisce in tal modo un vero trattato di narratologia, zeppo di ironie su alcuni luoghi comuni e stilemi dello “sceneggiare storie” (da McKee a Kaufman e oltre).14 Infine non si può non citare l’episodio che parodizza gli heist movie alla Soderbergh, S04 E03, in cui Rick imbastisce un piano contorto per impedire a Morty di presentare l’ennesimo film sui furti ovviamente a Netflix («tanto quelli là comprano di tutto»). Tutto questo avviene in un prodotto interamente costruito su citazioni e riferimenti sia alla cultura pop contemporanea che alla fantascienza e all’horror “classici”, con il solito obiettivo di unificare più target in uno e l’effetto palese di attivare meccanismi nostalgici come in ogni apparato citazionista che si rispetti. 

Questa sovrapposizione di mondi e universi narrativi non si ferma certamente alla produzione di lingua inglese: se in questa sede si era già analizzato l’impatto della serie tedesca Dark [id., creata da Baran bo Odar e Jantje Friese, 2017 – 2020] sull’ecosistema, merita una menzione anche la brillante Come vendere droga online (in fretta) [How to Sell Drugs Online (Fast), creata da Philipp Käßbohrer e Matthias Murmann, 2019 – in corso]. Riflettendo sui generi e traducendone le dinamiche in un contesto iper-tecnologico dove un social media diventa rete di connessione tra acquirente e venditore, la serie creata da Philipp Käßbohrer e Matthias Murmann si relaziona allo stesso modo col suo pubblico, ricorrendo anch’essa all’escamotage della metanarrazione al cui interno è inclusa la stessa Netflix, che nel piano finzionale della narrazione starebbe girando un documentario su Moritz, il protagonista. Uno stratagemma già coadiuvato dalla produzione americana American Vandal [id., creata da Dan Perrault e Tony Yacenda, 2017 – 2018] (all’epoca della sua uscita serie più vista, stando ai dati parziali disponibili), della quale Come vendere droga online (in fretta) non replica solo la struttura ma attua un riadattamento e una ricontestualizzazione; anche qui il titolo della serie è il medesimo del documentario crime girato dagli studenti di una scuola.15

2. The last (?) picture show

Sebbene non corposa quanto quella seriale, l’offerta cinematografica di originals Netflix rispetta gli stessi canoni fin qui delineati, offrendo perfino più una maggior diversificazione dei modelli di produzione, acquisizione e quindi distribuzione.

Due tra le sue primissime produzioni cinematografiche sono The Square [Al midan, Jehane Noujaim, 2013] e il successivo Beasts of No Nation [Cary Joji Fukunaga, 2015]; esse hanno poco o nulla di quelle caratteristiche “interne” che più avanti avrebbero definito il modus operandi aziendale, pur esemplificandone la politica distributiva dal punto di vista estetico, giacché questi prodotti vengono pensati e progettati per una distribuzione sul web, che bypassi la sala e quindi il classico meccanismo di proposta al pubblico mediante esercente.16 È quella che Henry Jenkins, Joshua Green e Sam Ford chiamano media spreadability, coadiuvata da un algoritmo che agisce a tutto campo, includendo piccola e larga scala (Barker, Wiatrowski [2017]) e ridefinendo perciò le modalità di visione del pubblico.

nostalgia-netflix La reunion del cinema di Scorsese: The Irishman.

Più radicale è quello che avviene negli ultimi anni: con l’intento di avviare una sorta di “strategia di prestigio”, accreditandosi presso le grandi major e cercando di ottenere riconoscimenti di prestigio (dall’Oscar ai Golden Globe), e sconfiggere i sempre più numerosi competitor, la piattaforma si è avviata su un percorso cinematografico “d’autore”, che rovescia (o rilegge, a seconda della prospettiva) intere carriere o modi di fare cinema.17 È così che, da Roma [id.,  Alfonso Cuarón, 2018] a The Irishman [id., Martin Scorsese, 2019], Netflix si è impegnata nella diffusione di un cinema “alto”, dall’ampio minutaggio a emulazione delle miniserie, mirato a un pubblico affamato di consumo immediato, ritmi forsennati e soluzioni di continuità che poco si sposano, intuitivamente, con i “grandi nomi”. Ciononostante i temi trattati nei titoli prodotti dalla piattaforma aderiscono ai modelli di produzione di Los Gatos, riflettendo e ripensando costantemente il passato, il ruolo della memoria e pertanto la funzione della nostalgia; lo fanno anche dal punto di vista pratico/tecnologico: il bianco e nero di Cuarón o il ringiovanimento digitale degli attori di Scorsese si confrontano, all’atto pratico, con il cinema del XXI secolo e le sue tendenze. Talvolta, i titoli sembrano variazioni su temi già esplorati in sede seriale: 22 luglio [22 July, Paul Greengrass, 2018] che affronta il doppio attacco terroristico norvegese del 2011, e Annientamento [Annihilation, Alex Garland, 2018] che pure non è una in house production, riflettono assai bene questo concetto. Il primo film è letteralmente ambientato in un ecosistema attivamente partecipato da adolescenti, il target principale di Netflix; il secondo crea i presupposti per un iper-ambiente che finisce con l’alterare le forme, dilatare i tempi e utilizzare le immagini come spauracchio, mero contenitore di movimenti che suggeriscono ai personaggi e al pubblico in quale direzione proseguire (o non), risultando di nuovo una disamina dei topoi narrativi del cinema contemporaneo e della piattaforma ospitante.18 Tra i molti esempi non si possono non citare The Forest of Love [Ai-naki mori de sakebe, Sion Sono, 2019], bignami del cinema di Sion Sono, così come la recentissima miniserie di Nicolas Winding Refn Copenhagen Cowboy [id., 2022], simulacro enciclopedico sul suo autore, o il film antologico La ballata di Buster Scruggs [The Ballad of Buster Scruggs, Joel ed Ethan Coen, 2018] che attraversa tutti gli stili e le dimensioni (tra il comico e il tragico) della poetica dei fratelli Coen. Il caso Soderbergh come sempre è a sé, perché il più sperimentale tra i registi commerciali americani trova su Netflix pane per i suoi denti: virtuosismi formali e narrativi che discutono le modalità di messa in scena in un mondo off-sala: High Flying Bird [id., 2019](che peraltro nel finale si allaccia al cinema politico “a tesi” della piattaforma) e Panama Papers [The Laundromat, 2019] (quasi un documentario didattico che parodia le centinaia presenti nel catalogo).

nostalgia-netflix La protagonista di Choose or Die deve giocare a un videogame vintage per salvare sua madre

Va da sé che la proposta cinematografica non si ferma ai soli autori o nomi già attivi e noti nell’ambiente; anzi, esiste tutta una contro-cultura di titoli e autori (o quasi-autori: vedi par. 3) simili tra loro, tutti della scuderia originals, che operano su schemi molto simili, come iBoy [id., Adam Randall, 2017], che potrebbe definirsi una arcaica forma di presentazione dell’ecosistema, o il già citato Choose or Die, che invece funge quasi da recap, sunto complessivo delle sue tendenze. Incurante del risultato, sia esso di “botteghino” 19 o di visualizzazioni, Netflix si spinge anche oltre, portando in catalogo classici del cinema muto freschi di restauro (come ad esempio i capolavori di Mauritz Stiller o Victor Sjöström), ancora per attirare una fetta di pubblico che è storicamente rimasta estranea allo streaming, e al contempo proseguire un percorso di ampliamento del brand e dell’offerta. Il quale percorso è incoraggiato da alcuni eventi festivalieri, come quello veneziano, che avallano ulteriormente la brandizzazione multiforme di Netflix portando al Lido il clou della sua produzione: tra il 2018 e il 2022 sono tanti i titoli al Festival di Venezia, dai già citati Roma e 22 luglio ai più recenti Bardo, la cronaca falsa di alcune verità [Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades, Alejandro G. Iñarritu, 2022], Rumore bianco [White Noise, Noah Baumbach, 2022], Athena [id., Romain Gavras, 2022] e Blonde [id,, Andrew Dominik 2022] (qui il Fuori Numero su Venezia). In questo modo la strategia di accreditamento qualitativo della piattaforma è pressoché completa (basti vedere anche i numerosi premi Oscar vinti dal colosso, seppur spesso minori). E lo è perché – non si sa quanto consapevolmente da parte della critica – le sono riconosciuti uno stile e un apparato tematico ben definiti e “personali”.20

Accade qualcosa di singolare a questo proposito: tanto il grande autore quanto il meno noto, per convenzione più malleabile alle pressioni produttive, sembrano ciascuno a proprio modo strumenti per mettere in pratica la poetica della piattaforma, che lascia tuttavia piena libertà creativa e vincola relativamente poco il risultato finale a schemi stabiliti. Gli autori sono quindi co-autori di una operazione che li prevede e li supera, e che incentiva la riflessione metatestuale sull’ambiente in cui sanno che i propri prodotti si posizioneranno.

3. No entity without connectivity

Individuati i temi e le forme che riteniamo ci autorizzino a parlare di Netflix come un ecosistema uniforme che connette tra loro universi narrativi differenti costituendo un ulteriore sfondo narrativo per ognuno di essi, non ci resta che calare queste considerazioni in una teoria efficace. Da un punto di vista prettamente estetico, che cos’è Netflix? E – per andare sul provocatorio – che cosa ci autorizza a conferire all’intera piattaforma (o meglio al brand) lo statuto estetico di “autore effettivo” dei suoi contenuti?

L’avvento dell’era web ha sollucherato i semiologi negli anni ‘90, contenti di poter finalmente applicare nel concreto, senza aggiustamenti teorici di sorta, la moderna nozione di ipertesto a oggetti che non lo fossero solo in potenza ma anche in atto. Prenderemo alcune definizioni classiche di ipertesto e vedremo che si adattano perfettamente all’universo fin qui delineato, e che alcuni sotto-concetti connessi ci permettono di strutturare in maniera chiara l’oggetto Netflix visto come testo.21

Nessun testo è un ipertesto preso singolarmente.22 Questa è una nozione che «fa riferimento a una serie di caratteristiche fondamentali della strutturazione del testo elettronico» (Bettetini et al [1999]), le quali sono:

1) l’organizzazione modulare e reticolare del contenuto

2) la presenza di diverse tipologie di legami che connettono i moduli testuali

3) l’assenza di una direzione di lettura unica e obbligata

4) l’interattività della fruizione: a sua volta divisibile in navigazione e dialogizzazione.

Ancora Bettetini [1999] (pp. XIII): «l’ipertesto può essere letto come macrotesto composto di microtesti, tra loro connessi in una mappa-labirinto esplorabile dall’utente, in cui non sono presenti solo le origini dei rimandi intertestuali, ma anche le loro destinazioni. […] [Esso] si manifesta, allora, come visibilizzazione della struttura testuale in cui sono inclusi anche gli strumenti della sua interpretazione” ma anche “rete semantica e concettuale attorno a un argomento» [corsivo nostro]. Questa è una definizione operativa ed è sufficiente per portarci dove vogliamo. I microtesti sono ovviamente i singoli prodotti contenuti nella piattaforma (i nodi), film o serie tv che siano; dei rimandi intertestuali (e intratestuali) si è parlato nei precedenti paragrafi; così come dei legami di connessione tra i nodi (caratteristica numero 2) che possono essere temi affini, troupe e cast, o in generale proprietà che suggeriscono l’appartenenza a un medesimo universo narrativo.

I significati celati emergono dai rimandi di cui abbiamo fornito un campionario, ed essi hanno valore semantico in quanto presenti come nodi nella stessa rete. Nel caso poi di temi specifici come la nostalgia o specifiche battaglie politiche (cfr. nota 20), ecco che la piattaforma è la rete di cui parla Bettetini. Tutto sembra quadrare.

Per quanto riguarda il punto 4, una delle peculiarità di Netflix è data dall’intervento cooperativo del fruitore: il binge watching non è altro che una modalità della navigazione, così come la possibilità di saltare, accelerare o decelerare, guardare solo i passaggi che si preferiscono etc.: attività tipiche dello streaming diventate legali e legittime e concentrate in un unico ambiente che acquisisce quindi le proprietà formali delle strutture ipertestuali. Non sono solo i singoli prodotti a richiedere la cooperazione del fruitore ma è la “stanza” in cui sono calati e interconnessi. L’elemento fisico, spaziale, è fondamentale, come si vedrà.

Ma esistono definizioni più precise di ipertesto. In quella classica di Nelson [1990] (la prima storicamente apparsa) è esplicitata la dimensione interattiva, che abbiamo visto poter essere ascritta a Netlifx non solo per via del suo essere piattaforma streaming come le altre ma soprattutto per aver tematizzato consapevolmente questo meccanismo e aver in qualche occasione tentato di replicarlo in un prodotto.23

Bettetini riporta poi una definizione strettamente informatica (p. 5): l’ipertesto è «un programma software che consente di navigare all’interno di un corpus di informazioni testuali senza alcun vincolo di sequenzialità secondo itinerari associativi predisposti dall’autore rispetto ai quali è possibile un’interazione di tipo esplorativo e navigazionale». Possiamo considerare equivalenti tutte queste definizioni e calzanti per l’ecosistema che abbiamo fin qui descritto.

Come si presenta quindi un ipertesto? «Organizzazione dei contenuti; prefigurazione delle dinamiche della fruizione; visibilità di entrambi» (Bettetini [1999]). Sembrerebbero di nuovo caratteristiche non esclusive di Netflix ma tipiche di tutte le piattaforme, legate innanzitutto alla spazialità dell’ipertesto (cfr. p. XVII). In realtà seppur esista una sorta di isomorfismo tra di esse, abbiamo visto che la peculiarità dell’azienda di Los Gatos è nei contenuti, che permettono di travalicare lo statuto di semplice contenitore di cose. Ed è quindi lì che dobbiamo spostarci, all’interno dell’ipertesto.

La centralità che conferisce Bettetini alla nozione di spazio lega direttamente l’ipertesto alla dimensione topologica della piattaforma streaming, quella di uno spazio concreto: «[…] alla successione di elementi che caratterizza la logica temporale, l’ipertesto sostituisce la compresenza effettiva o virtuale nella navigazione». E ancora (p. XVIII): «il carattere che definisce l’organizzazione del contenuto è la connettività reticolare attraverso cui i singoli nodi (testi) sono connessi in una rete di relazioni che conferisce loro un senso ulteriore rispetto alla somma delle singole parti». Qui interviene la nozione di spazio logico che precede la dimensione visibile e al contempo la orienta.

Lo spazio logico è la «struttura concettuale soggiacente alla forma di manifestazione sensibile di ciascun testo» (p. 50) ed è quindi quel livello della virtualità in cui risiedono le reti e le connessioni tra ciò che del testo possiamo esperire. La sua presenza è fondamentale perché è proprio «l’organizzazione e strutturazione dello spazio logico che costituisce l’effettivo atto di scrittura ipertestuale» (p. 51, corsivo nostro). Al livello superiore si trova invece lo spazio visibile che altro non è – nel nostro caso – che la forma visualizzabile della piattaforma, l’interfaccia quindi. La sua esistenza garantisce che lo spazio logico si ancori a una particolare configurazione topologica con tutti i suoi nodi visibili e le connessioni possibili tra essi stabilite dall’algoritmo delle preferenze.24 Diciamo allora che lo spazio logico è la semantica dell’ipertesto mentre lo spazio visibile ne è la sintassi. Insieme costituiscono la dimensione strutturale dell’ipertesto (e dell’oggetto-Netflix nello specifico).

Lo spazio logico inoltre «si configura come sia dotato di un livello di esistenza puramente logico, sia di un livello di esistenza fisico» (p. 51) che altri non è che il sistema di archiviazione (dati e bit). A noi interessa il primo livello che chiameremo “formale”, quello dove “giacciono” le tematiche, vale a dire le reti di relazioni tra nodi, ad es. le due maggiori da noi individuate: nostalgia e autoreferenzialità. Colombo e Eugeni [1996] definiscono non a caso quello logico come lo «spazio fondamentale per la costruzione del senso».

Infine abbiamo lo spazio agito che costituisce la dimensione della fruizione e dell’interpretazione. (La quale meriterebbe un saggio a parte che preveda anche una ricerca empirica sugli spettatori.)25

Riassumendo in uno schema:

Dimensione Strutturale:

Spazio Logico (Semantica)

Formale: Relazioni interne | Fisico: Bit, dati

Spazio Visibile (Sintassi)

Piattaforma (interfaccia)

Dimensione Interpretativa:

Spazio Agito (Pragmatica)

Esperienza del fruitore

Ciò che distingue Netflix dalle concorrenti è la produzione di contenuti interattivi sul proprio brand e la brandizzazione di prodotti pre-esistenti, spesso accomunata dal tema della rievocazione nostalgica del passato. È una proprietà qualitativa, vale a dire una “continuità tematica” (espressa anche da scelte formali testuali e paratestuali di cui si è detto) a differenziare l’ipertesto netflixiano dalle piattaforme che ipertesti non sono. E non lo sono perché – schema alla mano – ciò che manca è la dimensione formale della loro semantica (cioè il loro spazio logico), che impedisce se ne possa parlare come qualcosa più che semplici contenitori di film. E chi è l’autore dietro questa produzione di senso se non il brand stesso?

Una obiezione potrebbe essere: dato che Netflix è testo (ipertesto) è possibile definirlo anche autore? È possibile sostenere l’equazione “testo = autore”? Come si è detto un ipertesto contiene molti testi e Netflix è quindi più un ambiente che una singola opera, almeno se intendiamo l’oggetto Netflix come quell’oggetto formato dalle due dimensioni sopra schematizzate (ammettiamo resti suggestivo vederla come una singola enorme opera ipertestuale, ma rimaniamo sulla precisione).

Quando invece ci riferiamo a Netflix come autore parliamo del brand, del marchio apposto sui prodotti. È una nozione di autore astratto, vicina alla intentio operis più che all’autore empirico (essi sono molti come sappiamo, almeno uno diverso per ogni prodotto. E finiscono per essere “solo” dei co-autori): tutto ciò che si può attribuire ad “autore” dal punto di vista estetico è attribuibile al marchio Netflix, almeno per i film e le serie qui analizzate e citate. E questa da sola è una sovversione concreta delle nozioni canoniche dell’estetica, e non lo è solo nella forma di una ipotesi teorica. L’evento Netflix ha fatto confluire in sé una serie di piccole rivoluzioni che l’era digitale stava apportando al mondo degli audiovisivi e questo non poteva che portare a conseguenze teoriche altrettanto rilevanti, volontarie o meno che siano state (come s’è visto c’è in parte della programmaticità, ma come ogni operazione che coinvolge menti creative e economiche differenti anche una discreta dose di serendipità).

Se le categorie della ripetizione e in parte della autoreferenzialità sono, diremmo, ‘ontologiche’ rispetto alla piattaforma, le sono connaturate fin dalle origini, inscritte nel suo spazio logico, la categoria della nostalgia è il primo grande macrotema (escludendo quello “politico”) che certifica la trasformazione della piattaforma da ‘semplice’ ecosistema a vero e proprio ipertesto con un autore alle spalle: il brand. Capace come pochi altri autori di anticipare tendenze e influenzare direzioni dell’audiovisivo contemporaneo.

Ringraziamenti:

Il primo autore ringrazia Giulia Mangiaracina per le osservazioni e i riferimenti musicali forniti nella digressione su Stranger Things.

Il secondo autore ringrazia l’associazione studentesca UniAttiva che ha permesso il ciclo di seminari all’Università di Palermo dal quale ha preso le mosse questo lavoro.

Entrambi ringraziano i membri del Salotto Monogatari Podcast per aver incentivato e ospitato la riflessione su Netflix degli ultimi due anni e aver imbastito il laboratorio preparatorio a questo saggio.

Bibliografia:

Barker C., Wiatrowski M. (a cura di) [2017], The Age of Netflix. Critical Essays on Streaming Media, Digital Delivery and Instant Access, McFarland & Co.

Bettetini G., Gasparini B., Vittadini N. [1999], Gli spazi dell’ipertesto, Bompiani

Buck A. M., Plothe T. (a cura di) [2019], Netflix at Nexus, Peter Lang

Colombo F., Eugeni R. [1996], Il testo visibile, La Nuova Italia Scientifica

Crawford C. J. M. [2020], Netflix’s Speculative Fictions: Financializing Platform Television, Lexington

Hastings R., Meyer E. [2020], L’unica regola è che non ci sono regole. Netflix e la cultura della reinvenzione, trad. it. di S. Caraffini, Garzanti

Jenner M. [2018], Netflix and the Re-invention of Television, Springer

Nelson T. H. [1990], Literary Machine 90.1: Xanadu

Pallister K. (a cura di) [2019], Netflix Nostalgia: streaming past on demand, Lexington

Wolff M. [2015], Television is the New Television, Penguin

NOTE

1 “The OA” sta proprio per Original Angel: la riflessione è tutta sui rapporti che intercorrono tra autore e spettatore, ipertesto e lettore. Non sono infatti poche le referenze della serie alla letteratura mitologica e alle sue varie interpretazioni. Per ulteriore approfondimento vedi Buck e Plothe [2019], cap. 5.

2 Probabilmente queste dinamiche riflettono la comune pratica da major, che mette sotto contratto interpreti e professionisti del settore per più di un lavoro, ma rafforzano l’impressione di molti studiosi che Netflix veda distribuzione e produzione come coincidenti (cfr. Jenner [2018]).

3 Come spiega Jenner [2018] il modello preso a esempio e rivendicato da Netflix è quello della “quality television”, con l’obiettivo di sradicare il monopolio qualitativo della HBO. Difatti Reed Hastings, CEO di Netflix, ha dichiarato che intento iniziale dell’azienda fosse quello di “[…]to become HBO faster than HBO can become us”. Questa ossessione per HBO ha le proprie radici nel periodo a cavallo tra fine anni ’90 e inizio del millennio in cui l’emittente inglese compie quello che nell’industria viene definito “shift”, un’inversione di tendenza nella qualità dei prodotti offerti. Sui modelli imitati vedi sempre Hastings e Meyer [2020].

4 Addentrarsi nel dibattito sull’opportunità di definire Netflix “televisione” sarebbe impresa donchisciottesca ma stendiamo qualche appunto. Per quanto un approccio tradizionale potrebbe suggerire non sia così, va detto che il modello fisico offerto da Netflix è stato spesso riproposto da realtà nazionali e servizi streaming che si appoggiano comunemente al sistema di broadcasting classico. (Altra somiglianza con HBO: Sky Atlantic diventa la piattaforma in pay-per-view dove poter guardare i programmi HBO trasmessi negli Stati Uniti proprio mentre il servizio streaming HBO Max inizia il proprio corso). A monte del dibattito v’è la questione dei dispositivi, della condivisione dei contenuti e l’abbandono progressivo del “live”, quest’ultimo spesso considerato la linea di demarcazione tra la tv e il resto della medialità audiovisiva. Il punto estetico rilevante, tuttavia, è che i prodotti che Netflix propone sono strutturalmente prodotti televisivi, a prescindere dai supporti di fruizione; inoltre è la stessa azienda a rivendicare di essere “televisione”, e sappiamo che l’autodefinizione, l’autonarrazione, il voler dare subito coordinate teoriche, sono suoi tratti distintivi, entrando a far parte della forma dei prodotti della sua “seconda fase”. Appare problematico allora affermare, come fa Jenner, che “Netflix is clearly not broadcast television”. Per approfondire il dibattito vedi Wolff [2015].

5 Sul modello di target della piattaforma vedi il paper di J. Zündel in Buck e Plothe [2019].

6 Interessanti le varie letture di questo fenomeno proposte in Pallister [2019].

7 Le cassette non sono l’unico elemento di rievocazione del passato: Troy, migliore amico di Clay, che le cassette le ha già ascoltate, guida un’auto “d’epoca” e veste come Fonzie di Happy Days (che peraltro era a sua volta un prodotto nostalgico di un passato edenico. Nostalgie come matrioske).

8 Cfr. Pallister [2019]: la possibilità di accesso immediato a quel contesto nostalgico sul quale si fonda gran parte della poetica netflixiana significa automaticamente la necessità di rivisitare il concetto di genere stesso, perché non vi siano più possibilità di fraintendimento che lo releghino a “serie B”. Ancora, concetto e azione proseguono su uno stesso binario, come parlassimo di un singolo artista e non di una casa di produzione.

9 Ennesimo film emblematico della natura microcosmica dei prodotti “interni” Netflix. Vi troviamo la rievocazione di un passato analogico (gli anni ‘80, i vecchi videogames, le registrazioni su nastro, il VHS che diventa “corpo” come in un Cronenberg del periodo, la voce di Robert Englund in segreteria telefonica) e le dinamiche estetico-politiche ormai tipiche del brand (nel finale addirittura la protagonista – ovviamente membro di una minoranza – prende consapevolezza di essere uno strumento di lotta contro il boomerismo e una visione antiquata dei rapporti sociali e sconfigge il maschio etero cis di mezza età). Uno dei due autori di questo saggio lo ha difeso QUA.

10 Un precursore di questa riflessione è senza dubbio il Lynch di Twin Peaks [1989-1990] e di Fire walk with me [1992], nel momento in cui lavora sulle possibilità di correlazione tra due media differenti: cinema e tv. L’operazione lynchiana è ovviamente più radicale e teorica proprio perché pionieristica, mentre le bizzarrie netflixiane sono interessate a riflettere sul device e sulla adattabilità della fruizione tv alle nuove percezioni del reale; sono senza dubbio più calate nel contemporaneo.

11 È in questo processo, sin dalla sua creazione, che si inserisce il “Flanagan x Netflix”: la nomenclatura è la stessa delle collaborazioni tra artisti, influencers e personalità di spettacolo con le case di moda (e.g. “Jean-Paul Gaultier x Supreme”). Modus operandi adottato poi da altri broadcaster tanto che Flanagan a Dicembre 2022 ha firmato un contratto quinquennale con Prime Video spostando su Amazon la sua serie; di nuovo la “new HBO” ha dettato legge su come le piattaforme dovrebbero attirare autori nel lungo periodo, anche per le concorrenti.

12 La serie si conclude con una possibile, seppur blanda, lettura degli eventi come parte del racconto di chi li ha vissuti; concettualmente, la successiva produzione di Flanagan per Netflix, The Haunting of Bly Manor, ne replica il modello nel consueto processo autoreferenziale della piattaforma, con tanto di Victoria Pedretti, già personaggio centrale in Hill House, come protagonista. L’ipertesto contempla anche dinamiche del paratesto.

13 Nell’ottica di inserimento di prodotti pre-esistenti collegati ad acquisti di successo Netflix ha riportato in auge l’altra serie bizzarra di Dan Harmon: Community, una delle opere più significative per studiare i meccanismi della autoreferenzialità e della rottura della parete in ambito seriale. Anche qui un solo personaggio, Abed, è in grado di rendersi conto che tutti i protagonisti si trovano all’interno di una serie, leggendo ogni anno scolastico come una stagione televisiva.

14 Per chi fosse interessato rimandiamo a una puntata del Salotto Monogatari in cui si è commentato l’episodio step by step.

15 La produzione “alternativa” non si ferma alla sola Germania; sia la attivissima Spagna che il Brasile, infatti, hanno contribuito all’espansione dell’ecosistema. Da La casa de papel, ancorata ad un modello di televisione generalista la cui prima stagione non è ancora propriamente ‘netflixiana’, a Elite, che insiste sul modello teen crime riflettendo sull’eterogeneità del suo pubblico, passando per 3%, serie brasiliana ambientata in una distopia dove ogni anno solo il 3% dei partecipanti ad un “hunger games” viene selezionato per andare a vivere in un luogo ideale, lontano dalla povertà, in cui sviluppare il proprio potenziale: un ecosistema costruito ad hoc per un pubblico.

16 Il paragone avanzato da alcuni professionisti del settore con il direct-to-video non tiene conto dell’intera proposta che un palinsesto multimediale in streaming offre al consumatore; è altrettanto vero che la strategia Netflix è una rilettura di quel modello: l’azienda in origine si inserisce sul mercato del noleggio digitalizzandone la domanda, prima di passare ad un’offerta direct-to-streaming.

17 Sul rapporto tra Netflix e grandi major hollywoodiane vedi cap. 3 di Buck e Plothe [2019].

18 Di recentissima uscita The Wonder [S. Lelio, 2022] racconta una storia in costume esibendo fin dall’inizio la finzione cinematografica e interpellando lo spettatore con la richiesta di “credere alla storia”, come a volerlo costringere a rispettare il dettame narratologico della sospensione dell’incredulità. Guarda caso la trama è poi tutta incentrata sul “raccontare storie”, la potenza dello storytelling come soluzione ai propri problemi (addirittura la finzione narrativa salva una bambina dalla morte per denutrizione).

19 Molto complicato parlare di “incassi” nell’era dello streaming multimediale, specie con Netflix, che mal volentieri, e quasi mai, rende noti i numeri dei film che distribuisce al cinema a qualche giorno dalla disponibilità in piattaforma. Ne ha parlato Michele Casula qui e con noi qui.

20 Quello politico è, a conti fatti, l’altro polo tematico precipuo insieme a quello nostalgico, sul quale qui glissiamo per mancanza di spazio. A tal proposito rimandiamo a una breve riflessione già fatta in altra sede (QUI).

21 Intendiamo qui “testo” nella ormai classica accezione strutturalistica, quindi non ristretta ai soli testi scritti. Il testo scritto – come quello audiovisivo – è semplicemente un token del type “testo”.

22 Al massimo possono esserci testi che ripetono, citano, ripercorrono le dinamiche e le forme dell’ipertesto, riproponendo la struttura della piattaforma (esempio già fatto: Bandersnatch) e che, per definizione, non possono essere chiamati strettamente ipertesti.

23 Oltre a Bandersnatch, già citato, sembrerebbe appartenere a questa tipologia anche la serie Caleidoscopio, che uscirà l’1 Gennaio 2023 e avrà la particolarità di cambiare prospettiva a seconda dell’ordine di visione degli episodi (interattività, autoreferenzialità e autonarrazione della piattaforma. Per non parlare poi del fatto che dalla trama sembrerebbe una heist serie, con grande scorno di Rick Sanchez).

24 L’ipertesto è giocoforza “personalizzabile”: esso “dal punto di vista pragmatico orienta gli atteggiamenti cognitivi che il lettore assume verso il testo e ne guida la navigazione, il percorso di esplorazione e la comprensione del contenuto” (p. 61).

25 “Il metalinguaggio che connota queste forme di testualità ha lo scopo di comunicare non tanto un contenuto quanto la necessità di una interazione che si manifesta […] come percorso in uno spazio” (Bettetini, p. XX). Agire cioè “muoversi” nell’ipertesto tra il reale e il simbolico: la piattaforma come attualizzazione dell’intervento esterno dello spettatore e suo stimolo. Concretizzandosi in uno spazio diventa appunto un percorso fisico, aperto, visivo, una esperienza immersiva differente dalle altre sperimentate nella storia dell’audiovisivo (tranne, anche se con accezioni diverse, nell’ambito videoludico).