Gli eventi che a cavallo degli anni trenta portarono alla produzione di Marocco [Morocco, Josef von Sternberg, 1930] sono abbastanza noti a tutti gli appassionati di cinema americano. La scoperta della ventinovenne Marie Magdalene Dietrich; il successo di L’angelo azzurro [Der blaue Engel, Josef von Sternberg, 1930] e il conseguente trasferimento dell’attrice a Hollywood; il contratto con la Paramount Pictures, già a capo della distribuzione della versione inglese del film (che nel mercato americano sarà comunque successiva allo stesso Marocco). Meno nota è la leggenda secondo cui il romanzo di Benno Vigny Amy Jolly, die Frau aus Marrakesch, da cui è tratto il film, sarebbe stato nel cestino regalato dall’attrice a Sternberg per il viaggio dalla Germania agli Stati Uniti; sarebbero da attribuire a Marlene, dunque, i meriti di aver suggerito la lettura al regista. Meriti, anche qualora si trattasse di una storia vera1, non particolarmente rilevanti a ben guardare, se si considera la convenzionalità della trama, un triangolo amoroso che, se si esclude l’ambientazione esotica, è al quanto ordinario e totalmente organico a quella che era la produzione melodrammatica hollywoodiana del periodo. Riassumendo l’intreccio, Amy Jolly (Dietrich) è un’interprete di cabaret che giunge alla legione straniera del Marocco francese. Qui conosce e si innamora del legionario Tom Brown (Gary Cooper), dongiovanni che ha già una relazione con la moglie del capo guarnigione, Caesar. Quando l’uomo viene spedito per vendetta in missione, la lontananza e la corte che Amy subisce dal ricco monsieur La Bessiere (Adolphe Menjou), fanno da momentaneo ostacolo alla felicità della coppia, Celebre è difatti la sequenza finale in cui, in seguito al ritorno di Tom alla guarnigione, Amy sacrifica il suo matrimonio con La Bessiere per seguire l’amato tra le dune del deserto.
Titoli di testa.
Il cinema allo stato puro di Josef von Sternberg
A fronte di un soggetto così convenzionale, l’originalità di Marocco è dunque integralmente ascrivibile al genio sternberghiano, qui ancora misurato nel ricorso a quell’apparato scenico e visivo estremamente ricco e sontuoso che caratterizzerà le opere successive (in un crescendo che trova il suo apice ne L’imperatrice Caterina [The Scarlet Empress, 1934]), ma che già presenta quell’inconfondibile tocco per cui «abbiamo la certezza che tutto sia funzionale soltanto alle immagini»2. O meglio, che Sternberg appartenga a quella tradizione di autori di “puro cinema” (o cinema allo stato puro), formula particolarmente cara ad esempio ad Alfred Hitchcock3 che indica la vocazione a privilegiare ed esplorare le potenzialità degli strumenti specificatamente filmici (la composizione, i movimenti di macchina, il montaggio, la combinazione tra l’immagine e il sonoro, ecc.), piuttosto che affidarsi alla narrazione o al dialogo. È lui stesso a scrivere che il regista è «un uomo che scrive con la cinepresa»4, rievocando il concetto di caméra-stylo, la cinepresa-penna di Astruc. E non è un caso che, come è universalmente noto, Sternberg fosse solito occuparsi in maniera più o meno diretta di ogni aspetto del film, dall’illuminazione, al montaggio, alla scenografia e i costumi, andando vicino al raggiungimento dello statuto di autore totale. Statuto che presuppone però una libertà produttiva di cui, come è tristemente noto, Sternberg non godrà a lungo. Ma fintanto che il regista austrico ha potuto esercitare il controllo del suo lavoro, fin troppo meticoloso a detta dei collaboratori (tanto che anche la produzione di Marocco è caratterizzata da scontri e antipatie tra il regista, la troupe e il cast5), tutta la potenza seducente del suo cinema allo stato puro può essere riassunta in un principio, la supremazia della componente visiva su quella narrativa, dell’eccentricità barocca sull’invisibilità tipica del cinema classico hollywoodiano. Pur non dando mai l’impressione che la sua fosse un’operazione puramente formale, quanto piuttosto l’elaborata orchestrazione di un grande compositore.
La prima apparizione di Amy Jolly, nonché prima scena “americana” per Marlene.
Un film archetipico
Andrew Sarris autore di alcuni tra i testi più importanti dedicati al regista austriaco, ha definito Marocco lo «Sterneberg hollywoodiano per eccellenza»6; giudizio condivisibile se si pensa al film, e non solo per un mero fattore temporale, come all’archetipo di quelli che saranno i sei lavori americani girati in coppia con la Dietrich. D’altronde vi è già rintracciabile in nuce tutto il patrimonio di elementi tipicamente sternberghiani; la supremazia del visivo, la centralità della figura divistica ed eroticizzata della Dietrich, imperniata attorno al concetto di glamour, lo stile anti-illusionistico e il ricorso ad ambientazione esotiche ricostruite in set, la narrazione incentrata su un triangolo sentimentale in cui particolare interesse suscitano tuttavia le dinamiche interne (ad esempio nei rapporti di genere). Per scelta editoriale e ragioni di economia dello spazio a disposizione non entrerò approfonditamente nel merito dell’analisi di Marocco dal punto di vista dei gender studies, a proposito della quale si rimanda alla vastissima bibliografia dedicata (su tutto, l’autorevole scritto di Gaylyn Studlar sull’estetica masochista7). Vedremo ad ogni modo attraverso la scomposizione di alcune brevi sequenze che, in stile tipicamente sternberghiano, anche le dinamiche dei rapporti interni al triangolo sono rese tramite le scelte di messa in scena e di découpage ancor prima che attraverso i dialoghi. E ancor più importante, ricorrendo a delle soluzioni visive che verranno riproposte anche nei film successivi, creando una sorta di vocabolario filmico sternberghiano.
Il Marocco di Sternberg. A destra i caratteristici vicoli della città; a sinistra la villa di La Bessiere in stile tipicamente arabo.
O si pensi, ad esempio, alle scelte relative ai luoghi e all’apparato scenografico; il caso di Marocco è al quanto emblematico delle idee e del modus operandi di Sternberg. Per la sua legione nordafricana, completamente ricostruita tra gli studi e i deserti della California, il regista ha perseguito, come per la sua Cina, la sua Russia imperiale, la sua Spagna o la sua isola nel Pacifico, l’idea di un set volutamente artificiale ed astratto. Pur essendo, come detto in precedenza, ancora lontani dagli sfarzi di Shanghai Express [id., 1932] o di L’imperatrice Caterina, l’intento di Sternberg non è quello di replicare il Marocco, bensì di evocarne le atmosfere e lo spirito. In questo caso sono in particolare le scelte di illuminazione e un décor essenziale ma eloquente (le tradizionali case bianche in pietra, i viottoli carichi di mercanti e di merci, i tappeti, le persiane in legno) a creare il tipico e stereotipato milieu nordafricano. Lo stile tipicamente arabo della lussuosa villa di La Bessiere è invece un indizio dello sfarzo (qui appena accennato) nelle corde dell’autore. Al Pascià di Marrakech, convinto che il film fosse stato girato in loco, Sternberg rispose ironicamente che ogni possibile coincidenza con la realtà non era altro che «una somiglianza accidentale, un difetto dovuto alla mia mancanza di talento nell’evitare tali analogie»8. A sostegno di quella che è la principale prerogativa di Sternberg, «nemico di ogni ontologia del reale»9, secondo la calzante definizione di Marco Della Gassa. In tal senso, particolarmente riuscita in ottica sternberghiana risulta essere la scena finale del film, il momento in cui Amy Jolly segue il legionario Tom nel deserto (californiano) indossando inizialmente i tacchi a spillo e poi successivamente a piedi nudi; come anche fin troppo malignamente sottolineano in tanti, l’anti-illusionismo trascende qui nell’inverosimile, benché a chi scrive sembri invece un passaggio particolarmente paradigmatico di un’idea di cinema per cui la composizione dell’immagine e la ricerca dell’intensità emotiva sono più importanti anche della credibilità degli eventi narrati.
Questione di sguardi
Entrando più nel dettaglio dell’analisi di Marocco, il primo dato di particolare interesse è che l’intera storia del film può essere riassunta in una serie di sguardi. Sguardi scambiati, sguardi a senso unico, sguardi a distanza, sguardi fugaci; il volto, ripreso spesso in intensi primi piani, è l’indiscutibile protagonista del film. La centralità dell’immagine nel cinema di Sternberg non è dunque da ascrivere soltanto all’originalità della sua composizione, al gusto barocco tipico del regista austrico, quanto anche a un più globale discorso di messa in scena, di montaggio e soprattutto di elaborazione di una storia attraverso tali strumenti. Compimento dell’idea di puro cinema è d’altronde l’idea secondo cui il valore di un film si giudicherebbe dalla possibilità di poterne fruire anche senza l’ausilio del sonoro (s’intende in relazione a pellicole non girate come mute). E il film di Sternberg, con i suoi incroci di sguardi, i primi piani, i dettagli, risponde pienamente a questo requisito, lavorando spesso attraverso la riduzione di un’idea in immagine.
Prendiamo ad esempio le sequenze iniziali del film, circa sei minuti (titoli di testa inclusi) in cui, pur essendoci dei brevi dialoghi, la presentazione della storia e del protagonista maschile è esclusivamente a carico dell’immagine. Le prime scene sono emblematiche del modo di concepire ed elaborare le ambientazioni di Sternberg: la definizione geografica attraverso un espediente abbastanza classico quale la mappa, dunque un paesaggio stereotipato del Marocco francese, le palme, le strade affollate di mercanti nel tipico abbigliamento nordafricano, l’arrivo dei legionari. Ma è quando l’aiutante Caesar parla ai suoi uomini che sopraggiunge il momento più interessante; la macchina da presa, infatti, stacca dal capo guarnigione e un primo piano ci presenta il personaggio interpretato da Gary Cooper che diventa così il centro dell’attenzione dello spettatore a discapito dello stesso Caesar. Tom Brown, disinteressato alle sue parole (come a questo punto lo stesso spettatore) inizia infatti a guardarsi intorno e il suo sguardo si incrocia prima con due donne, che ne ricambiano immediatamente il sorriso, quindi con un’altra ragazza, con cui a gesti si danno un appuntamento per la sera. Il debole di Brown per le donne, che lo spettatore scoprirà essere un elemento centrale nell’evoluzione della storia, è dunque condensato e comunicatogli in sole quattro inquadrature, due semplici campo-controcampo privi di dialoghi superflui o espedienti di derivazione letteraria; cinema puro.
O ancora, un incrocio di sguardi particolarmente emblematico delle dinamiche interne al triangolo sentimentale in corso è quello che avviene nella lunga sequenza ambientata nel locale notturno. La scena è ricordata soprattutto per gli abiti maschili indossati da Marlene e per il bacio sulle labbra dato a un’altra donna durante l’esibizione, particolarmente audace per i tempi; ma contiene anche una serie di primi piani che delineano già quali siano i rapporti tra i tre personaggi coinvolti, cioè la stessa Amy Jolly, Tom Brown e La Bessiere, tutti e tre presenti contemporaneamente in sala.
Il famigerato bacio lesbo.
Mentre Amy è sul palco, la donna è soprattutto oggetto dello sguardo dei due, come evidenziato da alcuni primi piani degli uomini, evidentemente colpiti dal suo fascino. L’atteggiamento, il look e l’algido rigore di Marlene introducono però il personaggio come un oggetto distante e impossibile; nei rapporti di forza la donna ha una posizione egemone. Tutta la prima parte della sequenza, d’altronde, si svolge in una logica di incroci possibili e di sguardi mancati. Se sappiamo per certo cosa stiano guardando i due uomini, a un campo di Amy non segue mai un controcampo, non sappiamo dove sia rivolto il suo sguardo.
Ancor prima del bacio, l’ambiguità sessuale di Marlene è sublimata dal suo indossare degli abiti maschili.
La situazione si ribaltata invece al termine dell’esibizione, quando tramite un preciso uso del campo-controcampo assistiamo al primo accertato scambio di sguardi tra Amy e Tom, a cui segue il lancio del fiore. Da quel momento, al suo rientro sul palco, abbiamo la sensazione, conoscendo la posizione di Tom e seguendo la direzione dello sguardo di Amy, che tra i due inizi uno scambio pressoché costante di sguardi, prima a distanza poi ravvicinati. Questi non sono che il preludio alla conclusione della sequenza stessa, cioè la vendita della mela e il passaggio sottobanco delle chiavi dalla ballerina al legionario, che prefigura l’inizio della relazione clandestina.
Fra i due amanti si interpone la figura di La Bessiere, già incontratosi con Amy al molo in una precedente scena, e presentato sin da subito come un uomo facoltoso (compra la mela con una banconota di taglio maggiore senza pretendere il resto). Se durante il loro secondo incontro gli sguardi tra i due sono molto continui e intensi, benché si intuisca che l’interesse della donna sia rivolto più verso le sue ricchezze, il primo piano di La Bessiere più significativo è tuttavia quello successivo, che fa da inserto alla scena del dialogo tra Amy e Tom. La posizione subalterna di colui che guarda da lontano, o addirittura spia, evoca un tema come detto fondamentale nella filmografia di Sternberg, cioè quello del masochismo e del ribaltamento dei ruoli di dominio nei rapporti di genere. Nonché, nel caso di Marocco, è un’anticipazione di quello che sarà il destino di La Bessiere al termine del film, cioè la “sconfitta” sugellata da due scene madre, il discorso di rassegnazione che segue la fuga di Amy dalla cena di fidanzamento e un altro sguardo, questa volta ripreso in piano americano, quello dell’uomo che vede (ancora una volta a distanza) Amy allontanarsi per seguire Tom nel deserto.
Le due inquadrature che delineano l’umiliazione di La Bessiere.
Dietro una porta chiusa
Emblema dell’alternanza delle posizioni d’egemonia nei rapporti tra i personaggi è un’immagine che troviamo non solo in Marocco, ma che ricorre anche nei film successivi, a sostegno della natura archetipica del film del 1930. È quella che ritrae uno dei personaggi intento a spiare, da dietro una porta o un muro, un incontro tra due o più persone, quasi sempre componenti del triangolo. In Marocco appare per la prima volta nella lunga sequenza notturna e in particolare in occasione del secondo incontro tra Amy e Tom, negli stretti viottoli della legione. Ritrae Caesar impegnato a osservare da lontano i movimenti notturni tra Tom, Amy e la moglie, conducendo alla scoperta da parte dell’uomo della liaison clandestina tra il legionario e le due donne.
Lo stesso tipo di inquadratura, ma con un ribaltamento nei rapporti di potere, ritorna per due volte nei minuti successivi. In questa occasione a spiare Amy e La Bessiere è prima Lo Tinto, il proprietario del nightclub; poi è la volta di Tom che, dopo il momentaneo arresto, assiste di nascosto alla proposta di matrimonio di La Bessiere a Amy, anche in questo caso anticipando l’evoluzione degli eventi. E terminando così il circolo di uomini (La Bessiere, Caesar, egli stesso) che a turno si ritrovano a occupare una posizione di subalternità rispetto alla donna amata (e nel corso del film a sacrificarsi per essa), suggerendo ancora una volta una maggior complessità nei rapporti di genere rispetto a quella che, ad esempio, era l’iniziale ipotesi di Laura Mulvey10, che considerava la figura di Marlene nel cinema di Sternberg come incarnazione della donna intesa esclusivamente come oggetto dello sguardo voyeuristico maschile.Proprio quest’ultima immagine è inoltre replicata fin nei dettagli (modello della porta incluso) in uno dei film successivi di Sternberg, Shanghai Express. Le dinamiche interne alla narrazione sono in tal caso differenti, cosicché a spiare sono a turno (e a vicenda) i due protagonisti dell’intreccio sentimentale del film, Shanghai Lily e “Doc” Harvey.
Le due inquadrature gemelle in Marocco e Shanghai Express.
Il sonoro
Abbiamo visto come il sapiente utilizzo della messa in scena e del montaggio permettano ad alcune sequenze di funzionare anche in un’ottica di cinema puro, cioè in grado di raccontare una storia anche senza l’utilizzo della parola (verbale o scritta). Ma Marocco non è naturalmente un film muto, viceversa Sternberg ricorre altrettanto accortamente alle possibilità offerte dal sonoro, che culminano in una delle ultime, ma più importanti, sequenze del film, quella della cena di fidanzamento nella villa di La Bessiere.Innanzitutto, il film è caratterizzato complessivamente da alcune particolarità che riguardano il sonoro, su tutte l’assenza di musica extradiegetica a fare da contrappunto o da accompagnamento alle scene; elemento che pone dunque particolare enfasi sui dialoghi. Anche questi ultimi, in seconda battuta, presentano un ritmo piuttosto flemmatico e cadenzato, anche a causa (pare) delle difficoltà della Dietrich con l’inglese. Sternberg sfrutta tutto ciò per confezionare quella che è probabilmente la scena più importante del film, nonché una lezione sull’uso del sonoro nel cinema. Durante la cena organizzata per annunciare il fidanzamento ufficiale tra Amy e La Bessiere, infatti, sentiamo in lontananza il rumore dei tamburi che presagiscono il ritorno delle truppe alla guarnigione. Il suono delle trombe, in principio molto lieve, cresce col passare dei secondi e con esso il turbamento di Amy, sempre più evidente. Nel momento in cui la donna si alza di colpo per andare incontro a Tom, il silenzio più totale è ormai sceso nella sala; nonostante sia questa la scena climatica del film, come detto non v’è musica d’accompagnamento. Quando, nell’atto di allontanarsi dalla sedia per fuggire, la collana di Amy rimane impigliata nella punta dello schienale causandone la rottura, dunque, il suono delle perle che si infrangono sul pavimento è accentuato dal silenzio di fondo.
In assenza di un accompagnamento musicale, dunque, Sternberg usa i suoni diegetici come mezzo per amplificare la drammaticità della scena. E questa insolita combinazione tra la potenza evocativa e simboleggiante dell’immagine e il ricorso a una traccia sonora che, viceversa, enfatizza il parlato e il rumore di fondo, è in conclusione la più significativa qualità tecnica del film. Nonché la sintesi della capacità di Sternberg di padroneggiare, in particolare nei film del ciclo Dietrich-Paramount, gli strumenti del cinema muto e di quello sonoro, mantenendosi sempre coerente alla logica di un cinema allo stato puro.
NOTE
1. Difficile individuare una fonte primaria che ne certifichi l’autenticità, benché la storia sia riportata, con sottili differenze, in numerosi libri dedicati ai personaggi in questione.
2. Roberto Campari, Il discorso amoroso. Melodramma e commedia nella Hollywood degli anni d’oro, Roma, Bulzoni Editore, 2010, p. 25.
3. A tal riguardo si segnala il breve documentario Pure Cinema: Through the Eyes of Hitchcock, a cura di Gary Leva.
4. Josef von Sternberg, Fun in a Chinese Laundry, Londra, Secker & Warburg, 1965, p. 25.
5. Un resoconto degli scontri tra Sternberg, Gary Cooper e Marlene lo si trova in John Baxter, von Sternberg, University Press of Kentucky, 2010, pp. 128-129.
6. Andrew Sarris; Josef von Sternberg, Morocco and Shanghai Express: Two Films, New York, Simon and Schuster, 1973, p. 5.
7. Gaylyn Studlar, In the Realm of Pleasure: Von Sternberg, Dietrich, and the Masochistic Aesthetic, University of Illinois Press, 1988.
8. Herman G. Weinberg, Josef von Sternberg. A Critical Study, New York, E. P. Button & Co., Inc., 1967, p. 58.
9. Marco Della Gassa, Orient (To) Express. Film di viaggio, etno-grafie, teoria d’autore, Milano, Mimesis, 2016, p. 156.
10. Laura Mulvey, “Visual Pleasure and Narrative Cinema”, «Screen», vol. 16, n. 3, 1975. Tr. it. in Cinema e piacere visivo, a cura di Veronica Pravadelli, Roma, Bulzoni Editore, 2013.