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Il film di Alex Garland, Men [id., 2022], ha due livelli di lettura principali. È da una parte un folk-horror che affronta la tematica del trauma e dall’altra una riflessione su sguardo, ruolo, e interpretazione della femminilità nel contemporaneo.
Questa seconda è una lettura di gran lunga più affascinante e stimolante della prima, e se vogliamo seguita una riflessione da sempre presente nel cinema di Garland. Qua abbiamo il folk-horror, in Ex Machina [id., Garland, 2014] avevamo la fantascienza e la fiaba, in Annientamento [Annihilation, Garland, 2018] l’orrore cosmico post-Lovecraftiano e la forma di vita aliena, in Devs [id., Garland, 2020] la fantascienza e la dottrina deterministica. In tutti i casi, a una rimodulazione di genere stilistica e narrativa si abbina un’interrogazione aperta sul femminino, sull’immagine della donna e sul suo ruolo nella società. In Men questo è evidente fin dal titolo ed emerge, inquadratura dopo inquadratura, a ogni svolta narrativa del film. Se nei precedenti la riflessione sulla femminilità seguiva sottotraccia il racconto, qua assume il centro della scena. È quindi quantomeno opportuno, per comprendere gli eventi a schermo, riflettere su questa lettura e sul modo in cui Garland nel film sceglie di mettere in scena rapporti di sguardo, genere, potere e prevaricazione.
Anzitutto, partiamo dagli eventi raccontati in Men. Harper esce da una relazione finita malissimo: prima di ottenere il divorzio, il marito l’ha picchiata e poi si è (apparentemente?) buttato dalla finestra. Sconvolta dal trauma, Harper decide di ritirarsi in una vacanza da sola in una casa in campagna vicino a un villaggio sperso nella campagna inglese, Coston. Qui cerca di lavorare, si tiene in contatto telefonico con un’amica e soprattutto cerca di fare qualche passeggiata e si prende un po’ di tempo per sé stessa, processo che fin da subito si svela più difficile del previsto. Già durante la sua prima passeggiata infatti ha un incontro sinistro con un uomo nudo, che poi torna a perseguitarla a casa e costringendola a chiamare la polizia. Altri individui incontrati durante la permanenza non sono da meno: il proprietario di casa è un personaggio alquanto bizzarro, un piccolo figuro che indossa una maschera la invita a giocare a nascondino e poi la offende quando lei rifiuta, un prete le dà la colpa per il suicidio del marito, un poliziotto prende bellamente sottogamba la faccenda dello stalker nudo che ha cercando di entrarle in casa e tanti sguardi sospetti al pub del paese.
Gli uomini del titolo condividono dei tratti somatici, delle fisicità, una prossemica e dei registri espressivi peculiari.
È chiarissimo dove si vada a parare: intorno ad Harper sono tutti uomini, tutti inquietanti, e tutti rimarcano in modo più o meno velato una visione del mondo e della donna ben chiara, e lo dimostrano reagendo a un caso di violenza domestica (in questo caso sia fisica che psicologica) tramite la colpevolizzazione sistematica della vittima. Sono poi anche degli uomini che non rispettano i suoi spazi privati, tanto abitativi quanto fisici e psicologici, che cercano di irromperle in casa e di assediarla senza un motivo preciso, e che in linea di massima si comportano in modo imprevedibile e aggressivo.
Il film si chiude con un letterale assedio alla casa di Harper. Nel farlo rinuncia apertamente a qualsiasi plausibilità narrativa e si trasforma in pura allucinazione, impedendo di distinguere tra realtà e incubo: non è chiaro quanto del finale accada realmente e quanto invece sia soltanto nella mente della protagonista. Tutti questi uomini, diventati una sola entità, cercano prima di entrarle in casa, poi di violentarla, infine di ucciderla. Si realizza, in conclusione, che quanto si è visto (e quanto Harper ha vissuto) altro non è stato che una rilettura in salsa horror di una complessa rielaborazione del trauma della perdita del marito.
A partire da queste coordinate narrative, per una riflessione sulla rappresentazione di maschile e femminile nel film è opportuno anzitutto ragionare sul trauma che origina il racconto (e la cui elaborazione in un certo senso lo chiude). Il modo stesso in cui Men mette in scena la morte del marito di Harper è del tutto significativo in questo senso.
Per analizzarlo scegliamo di rifarci a uno dei testi fondamentali dei film studies tutti, e volendo anche di buona parte di visual studies e gender studies contemporanei, riguarduante il rapporto tra soggetto, sguardo, immagine e maschile/femminile. Il saggio è “Visual Pleasure and Narrative Cinema” di Mulvey, del 1975.1 Al di là di alcune criticità teoriche che il testo ha evidenziato nel tempo, innegabile è che tutt’oggi resti un passaggio fondamentale per analizzare e capire come le traiettorie ‘fenomenologiche’ dell’immagine cinematografica (e non) siano spesso intrecciate con dinamiche di genere, che in particolare polarizzano maschile e femminile. Semplificando volgarmente, in un mondo costruito sulla (e dalla) mascolinità egemonica2 il rapporto tra soggetto e oggetto in senso fenomenico, e quindi tra soggetto guardante e oggetto guardato nel cinema, si definisce sui cardini di mascolinità (soggetto-spettatore) e femminilità (oggetto-guardato). Al cinema si tende ad assumere «un punto di vista standard che è sia maschile che eterosessuale»,3 che scinde tra maschile e femminile ponendo il primo in una posizione spettatoriale privilegiata, e il secondo in una di subordinazione e reificazione. Il concetto, che poi è stato rimodulato dalla teoria sullo sguardo maschile (male gaze), è uno dei più influenti per l’estetica e media studies femministi contemporanei.
Il riferimento a Mulvey in Men è quasi letterale: Garland fa ruotare la rappresentazione del trauma alla base del film proprio attorno a un raccordo sullo sguardo. Nel momento in cui il marito di Harper cade dal balcone per schiantarsi al suolo, lei lo vede cadere giù dall’appartamento: i due si guardano per un istante che Garland dilata con l’uso di un rallentatore – lo sguardo è dilatato fino a diventare surreale, tanto che in un secondo momento, parlandone con il prete di Coston, Harper si chiede se quello scambio di sguardi sia accaduto davvero.
La primissima scena del film già utilizza un raccordo sullo sguardo per rappresentare la morte del marito di Harper. Il corpo dell’uomo è messo a fuoco in una semisoggettiva della donna, cui segue un controcampo sullo sguardo di lei.
La scena è un riaggiornamento del discorso di Mulvey ai tempi del post-MeToo, e se vogliamo della crisi della mascolinità del contemporaneo, ammesso che tale crisi sia in corso. Se in Mulvey il soggetto è maschio, e guarda un oggetto-immagine passivo e femmina, in Garland il soggetto che racconta è femmina, e guarda un oggetto-immagine che, per giunta con faccia inebetita, cade giù dall’alto per schiantarsi a terra. L’uomo, a sua volta, guarda: ci sono se vogliamo due soggetti di sguardo – un’inquadratura, infatti, lo prende da vicino in primo piano, proprio mentre guarda lei. È significativo che la scena, come il film stesso, presenti lei come soggetto indiscusso dell’azione. È lei che guarda. E vede che sta venendo guardata, per un istante solo: l’ultimo.
I soggetti di sguardo si scambiano: dopo il primo flashback, il secondo mette lo spettatore nei panni del marito di Harper. Il primo piano sul suo sguardo è seguito da un’inquadratura soggettiva.
Il fatto che il marito stia precipitando è del tutto rilevante. Da una parte, che un ex-soggetto di sguardo stia guardando, ma per l’ultima volta e precipitando al suolo, e forse per errore (del resto non si sa se lui si sia buttato volontariamente o sia inciampato), è particolarmente significativo in un momento storico in cui il rapporto tra generi e di riflesso la mascolinità stessa come ‘fatto sociale’ sono fortemente messi in discussione. L’uomo guarda, come in Mulvey, ma il suo sguardo è ebete. E sta cadendo, o togliendosi la vita per dare un ultimo dispiacere a lei oppure per errore, che è forse anche peggio.
Al tempo stesso però, malgrado stia morendo, il marito crea nella donna un trauma che diventa poi il motore di tutto il resto del racconto. Pur nella rovina del suo sguardo e nel suo precipitare anche (e soprattutto) come soggetto di sguardo, l’uomo esercita comunque un potere, manifesto a posteriori, sulla visione. Riesce comunque a determinare la narrazione. Tutto il film, per quanto dalla prospettiva di Harper, racconta comunque di una donna cinta d’assedio da uomini, nella complessa fase di elaborazione del trauma del suicidio del marito. La donna è comunque anzitutto la vittima di un trauma, e preda di un mucchio di predatori. L’uomo, anche nel cadere e morire, e in quell’ultimo sguardo come soggetto lanciato da fuori dalla finestra, è comunque in una posizione di prevaricazione.
Men ruota tutto attorno a questo: l’uomo traumatizza, la donna cerca di elaborare il trauma. Anche per questo la scena del suicidio del marito è così efficace, perché compatta insieme la dimensione sociale e quella fenomenologica: è sia uno scambio di soggetti che un gesto disperato di un maschio che, non avendo più altri modi, prevarica (e guarda) un’ultima decisiva volta prima di morire. E però racconta tutt’altro che la scomparsa della mascolinità egemonica: Men, come anche ci dice il titolo, si concentra proprio sul lascito della mascolinità, nello specifico sulla psiche della protagonista. Che è sì libera e al di fuori di un rapporto tossico, ma al tempo stesso perseguitata da uomini e in ultima istanza dal suo stesso ex-marito. Men racconta di una mascolinità al crepuscolo, ma ancora minacciosa, o forse più minacciosa che mai, pur essendo precipitata al suolo.
Affascinante che, sia durante il trauma che a posteriori, la minacciosità di questa mascolinità sia per lo più immaginata. È in altre parole un horror che racconta del rapporto tra generi così come visto, interiorizzato e interpretato da uno dei due.
Alla luce di questo, la scena dei parti consecutivi finale diventa ancora più importante. Quando l’uomo nudo si trova faccia a faccia con Harper inizia a partorire. Nel farlo, diventa praticamente come l’altro bassorilievo presente nell’altare, che rappresentava una donna a gambe e vagina aperte. Il parto è deforme e mostruoso e dà vita a un altro dei maschi che hanno perseguitato la protagonista. Che poi a sua volta si gonfia, cade a terra e di nuovo partorisce un altro dei maschi visti durante il film, a sua volta grondante di sangue, che poi partorisce di nuovo. E così via. L’ultimo a essere partorito sarà proprio l’ex-marito di Harper. In questa scena corpi maschili deformi si appropriano di un processo comunemente associato alla femminilità, il parto. Una specie di messa in scena, certo pittoresca all’inverosimile, della cosiddetta egemonia della mascolinità: la prevaricazione di genere è rappresentata tramite appropriazione e generazione di un soggetto analogo al precedente. Con questi parti paradossali, Men racconta del rapporto tra egemonia e soggettivazione (in senso Foucaultiano).
Rapporto che, di nuovo, è anzitutto interiorizzato: non a caso non è chiaro se si tratti o meno di un’allucinazione. È però grazie a questa allucinazione che forse riesce a superare il senso di colpa. Tutti questi parti consecutivi segnano un doppio svelamento: da una parte, svelano che tutti gli uomini del villaggio altro non sono che proiezione del trauma della donna (il parto stesso indica questa proiezione: sono maschi, ma sono anche femmine). Dall’altra, svelano che l’ex marito altro non è che parte di un mondo di uomini contraddistinto dalle stesse interpretazioni del mondo, dagli stessi limiti e così via. È quindi diventare testimone di questo doppio movimento che chiarisce alla protagonista che cosa le è successo, dandole la forza di superare il trauma. Di fatto, il suicidio del marito è stato un abuso certo personale, legato alla situazione specifica, ma in seconda istanza anche di genere, contestualizzato in un preciso sistema valoriale e culturale. Ecco allora che tutti questi parti aiutano Garland a mostrare questa dimensione contestuale, e ad Harper a capire ed elaborare quanto accaduto.
In una delle allucinazioni finali di Harper, al marito si sostituisce l’altare pagano della chiesa di Coston. Come l’altare rappresenta maschile e femminile come due facce di una stessa medaglia, così l’assalto finale alla protagonista è dato da creature che sono sia maschi che femmine. In questa convergenza, si rende chiaro che l’assimilazione traumatica della morte del marito è al centro della narrazione del film – i maschi che attaccano Harper sono minacciosi e terrorizzanti in quanto proiezioni della psiche della donna.
Il superamento del trauma attraverso questa specifica esperienza spettatoriale (qua Garland insiste ancora di più su soggetto-spettatore e oggetto-immagine) getta luce retroattivamente su tutto il senso del film. La serie di parti è innocua. Gli uomini sembrano soffrire, non sono aggressivi. Sono come dei veri e propri bambini appena nati, appena prima che poi partoriscano di nuovo. Siamo allora alla sublimazione di tutto il film: la mascolinità tossica appartiene al passato e vive solo ri-immaginata da una mente traumatizzata. È talmente innocua, talmente indifesa, che nel momento in cui si manifesta cessa di essere una minaccia. L’ex marito dice che voleva solo essere amato e Harper lo guarda quasi scocciata, come fosse alle prese con un bambino. Ecco quel che resta della prevaricazione: il trauma lasciato da un uomo che si è ucciso. E l’allucinazione, per quanto terrificante, consente di comprenderne la natura e di andare oltre. Dal punto di vista fenomenologico e sociale, di nuovo, che tutto probabilmente sia accaduto nella mente di Harper e non altrove è determinante. Questi maschi, così inquietanti eppure così innocui, sono maschi immaginati. L’unico maschio vero del film si uccide prima del suo inizio.
Sembra che in definitiva Men non sia un semplice racconto della mascolinità tossica in salsa horror, come magari traspare dal titolo o dalla sinossi. È piuttosto un racconto della mascolinità a posteriori della stessa: a posteriori della ‘caduta’ (letterale) dello sguardo maschile, di una sua reinterpretazione, e di una maturata consapevolezza di un nuovo soggetto. Se il suicidio è il passaggio del testimone del soggetto che guarda, i parti e l’allucinazione conducono il nuovo soggetto all’emancipazione. Vedere l’egemonia maschile auto-partorirsi davanti ai suoi occhi fa superare il tutto ad Harper. La vediamo quasi sbuffare, come sdegnata anche degli effetti speciali in digitale che ha davanti. In tutto questo, il maschio continua a essere traumatizzante e la donna continua a essere vittima e traumatizzata. Questo paradigma Men ce lo dà per interiorizzato, ma non lo supera.
NOTE
1 L. Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, Screen, 16(3), 1975, pp. 6-18.
2 R. W. Connell, Masculinities, Berkeley: University of California Press, 2005, p. 77.
3 C. Korsmeyer, P. Brand Weiser, Feminist Aesthetics, The Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2021.