«While I have the illusion of free will, I have the illusion of free will» – Devs di Alex Garland

Nella recente miniserie Devs [id., 2020], da cui è tratta la frase che titola questo paragrafo introduttivo, Alex Garland affronta il dilemma dell’esistenza del libero arbitrio proponendo un affascinante parallelo tra la speculazione filosofica e fantascientifica e la riflessione sull’immagine (in questo caso cinematografica). Il racconto si sviluppa a partire dal presupposto che esista una macchina infinitamente potente in grado di ‘calcolare’ ogni singolo momento presente e passato della storia dell’universo. Il risultato del calcolo, per la maggior parte del racconto, ha natura audiovisiva: dopo aver valutato infinite variabili e aver ricostruito un’istantanea dinamica della realtà, il sistema Devs crea dei video che trasmette su uno schermo.

Le immagini prodotte, in base alle possibilità di discernimento della macchina, sono più o meno precise e a volte si dissolvono in una marea di pixel simile a un’interferenza televisiva. Questa rappresentazione cinematografica della ricostruzione è, se vogliamo, chiaramente autoriflessiva: Devs prende in considerazione, valutando la possibilità che l’universo sia deterministico, che la realtà stessa sia analoga a un’immagine – che abbia cioè un inizio e una fine, e che sia dall’inizio alla fine determinata, già accaduta, e per questo immutabile. Del resto, l’ipotesi del determinismo condivide con l’immagine il rimando a un’idea di tempo ciclico, eternamente identico a se stesso e invariabile: quello del filmato è uno spazio-tempo predeterminato, che in quanto tale torna sempre identico a ogni iterazione.

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Spesso i protagonisti osservano lo schermo sbigottiti o completamente assorti. Queste scene, alternando campi e controcampi in soggettiva o semisoggettiva, esplicitano il rimando autoriflessivo che associa il Devs al cinema, e i ricercatori agli spettatori. Devs ipotizza che l’universo sia deterministico e che funzioni come un’immagine registrata e riprodotta all’infinito. 

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La riflessione sulla predeterminazione, e quindi sul mondo come immagine, si fa esplicita quando nell’episodio 7 immagine e immagine-nell’immagine (emessa dal Devs) si confondono: ogni inquadratura, da un momento all’altro, può dissolversi in un’interferenza e svelare di essere un ‘quadro nel quadro’.

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La scena in cui i ricercatori di Devs interagiscono con la loro proiezione è forse l’apice autoriflessivo della serie: qui si suppone che lo schermo renda immagini in tutto e per tutto identiche a chi le guarda da fuori. La scena crea un paradosso ricorsivo infinito, in cui un’immagine si specchia in un’immagine – e di questo si spaventa.

Verso il finale, però, la protagonista Lily riesce a fare qualcosa di non previsto dal programma. Lily conosce il futuro perché come lo spettatore l’ha visto sullo schermo del Devs. Proprio per questo, esercitando per la prima volta libero arbitrio, compie quello che viene in seguito definito ‘un peccato originale’ e crea una singolarità: di riflesso il racconto non va come previsto, non segue quanto già calcolato dalla macchina, ma si rilancia in un territorio nuovo e inesplorato che poi è il finale della serie. Anche questo finale seguita il discorso autoriflessivo delle puntate precedenti. Se il tempo dell’immagine è come quello del mito per Walter Benjamin, definito da «una ciclicità interminabile e senza fine»,1 ed entrambi sono permeati da una qualche idea di predeterminazione, l’unica cosa che può spezzare il ciclo del destino è «un’istanza distruttiva […] e anarchica […] che non desidera quel riconoscimento che la riassorbirebbe nel cerchio magico del mito. In altre parole: un’interruzione».2 Nell’immagine ciclica si genera una singolarità che spezza il destino, e impedisce agli eventi di seguire il loro corso.

Varie volte durante la serie vediamo anticipata la singolarità, intesa come negazione di una visione deterministica dell’universo (e quindi del racconto, e quindi dell’immagine). Alcune tra le più efficaci scene di Devs contemplano l’esistenza di più mondi possibili. In queste scene, in uno stesso scenario si muovono più copie di uno stesso protagonista o di più protagonisti, o vetture, o oggetti, che abitano uno spazio unico ma in più realtà diverse. Anticipando la svolta decisiva, queste ‘immagini-multiverso’ configurano lo spazio del visibile come uno spazio di molteplici incompossibilità. L’interruzione dell’eterno ritorno e della determinazione, in questo senso, è proprio il riassorbimento di una di queste realtà possibili all’interno dell’immagine. Torneremo su questo esempio in conclusione.

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Il caso di Devs è affascinante in quanto, con una certa chiarezza, porta alla luce l’intrinseca vena autoriflessiva del rapporto tra ciclicità del tempo e immagine, o racconto. Seguendo questa direzione siamo portati a chiederci: come si articola il rapporto tra realtà incompossibili e immagine in altri mondi narrativi, e dove portano queste autoriflessioni, quali conclusioni possono aiutarci a trarre? Seguendo l’ispirazione di Devs, in questo articolo prenderemo anzitutto in considerazione mondi narrativi che, analogamente, si pongono in relazione (ammettendola o negandola) con la coesistenza di più realtà. In particolare, saremo interessati a notare come questi multiversi possiedano una natura squisitamente autoriflessiva, siano tesi cioè a sondare le possibilità e i limiti di immagini e di narrazioni in cui vengono incapsulati, ora cinematografiche e ora seriali, oppure videoludiche. Prenderemo prima in esame dei racconti di per sé stessi distribuiti su più realtà; poi racconti che ammettono implicitamente la possibilità che esistano altri mondi possibili. Questo ci aiuterà infine a rivedere in chiave metaforica, o in funzione autoriflessiva, il concetto di reboot, contestualizzato in una ‘ecologia mediale’ ormai distribuita su più piani di realtà.

 1. Paradossi temporali e autoriflessioni: l’immagine come ‘macchina del tempo’

Benché non interessati direttamente dai viaggi nel tempo in questo articolo, vogliamo comunque spendere qualche parola prima di procedere su una lettura metalinguistica dei paradossi temporali (e quindi in un certo senso della possibilità dell’esistenza di altre dimensioni, o altre realtà) di alcuni testi audiovisivi.

Nel suo “Cinema e paradossi temporali. Alcune riflessioni”3 Nicolò Vigna si sofferma sui «forti connotati metalinguistici» delle narrazioni cinematografiche a tema paradossi temporali. L’idea, esplorata a fondo da Todd McGowan in Out of Time, o nel Puzzle Films curato da Warren Buckland,4 si basa sull’implicito collegamento tra viaggio nel tempo e immagine cinematografica: «a ogni visione sembra quasi che l’immagine compia un viaggio temporale per ritornare identica ogni volta che la proiezione ricomincia».5 Da questa prospettiva ogni immagine è assimilabile a una ‘macchina del tempo’ in quanto finestra su di un mondo che si ripete all’infinito. Possiamo leggere le due risoluzioni al paradosso temporale di un viaggio a ritroso seguendo questa stessa interpretazione autoriflessiva. Se il viaggio nel tempo è già accaduto (la congettura è quella della ‘protezione cronologica’ formulata da Hawking), e il presente non può essere modificato, la chiusura del testo nel circuito inizio-fine è per autodefinizione deterministico: per i protagonisti, per i loro drammi, per le loro sconfitte non c’è scampo – accade per esempio ne L’esercito delle 12 scimmie [12 Monkeys, Terry Gilliam, 1995]. Se invece il viaggio nel tempo non è già accaduto, e genera quindi un’altra realtà precedentemente inesistente (secondo ‘l’interpretazione a molti mondi’ di Bryce Seligman), il testo sembra dichiararsi in grado di rilanciare le proprie possibilità oltre la sua fine, o prima del suo inizio: ecco che, a livello anche intertestuale, i mondi narrativi si allargano e si distribuiscono su più realtà probabili, magari nate da un ceppo comune e sviluppate in parallelo su tempi differenti – è il caso di Avengers: Endgame [id., Anthony e Joe Russo, 2019], che si basa proprio sulla possibilità dei protagonisti di tornare indietro nel tempo e modificare i tragici eventi del film precedente.

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In Avengers: Endgame i protagonisti modificano il corso degli eventi del film precedente, Avengers: Infinity War [id., Anthony e Joe Russo, 2018], generando una realtà parallela che viene poi riassorbita nella continuità di quella ‘canonica’. Nell’immagine: i protagonisti di Endgame si preparano a viaggiare indietro nel tempo.

Il viaggio nel tempo è un espediente narrativo che non solo raccoglie i lasciti della fantascienza e le ispirazioni della fisica quantistica, e che riassume efficacemente posizioni esistenziali sul libero arbitrio o sulla sua impossibilità, ma soprattutto un dispositivo tramite cui alcuni racconti percepiscono e delimitano le loro stesse possibilità, anche al di là dei loro singoli limiti testuali. Non è un caso che oggi molti ‘universi estesi’ contemplino la coesistenza di piani paralleli, tangenti oppure incidenti. Tale coesistenza sparpaglia spesso il racconto in più media diversi – il media franchise come ‘universo esteso’, in questi casi, diventa allora esso stesso autoriflessivo: a più linee temporali corrispondono diverse esperienze mediali, e l’immagine diventa in grado di ripercorrersi, reinventarsi, prendere strade diverse.

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Il caso del reboot di Star Trek [id., J. J. Abrams, 2009], a tal proposito, è emblematico. La serie di film attualmente in corso si svolge in una realtà parallela generata da Spock, tornato indietro nel tempo accidentalmente e trovatosi a interferire col corso degli eventi dei film precedenti. Si tratta di un’appropriazione da parte del racconto filmico, di nuovo autoriflessiva, del concetto stesso di reboot. Nell’immagine: la Narada entra nella singolarità nello Star Trek del 2009.

Quanto detto a riguardo dei paradossi temporali può essere facilmente esteso a mondi che, pur senza il riferimento alla fantascienza o alla possibilità effettiva dei protagonisti di spostarsi avanti o indietro nel tempo, contemplano l’esistenza di più realtà parallele.

2. Mondi irreali: «se questo è un sogno, c’è il mondo intero dentro»6

Molti racconti tematizzano l’esistenza di più realtà possibili a partire dal sogno o dall’allucinazione (individuale o collettiva). Il titolo di questo paragrafo viene da Stay – Nel labirinto della mente [Stay, Marc Forster, 2005], film-puzzle o ‘mind-game movie’ tutto basato sull’idea che il mondo narrativo sia una realtà parallela alla nostra.7 Gli eventi che vediamo si scoprono infine essere nient’altro che un’allucinazione in stato di semi-incoscienza di uno dei personaggi principali. A una prima analisi Stay può sembrare analogo ad altri film-esperienza come Allucinazione perversa [Jacob’s Ladder, Adrian Lyne, 1990], in cui il racconto si svela frutto di uno stato allucinatorio di un reduce di guerra, Jacob, in punto di morte. In entrambi i casi, la realtà filmica è un sogno o un’allucinazione: un piano separato da quello reale in cui il racconto naufraga o si chiude, in preda alla confusione, prima di ricongiungersi al ‘mondo vero’ e trovare la pace – entrambi sono incubi in punto di morte che hanno fine solo quando i sognatori accettano di morire.

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Stay – Nel labirinto della mente.

La particolarità di Stay rispetto ad Allucinazione perversa è forse nella natura, se vogliamo fenomenologica, del racconto filmico. Allucinazione perversa è in tutto e per tutto un incubo di Jacob che lo proietta in una realtà impossibile e allucinata, in cui cioè Jacob stesso si immagina in un altro luogo e in un altro tempo, alle prese con mostri e fantasmi che assediano il suo sogno di un ritorno alla normalità a posteriori della guerra – qualcosa che ricorda da vicino la duplice realtà di Vanilla Sky [id., Cameron Crowe, 2001] oppure, volendo andare a ritroso, che ripercorre il solco tracciato da Il gabinetto del dottor Caligari [Das Cabinet des Dr. Caligari, Robert Wiene, 1920], o ancora le varie ‘realtà multiple’ del cinema lynchiano, da Strade Perdute [Lost Highway, 1997] a Mulholland Drive [id., 2001], per finire a INLAND EMPIRE – l’impero della mente [INLAND EMPIRE, 2006]. Propone cioè, come i casi succitati, delle realtà che sono esperite, raccontate e (con tutta probabilità) create da un solo soggetto. Stay è invece un sogno di Henry, paziente dello psichiatra Sam Foster, ma gli eventi sono visti dalla prospettiva di Foster, e non del sognatore morente. Questo ci svela la particolarità e il principale motivo di interesse di Stay: in Stay la realtà allucinatoria si configura come mondo8 – è cioè una realtà percepita da più soggetti anziché generata ed esperita da un solo individuo. In particolare, il ‘narratore’ e alter-ego dello spettatore è frutto inconsapevole dell’allucinazione di Henry.

Qualcosa di analogo lo si vede in film come Matrix [The Matrix, Andy & Larry Wachowski, 1999], The Cell – la cellula [The Cell, Tarsem Singh, 2000], Paprika – Sognando un sogno [パプリカ, Papurika, Satoshi Kon, 2006] e Inception [id., Cristopher Nolan, 2010], oppure in videogiochi come la serie di Silent Hill [Konami, 1999-in corso] o The Evil Within [id., Bethesda Softworks, 2014]. Pur non recuperando il lucido capovolgimento di Stay, in cui il protagonista è parte dell’allucinazione e non un suo ‘ospite’, tutti questi racconti si basano sulla costruzione di realtà ulteriori che vengono abitate come mondi, da più soggetti e indipendentemente dalla simultaneità della loro presenza.

Per scavare nelle possibilità autoriflessive di questi racconti è sufficiente far riferimento a un esempio analogo ai precedenti, e che però capovolge l’ipotesi di una realtà ulteriore dal dominio del sogno o dell’allucinazione a quello dei media contemporanei: The Truman Show [id., Peter Weir, 1998]. Anche Truman Burbank vive in una realtà parallela e squisitamente artificiale, in parte plasmata secondo la fantasia del suo demiurgo Christof: la particolarità di questo mondo è che si tratta di un reality show. Riprendendo anche più di Matrix il Simulacri e simulazione (Simulacres et Simulation, 1981) di Jean Baudrillard (che verrà recuperato brillantemente anche da Synecdoche, New York [id., Charlie Kaufman, 2008], film che analogamente riflette su realtà simulacrali altre), The Truman Show racconta della trasformazione della realtà in immagine, e quindi dell’impossibilità di distinguere il mondo dalle sue rappresentazioni.

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Il finale di The Truman Show si ambienta proprio al confine del mondo irreale in cui hanno luogo gli eventi del film.

Il film è però anche un esperimento metariflessivo: essendo esso stesso finzionale, gioca con l’illusione della possibilità di uscire dal mondo del simulacro – Truman, come il Neo di Matrix, può scegliere se continuare o meno a far parte della realtà in cui si trova. Il risultato è paradossale: se il mondo è immagine, solo un’immagine può svelarne l’immaginalità. Analogamente, i racconti che abbiamo citato poco sopra in questa sezione presentano una simile china autoriflessiva: ambientandosi in una realtà alternativa a quella data, tutti vanno oltre le capacità di discernimento e scelta che noi, nella nostra realtà, abbiamo o saremo mai in grado di avere. Gli assunti che ne risultano sono i medesimi: se il mondo è un sogno, solo un sogno può svelarcelo (o insinuarci il dubbio che lo sia – vedi il finale di Inception); se il mondo è un’allucinazione, solo un’allucinazione potrà farcelo capire; se non possiamo essere sicuri della realtà che abitiamo, sarà un’altra realtà a rendercene insicuri. Da questa prospettiva, la finzione compie un passo che la realtà che rappresenta non può compiere: l’immagine si auto-dichiara allora specchio della realtà, in grado al contempo di riprodurla e di darla a vedere a se stessa. Questo è riscontrabile in tutti gli esempi che abbiamo citato, siano essi realtà allucinatorie personali oppure mondi abitabili ed esperiti da più soggetti. Il ventaglio di implicazioni, filosofiche ed esistenziali quanto politiche, è ampio e varia di mondo in mondo.

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Ai protagonisti di The Truman Show Matrix viene data una possibilità che agli spettatori non è concessa: quella di scegliere di uscire dalla propria realtà.

3. Mondi incompossibili: «c’è mancato poco che non succedesse mai»9

Il titolo di questo paragrafo viene dal finale de La 25a Ora [25th Hour, Spike Lee, 2005], che consiste in una fuga dalla realtà verso un mondo possibile in cui il protagonista, anziché dirigersi verso il penitenziario dove dovrà trascorrere sette anni, riesce a scappare e a rifarsi una vita, rimediando ai propri errori e costruendosi un futuro migliore. Il titolo del film, come quello del romanzo di David Benioff (autore anche della sceneggiatura del succitato Stay), si riferisce proprio a questa fuga finale: l’evasione di Monty Brogan eccede dalle ventiquattro ore che lo separano dal carcere e che costituiscono il tempo del racconto, e diventa una ‘venticinquesima’ ora ideale in cui il sogno di una redenzione si spegne amaramente. Benché la voce narrante anticipi in qualche modo la delusione finale, le immagini danno adito al dubbio che quella realtà possibile sia attuale. Altrove questa possibilità viene negata con maggior chiarezza: si veda Himizu [id., Sion Sono, 2001], in cui il fantasticare dei protagonisti resta dialogato e non si trasforma in spazio visibile. In altri racconti, la incompossibilità di due scenari anche distinti non è invece supportata da alcuna voce fuoricampo, e il racconto sembra ‘riavvolgersi’ per poi proseguire in modo diverso e alternativo: si veda il Cosmos [id., 2015] di Andrzej Zulawski, il cui finale è doppio, e sdoppia le scelte dei protagonisti quanto la stessa realtà narrativa.

Scrive Nicolò Vigna a proposito di Cosmos che «è un film di sentieri che si biforcano»,10 un paradossale ‘caosmo’ (per rifarci a Deleuze seguendo la riflessione di Vigna) anti-leibniziano in cui «le biforcazioni, le divergenze, le incompossibilità, i disaccordi appartengono a uno stesso mondo variegato»,11 e che al tempo stesso «si pone come metariflessione strutturale [il cui oggetto di indagine sono] le possibilità della rappresentazione narratologica».12 Siamo tentati di interpretare in modo analogo ogni racconto distribuito su più realtà incompossibili: in questo senso Cosmos non è diverso da Destino cieco [Przypadek, Krzysztof Kieślowski, 1981], che si basa su tre possibili realtà, o da Lola corre [Lola rennt, Tom Tykwer, 1998], che ricomincia più volte e considera più universi analoghi ma divergenti. Similmente Sliding Doors [id., Peter Howitt, 1998] contempla due mondi paralleli, destinati però a confluire l’uno nell’altro.

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Cosmos. Collage del doppio finale del film originariamente pubblicato nell’articolo di Nicolò Vigna.

L’applicazione della teoria del caos al racconto lo sparpaglia tra più alternative: è il terreno che esplora anche, con risvolti autoriflessivi ancora più evidenti, il Mr. Nobody [id., 2009] di Jaco Van Dormael. Qui come nei precedenti tutto si gioca sulla possibilità che un medesimo evento abbia due esiti opposti: Nemo, da piccolo, può scegliere se rimanere col padre o partire con la madre a seguito del divorzio dei due. Alla fine del film si scopre che tutto ciò che si è visto, che si pensava un flashback del misterioso protagonista, altro non è stato che un’ipotesi: che anziché ripercorrere le tracce di due mondi già accaduti, cioè, il film stava ipotizzando cosa sarebbe potuto accadere. Si torna allora al fatidico momento della scelta di Nemo.

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‘Fino a che non scegli, tutto è possibile’ è una delle frasi chiave di Mr. Nobody.

L’epilogo di Mr. Nobody va ancora oltre: anziché scegliere uno dei due universi alternativi che si sono visti durante tutto il corso del film Nemo ne sceglie un terzo, del tutto imprevisto e sconosciuto. In questo caso più esplicitamente che nei precedenti, il cinema si auto-dichiara terreno di racconti possibili, o esistenti solo in potenza. Appena prima dei titoli di coda, alla morte del protagonista e alla fine della narrazione, il film si riavvolge e letteralmente torna al punto d’origine. Si chiude così la sua parabola autoriflessiva: lo spazio dell’immagine si configura come spazio del possibile, e il possibile è però paradossalmente già accaduto.

Il finale di Mr. Nobody evidenzia la contraddizione di due concetti di immagine e di temporalità: da una parte, l’universo caotico e imprevedibile che sovrappone realtà compossibili o incompossibili, le riscrive, le cancella, scava nuove traiettorie al posto di vecchie o al loro interno; dall’altra, l’inevitabile (pre-)determinatezza degli universi narrativi, che così come sono si destinano ad accadere e riaccadere all’infinito senza la possibilità di un cambiamento – ovvero senza la possibilità, appunto, di rifugiarsi in un’altra realtà o di crearne una nuova. Se a Nemo questa possibilità viene concessa, di certo non viene concessa al film nel suo complesso: questo perché se il racconto di Nemo è al presente, o meglio al futuro (e quindi tutto accade, può ancora accadere, e forse accadrà), il film stesso è al passato – è cioè già successo, banalmente: già stato girato, montato, confezionato, ed esiste per questo in un ciclo infinito.

Tutti mondi di per se stessi distribuiti su più realtà incompossibili sono intrinsecamente contraddittori, e al contempo autoriflessivi. Nel momento in cui considerano più eventualità, configurano la finzione come terreno di potenzialità infinite e non mutualmente esclusive: soltanto nella finzione un evento può avere al contempo più di un esito; e soltanto nella finzione uno stato delle cose può essere e non essere al contempo, esemplificando il paradosso del gatto di Schrödinger. Eppure, in quanto ‘artefatti’,13 questi mondi simulati non possono che essere limitati, dalla loro natura ontologica e in ultima istanza dalla loro materialità. Il cortocircuito narrativo e metanarrativo che si genera (racconto al presente o al futuro, sua mediazione al passato) in un certo senso suona come una dichiarazione di impotenza: come il sogno, il racconto-multiverso è un tentativo di percorrere una via che può esistere solo nella finzione, e che nel momento in cui esiste chiarisce il proprio status finzionale. Il riavvolgimento di Mr. Nobody, come il loop di montaggio che chiude Se mi lasci ti cancello [The Eternal Sunshine of the Spotless Mind, Michel Gondry, 2004], sovrascrivendo al racconto un artificio filmico esplicito ne denunciano l’artificialità, di conseguenza moltiplicandone le implicazioni (anche esistenziali) oltre i confini del testo. 

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Se mi lasci ti cancello.

4. Mondi virtuali: «finisce sempre così»14

Il titolo del paragrafo è una citazione di Nier: Automata [ニーア オートマタ, Platinum Games, 2017], un videogioco d’azione con 26 diversi finali. Molti di questi sono legati alla possibilità di un fallimento dell’utente: per esempio non riuscire a salvare uno dei protagonisti in un momento specifico non porterà ad un classico game over, piuttosto direttamente ai titoli di coda. Essendo il videogioco per sua stessa natura aperto alla possibilità di un rigetto del giocatore, che di continuo «lotta non solo per l’intuizione interpretativa, ma anche per il controllo della narrazione»,15 i suoi racconti non potranno che essere costellati di false partenze, riavvolgimenti e correzioni. Il game over in questo senso può essere visto come un artificio che cancella letteralmente dalla diegesi una realtà possibile, riportando il mondo di gioco al suo stato ‘preferenziale’. Nier: Automata e altri titoli più o meno autoriflessivi si appropriano di questa ‘cancellazione’: l’universo narrativo in cui il giocatore ha fallito, piuttosto che essere riassorbito in quello in cui il giocatore trova il modo giusto per proseguire, diventa quello effettivo che porta il racconto alla fine.

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Uno dei finali di Nier: Automata si ottiene qualora non si riesca a ripristinare il sistema operativo di uno dei protagonisti (un androide) in tempo. Il mondo di gioco asseconda il fallimento (o la scelta consapevole) dell’utente, il racconto si conclude e scorrono i titoli di coda: lo scenario è a tutti gli effetti una delle realtà possibili del gioco.

Anche i titoli che non diegetizzano le innumerevoli realtà possibili create dall’utente sono a ben vedere multiversi in cui gli utenti scrivono, riscrivono e abitano innumerevoli realtà diverse. Questo accade anche grazie alla discontinuità e sinteticità del tempo videoludico, che in ogni momento può essere riavvolto, azzerato o manipolato:16 salvare/caricare una partita, tornare indietro ed effettuare una scelta differente, mettere in pausa per cercare risposte da qualche community online per poi compiere azioni più oculate sono tutte pratiche abbastanza comuni dell’utente videoludico, che in questo modo crea e distrugge realtà possibili di continuo. Soprattutto accade perché nel videogioco spesso i racconti hanno più biforcazioni compossibili, come in Cosmos, e perché più in generale ogni partita individuale è, presa come sequenza di azioni dell’utente, una realtà a sé contraddistinta da propri tempi, azioni, scelte e interpretazioni – di fatto il giocatore crea una propria storia, e quindi una propria realtà.17

Mondi possibili - 18Detroit: Become Human [id., Quantic Dream, 2018] è un videogioco narrativo che si basa tutto sulle scelte dell’utente. Alla fine di ogni livello, si ha modo di consultare uno schema che indica le scelte effettuate, le loro conseguenze, e le possibilità che invece non sono diventate parte della partita. Questi diagrammi, a ben vedere, sono rappresentazioni di un multiverso di realtà che nel gioco coesistono.

Anche videogiochi con un comparto narrativo ‘su binari’ come Red Dead Redemption [id., Rockstar, 2010] o Red Dead Redemption II [id., Rockstar, 2019], scanditi da eventi principali su cui il giocatore non ha alcun potere decisionale, sono di per sé ‘macchine di moltiplicazione’ di realtà possibili: prima di procedere col racconto, il giocatore può scegliere per esempio di spendere ore e ore a caccia di selvaggina nella natura – ore che saranno parte della sua realtà di gioco e del suo racconto, entrambi inclusi nelle realtà possibili offerte dal mondo digitale. Su queste basi il videogioco viene talvolta definito una ‘singolarità’, ovvero il luogo di incontro di più realtà collassate su un unico scenario virtuale (Gaming Rhythms: Play and Counterplay from the Situated to the Global di Thomas Apperley, 2011, 133-134).

Questo non esclude del tutto la possibilità di una predeterminazione. Fatta eccezione per narrative del tutto emergenti, come possono essere delle gite in montagna per un gruppo di giocatori online in Minecraft [id., Mojang, 2009], videogiochi che raccontano delle storie si basano comunque su un numero variabile di momenti cardinali di cui l’utente è sempre e comunque in ogni realtà chiamato a fare esperienza. Sembra cioè che la natura semi-testuale del videogioco lo vincoli, malgrado la proliferazione di realtà non compossibili, a un’idea di predeterminazione. Ogni realtà incompossibile oscilla attorno a uno sviluppo previsto dagli sviluppatori. A differenza di quello filmico il racconto videoludico non è già accaduto; è però schiavo di un destino che, per quanto mutevole e biforcato, non può che variare attorno a tracciati già delineati. Se visto come un testo, il videogioco ha le caratteristiche dell’iperromanzo di Calvino: è spazio di infiniti universi contemporanei; il cui tempo è un eterno e assoluto presente; funziona come una macchina di moltiplicazione delle narrazioni possibili; e le sue realtà si generano e modulano attorno a un nucleo ed entro una cornice di delimitazione comuni.18 Non a caso un utente tipo, giocando più e più volte a uno stesso titolo, si ritrova dopo un numero variabile di partite a compiere le stesse azioni, automatizzando gesti e reazioni e ottimizzando le proprie routine ludiche come performance.  

Che siano autoriflessivi o meno i videogiochi sono ‘macchine di moltiplicazione’ di mondi possibili. Ciononostante, in quanto artefatti e racconti, sono anche in una certa dimensione determinati ‘a priori’, cioè a livello di codice, dai loro sviluppatori. Nessun John Marston possibile, in Red Dead Redemption, sopravvivrà all’agguato di Edgar Ross alla fattoria o riuscirà a consegnare alla giustizia Dutch van der Linde. Analogamente, nessun androide 2B in Nier: Automata avrà un destino diverso da quelli previsti dai vari finali di gioco, per quanto tutti i 2B possibili compiranno il loro destino in modi diversi. Questo ci rimanda all’apertura del nostro articolo, cioè al Devs di Alex Garland e al racconto mitologico.

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L’inevitabile fine a cui va incontro John Marston in Red Dead Redemption.

5. Mondi ulteriori: «ad infinitum, ad nauseam»

Ogni universo o multiverso preso in considerazione finora, dal più unilineare al più biforcato, è limitato dalla propria natura testuale: è già accaduto, quindi destinato ad accadere sempre uguale; oppure è destinato ad accadere seguendo più chine possibili, intersecando eventi ‘fatali’ prestabiliti. Torniamo allora al paradosso che tanto lucidamente Devs pone al centro del proprio racconto: tutte queste immagini, abitabili o immaginate, visualizzate o registrate, sono tali a un livello variabile di predeterminazione. I protagonisti di Devs, come tutti quelli che abbiamo citato, a prescindere dalle loro moltiplicazioni in più realtà incompossibili ritornano all’identico, continuamente, sia che il film inizi di nuovo o che il videogioco venga ricominciato, sia che si trovino vittime dello stesso destino o che cerchino disperatamente di sfuggirne. Si può ancora parlare di realtà possibili a proposito di immagini che, proprio perché immagini, esistono in un circuito eterno di ripetizione? Possono le immagini essere ancora terreno di mondi possibili, e non di mondi esausti, cioè già accaduti, determinati e attuati?

Possiamo dare due risposte a queste domande. Entrambe ruotano attorno all’ultimo tipo di mondi possibili, ovvero multiversi narrativi autoriflessivi, che vogliamo prendere in considerazione in questo articolo: ‘mondi ulteriori’. Da una parte, la prima risposta che vorremmo dare a “possono le immagini essere ancora terreno di mondi possibili?” viene dall’ambito degli studi sui media e dalle teorie dell’immagine, ed è: sì, poiché la determinazione non esclude la continua creazione di realtà possibili.

In una conferenza tenuta alla sesta Semaine internationale de vidéo a Saint-Gervas a Ginevra, nel 1995,19 Giorgio Agamben affianca l’idea di ripetizione e predeterminazione dell’immagine cinematografica alle dottrine filosofiche sull’eterno ritorno dell’uguale. Scrive Agamben, definendo la ripetizione come una delle condizioni ‘trascendentali’ del cinema, che

La ripetizione non è il ritorno dell’identico, lo stesso in quanto tale che ritorna. La forza e la grazia della ripetizione, la novità che essa arreca, è il ritorno in possibilità di ciò che è stato. La ripetizione restituisce la possibilità di ciò che è stato, lo rende nuovamente possibile. Ripetere una cosa è renderla di nuovo possibile […] Con il porre la ripetizione al centro della sua tecnica compositiva, [il cinema]20 rende nuovamente possibile ciò che ci mostra, o piuttosto apre una zona d’indecidibilità tra il reale e il possibile.21

Vicino al concetto di rimediazione di Bolter e Grusin,22 Agamben riafferma che l’immagine è terreno del possibile malgrado sia già accaduta, non solo: proprio in virtù del suo essere già accaduta, o del suo riferirsi a qualcosa di non più attuale. È quella ‘presentificazione dell’assente’ (per rifarci agli albori della riflessione sulle immagini)23 che, proprio perché tale, lo fa accadere di nuovo. Di qui l’idea che ogni immagine venga esperita come un evento24 sempre diverso a ogni occorrenza ulteriore. Da questo punto di vista, se letti come autoriflessioni questi multiversi schiavi malgrado tutto di un certo livello di predeterminazione si rilanciano oltre la stessa idea di destino ineluttabile che raccontano: ogni volta che accadono sono in grado di generare nuovi significati, nuove sensazioni, di acquisire nuove interpretazioni – di dare quindi vita a mondi possibili intrinsecamente diversi dai precedenti, inclusi ora in nuove traiettorie percettive e ora in nuove rimodulazioni sociali, esperienziali o di senso. Ogni immagine, riaccadendo nel presente, genera un ventaglio di mondi ulteriori a ogni sua nuova iterazione: è cioè di per se stessa un dispositivo di creazione e moltiplicazione di realtà possibili.

La seconda risposta che vorremmo dare a “possono le immagini essere ancora terreno di mondi possibili?” è: sì, perché l’ecosistema mediale contemporaneo25 fa propria, a livello diegetico, la possibilità del multiverso. Per quanto suoni altisonante, questa risposta ha un immediato campo di applicazione e analisi: il reboot. In quanto rimediazione e ri-presentificazione, il reboot è a tutti gli effetti un mondo possibile e parallelo a un mondo noto. I reboot nascono a partire da mondi già esistiti e rendendo queste iterazioni precedenti parte integrante del loro rapporto con nuovi e vecchi fruitori: vengono cioè caratterizzati anche (se non soprattutto) dal ‘gioco memoriale’26 in cui coinvolgono fan potenziali o già acquisiti. Nell’ecosistema mediale contemporaneo, attraversato da continue rivisitazioni del passato, proliferano allora universi che sono di per sé realtà possibili di altri. Ogni reboot è un mondo ulteriore, tanto più divisivo e oggetto di critiche quanto più si discosta dall’universo di partenza.

Prima di concludere vogliamo però prendere in considerazione due reboot particolarmente interessanti in quanto, sulla scia di altri casi citati durante l’articolo, sono esplicitamente autoriflessivi (e rendono quindi evidente ciò che in altri analoghi è implicito). Il primo è la tetralogia d’animazione Rebuild of Evangelion [Hideaki Anno, 2007-in corso]. A differenza della maggior parte degli altri reboot, quello di Evangelion mantiene la propria realtà ambigua per la maggior parte della durata. Fin dalle primissime inquadrature di Evangelion: 1.0 You Are (Not) Alone [ヱヴァンゲリヲン新劇場版:, Hideaki Anno, 2007] è infatti dubbio se si tratti di un remake, di una rivisitazione, oppure addirittura di un seguito diretto della serie animata. Gli eventi del primo film ripercorrono fedelmente quelli della prima parte della serie, ma alcune scene e inquadrature fanno pensare che si tratti di un loop in cui i protagonisti si sono ritrovati a posteriori del finale di Neon Genesis Evangelion: The End of Evangelion [新世紀エヴァンゲリオン劇場版 Air/まごころを、君に, Hideaki Anno, 1997]. Col secondo episodio della tetralogia Evangelion 2.0: You Can (Not) Advance [ヱヴァンゲリヲン新劇場版: , Hideaki Anno, 2009] le cose si complicano: se il primo seguiva la direzione della serie, adesso vengono introdotti nuovi personaggi, messi in ombra altri, e stravolti alcuni dei principali sviluppi della narrazione. Si è cioè passati dal remake al reboot vero e proprio, senza però che il sospetto che si tratti di un ‘universo figlio’ di quello visto durante la serie cada del tutto, tra indizi più o meno evidenti, personaggi che sembrano ricordarsi quanto successo nel mondo precedente e così via. Non solo l’universo del Rebuild è in quanto reboot un’estensione dell’originale,27 ma si pone in questo senso come ibrido, celando tra i noti intenti metariflessivi del franchise il suo reale rapporto con la serie animata o con gli altri film. Se in The End of Evangelion e negli ultimi due episodi della serie venivano prese in considerazione altre realtà possibili (tra cui quella degli spettatori), il reboot gioca esplicitamente con la possibilità di essere uno dei mondi possibili originariamente intravisti da Shinji verso l’epilogo. Qualcosa di speculare lo si trova nel finale di Dark Souls III [ダークソウル III, FromSoftware, 2016], in cui alla morte di un multiverso viene creata una realtà ulteriore, a garantire la possibilità di una continuazione del franchise. Anche in questo caso, retroattivamente quanto proattivamente, il mondo narrativo si riconosce ‘immagine’ (per tornare a Baudrillard) e in quanto tale in grado di costruire alternative possibili. Non solo: in entrambi questi casi, la prosecuzione o la conclusione del racconto possono essere generate solo da un nuovo mondo possibile: Shinji, protagonista di Neon Genesis Evangelion, può trovare la serenità soltanto nel mondo del reboot

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Mondi incompossibili: sopra, Shinji strangola Asuka nell’epilogo di The End of Evangelion; sotto, Asuka, Shinji e Rei dopo la catastrofe in Evangelion: 3.0 You Can (Not) Redo [ヱヴァンゲリヲン新劇場版:Q, Hideaki Anno, 2012].

Simile, ma ben più esplicito, il percorso seguito dall’attesissimo Final Fantasy VII Remake [ファイナルファンタジーセブンリメイク, Square Enix, 2020]. Già dal titolo il videogioco si pone come mondo ulteriore, in dialogo con qualcosa di già esistente e ben noto al pubblico di riferimento. Piuttosto che riproporre gli eventi dell’originale, però, Final Fantasy VII Remake integra fin da subito nuovi personaggi e nuove sotto-trame ad arricchire l’esperienza di gioco. Man mano che si va avanti il processo diventa sempre più ingombrante: fanno la loro comparsa i Numen (Whispers), entità assenti nell’originale e che hanno il compito di assicurarsi che gli eventi seguano una certa piega. Viene quindi introdotta nel racconto l’idea di predeterminazione: ciò che i Numen fanno, riportando in vita personaggi “il cui destino non era di morire” e occultando sistematicamente i ‘fuori-programma’ in cui il giocatore si inoltra durante l’esperienza, è evidentemente quello di far aderire la realtà del Remake a quella del gioco originale. Proprio alla fine, preludendo a un seguito, Final Fantasy VII Remake si discosta il più possibile dall’opera di partenza: i protagonisti scelgono di combattere contro il destino e contro i Numen, ribellandosi al loro dominio. Si moltiplicano interrogativi come «il nostro destino è sconfiggere il destino?»28 o frasi come «insieme possiamo liberarci del giogo del fato».29 Una conseguenza diegetica è la sconfitta di questi ‘guardiani del destino’; una conseguenza invece metalinguistica è l’evidente differenziarsi del racconto rispetto all’originale – Remake prende una china del tutto imprevista e si conclude, in attesa di un seguito, creando un mondo che potrà essere del tutto diverso da quello previsto inizialmente dagli utenti.

Mondi possibili - 22

«Cosa troveremo dall’altra parte?» – «Libertà. Illimitata, terrificante libertà. Come un grande cielo senza fine». Le parole e i timori di Aerith sembrano essere quelle degli sviluppatori, che attraverso il mondo di gioco si liberano della realtà prestabilita e ne generano una nuova, inedita.30

La ‘terrificante libertà’ che i protagonisti di Final Fantasy VII Remake si apprestano ad affrontare assieme all’utenza (già in viva protesta per la scelta degli sviluppatori di stravolgere il mondo originale) è evidentemente metariflessiva: il reboot di uno dei videogiochi più influenti e importanti della storia ha conquistato un proprio spazio di realtà possibile, ha scelto di interrompere il ciclo di ripetizioni infinite: è diventato cioè un mondo ulteriore a sé stante.

Conclusioni: contro il mito

Se ogni racconto è un ‘mito’,31 il reboot è la profanazione contemporanea del mito. Solo nel momento in cui viene interrotto, nel momento in cui cioè ci si ribella al suo eterno ritorno, il mito viene ri-mediato e può tornare ad attuarsi, oppure viene trasformato, profanato, e riscritto. In Devs, la scelta di Lily di non eseguire quanto previsto dal programma (e quanto dal programma riemesso in forma audiovisiva) è un chiaro rifiuto del principio della predeterminazione. In quanto immagine a sua volta, Lily si rifiuta di far parte di un racconto già accaduto, già visto – da lei quanto da noi spettatori a nostra volta – e sceglie di percorrere una nuova via. Genera così una nuova realtà possibile, prendendo momentaneamente il posto della macchina di creazione di mondi che è Devs nella finzione diegetica. La protagonista della miniserie non ci sembra in questo senso diversa dal Truman che esce dalla cupola in The Truman Show, oppure dal gruppo di protagonisti che lotta contro il destino in Final Fantasy VII Remake. Tutti i mondi di cui abbiamo parlato, considerando l’esistenza di realtà (in)compossibili, riflettono a livello metalinguistico sulla loro stessa possibilità di generare realtà: alternative, ulteriori, impossibili; l’una dentro l’altra, dopo l’altra, al di là dell’altra. In ultima istanza, nell’ecosistema mediale contemporaneo sembra che i racconti, come le realtà, siano in grado di eccedersi e rielaborarsi di continuo: ecco che se un mondo diventa ‘mito’, un mondo ulteriore in seguito può rivisitarlo, ampliarlo, stravolgerlo del tutto. Il rapporto che i mondi ulteriori stringono coi precedenti, dando forma a uno scenario che fa della reinterpretazione e dell’estensione dell’esistente un cardine fondante, apre ogni mito alla rielaborazione. Al contempo, schiudendo le realtà finzionali a infinite reiterazioni, di nuovo queste immagini parlano di sé: suggerendo che un rapporto dinamico e dialettico col passato è l’unico modo per renderlo di nuovo presente – per trasformare il mito e il racconto già accaduto, predeterminato, in un nuovo mondo possibile.

NOTE

1. Marchesoni, S. (2017). Walter Benjamin e l’interruzione del mito, in Carmagnola F.  Il mito profanato, Milano: Meltemi, 225.

2. Ivi, 230. Significativo a tal proposito che Lily interrompa la catena del destino rifiutando di vendicarsi: la ribellione è in questo caso una rinuncia alla violenza del racconto mitologico.

3. Vigna, N. (2019) Cinema e paradossi temporali. Alcune riflessioni.

4. McGowan, T. (2011) Out of Time: Desire in Atemporal Cinema, Minneapolis, MN: University of Minnesota Press; Buckland, W. (ed.) (2009) Puzzle Films: Complex Storytelling in Contemporary Cinema, Oxford: Blackwell.

5. Marocco, P. (2003) Vertigo. La donna che visse due volte, Genova: Le Mani Genova, 40, in Vigna, cit.

6. «If this is a dream, the whole world is inside it».

7. Tralasceremo in questo esempio e in quelli che seguiranno il fatto, implicito, che ogni opera di finzione sia di per sé ambientata in una realtà ‘altra’ dalla nostra, cioè in un mondo finzionale che segue in parte dinamiche proprie. Daremo cioè per scontato che la realtà finzionale dei racconti che prendono in considerazione altre realtà sia, di fatto, la nostra stessa realtà.

8. In fenomenologia, ‘mondo’ indica tendenzialmente un insieme di entità prese assieme alle proprie caratteristiche definenti e relazioni reciproche. In particolare, possiamo definire ‘mondo’ un sistema coerente, percepibile, persistente ed esperito da uno o più soggetti.

9. «This life came so close to never happening».

10. Vigna, N. (2019) Zulawski meets Gombrowicz: COSMO(S).

11. Deleuze, G. (1988) La piega. Leibniz e il barocco, Torino: Einaudi, 135.

12. Libera, A. (2019) Del multiverso. Appunti per un’introduzione a Cosmos.

13. Usiamo un termine generico per non limitare la nostra riflessione al racconto filmico, ma per includervi anche il panorama seriale, videoludico, o più generalmente narrativo.

14. «It always ends like this».

15. Aarseth, E. J. (1997) Cybertext: Perspectives on Ergodic Literature, Baltimore, UK: The Johns Hopkins University Press, 4.

16. Per una panoramica sul tema, cfr. per es. Mukherjee, S. (2011) Re-membering and Dismembering: Memory and the (Re)Creation of Identities in Videogames, in Proceedings of the Philosophy of Computer Games Conference 2011, Athens, Greece: April 2011; Alvarez Igarzábal, F. (2019) Time and Space in Video Games, Bielefeld: Transcript Verlag.

17. Per una panoramica sul tema, cfr. per es. Calleja, G. (2009) Experiential Narrative in Game Environments, in DiGRA ’09 – Proceedings of the 2009 DiGRA International Conference: Breaking New Ground: Innovation in Games, Play, Practice and Theory; Calleja, G. (2011) In-Game: From Immersion to Incorporation, Cambridge: MIT Press.

18. Cfr. Calvino, I. (1988) Lezioni americane – Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti: Milano. Come esempio ideale di un iperromanzo, vedi Il gioco del mondo (Rayuela) di Julio Cortázar, del 1963, i cui capitoli possono essere letti nell’ordine che più si preferisce.

19. In Ghezzi, E., Turigliatto, R. (a cura di) (2001) Guy Debord (contro) il cinema, Il Castoro: Milano, 103-107.

20. Agamben si riferisce qua specificamente al cinema di Guy Debord.

21. Una versione accessibile del testo tradotto è reperibile all’indirizzo http://www.scienzepostmoderne.org/DiversiAutori/Debord/CinemaDebord.html.

22. Bolter, J. D. and Grusin, R. (2000) Remediation. Understanding new media, Cambridge, MA: The MIT Press.

23. Cfr. Sinisgalli, R. (2006) Il Nuovo de Pictura di Leon Battista Alberti, Roma: Kappa edizioni.

24. Cfr. Shaviro, S. (1993) The Cinematic Body, Minneapolis: University of Minnesota Press.

25. Ci sembra giusto specificare che l’ecosistema mediale contemporaneo non introduce nulla di nuovo a mondi e racconti, pone piuttosto in evidenza qualcosa che era già presente negli scenari tradizionali.

26. Arnold-de Simine, S. (2019) Beyond Trauma? Memories of Joi/y and memory play in Blade Runner 2049, Memory Studies, 12(1), 61-73.

27. Commenta Mike Hale sul New York Times: «Se non conosci già la storia […] il film, che rimaneggia eventi narrati più o meno a metà della serie, non avrà senso. È pensato solo per i fan, che furiosamente soppeseranno i cambiamenti nel racconto (tra cui un nuovo pilota) e l’insensata mistura di simbolismo filosofico e religioso», vedi https://www.nytimes.com/2011/01/21/movies/21roundup-20_RVW.html.

28. «Is it our destiny to defy destiny? It’s an interesting question.»

29. «Together we can cast off the yoke of fate.»

30. «What will we find on the other side?» – «Freedom. Boundless, terrifying freedom. Like a great, never-ending sky.»

31. Usiamo qui la parola nell’accezione di Carmagnola F. (2007) Il mito profanato, Milano: Meltemi.