Richard Brooks raccontava che fu Karl Freund a dargli «la prima lezione su come si dirige un film», poco prima della sua promozione dal ruolo di semplice sceneggiatore a quello, più prestigioso, di regista-sceneggiatore. Sul set di L’isola di corallo [Key Largo, John Huston, 1948], Freund consegnò a Brooks alcune pellicole girate da lui stesso durante gli anni ’20. Brooks tornò a casa e le studiò con attenzione: si trattava di film pornografici, ma di notevole qualità. Il giorno dopo, Freund spiegò ad un ammirato ma ancora confuso Brooks qual era la lezione numero uno sul cinema che avrebbe dovuto trarre da queste pellicole: «Arriva al punto, cazzo.» «E devo dire», ricordava Brooks,
molte volte mi sono chiesto, “Che cosa faccio adesso?” Be’, basta arrivare al punto. Questa è stata la prima cosa che ho imparato ed è così che ho cominciato a fare il regista.1
Questo insolito aneddoto di un apprendistato breve ma folgorante fornisce lo spunto per chiarire due cose sul cinema di Brooks, una che riguarda il contenuto e l’altra la forma. In cosa consiste infatti questo «arrivare al punto»? I film di Brooks, sebbene non possano in alcun modo definirsi pornografici a differenza dei filmati mostratigli da Freund, presentano però effettivamente un’attenzione per lo scandaloso e persino per l’osceno. Brooks cerca di dare rappresentazione a ciò che non ce l’ha, di mostrare ciò che Hollywood preferirebbe omettere o ignorare, di sfidare i tabù: da Il seme della violenza [Blackboard Jungle, 1955], suo primo successo, nel quale affrontava con decisione i temi della delinquenza giovanile e dell’odio razziale (con un nero arrogante tra i protagonisti e una colonna sonora rock n’ roll a fare da cornice), a A sangue freddo [In Cold Blood, 1967], dove, in un gelido bianco e nero, due giovani sbandati ammazzano una felice famiglia americana in un momento sconvolgente di buia follia (e il film si chiude con l’inquietante immagine del corpo di uno dei due penzolante dalla forca). Tra gli altri film diretti da Brooks che possono dirsi, in varie misure, «scandalosi», vi è l’eccezionale Il figlio di Giuda [Elmer Gantry, 1960], su un predicatore ubriacone e lascivo interpretato sardonicamente da Burt Lancaster, o il disomogeneo In cerca di Mr. Goodbar [Looking for Mr. Goodbar, 1977], confusa indagine psico-sociologica sulla vita sessuale di una donna moderna con finale sconcertante. E vale la pena ricordare anche l’acclamato Odio implacabile [Crossfire, Edward Dmytryk, 1947], tratto da un suo soggetto, sullo spinoso tema dell’antisemitismo (ma nel romanzo originale di Brooks si aggiungeva anche il tema, all’epoca ancora più tabù, dell’omofobia). Brooks, insomma, non è mai stato uno a cui piacesse girare intorno alle questioni, non ha mai avuto paura di «arrivare al punto», o, per dirla con le parole di Louis B. Mayer, di «mettere le sue dita sporche sul muro»2. Questa attenzione per temi sociali importanti e talvolta anche particolarmente scottanti e indigesti è però spesso parsa sospetta, e più volte si è voluto vedere in Brooks un regista un po’ troppo furbo, eccessivamente retorico, didascalico, persino verboso (e d’altronde l’epigrafe sulla sua tomba recita: «Prima arriva la parola…»). Eppure, quando, in Il figlio di Giuda, Burt Lancaster bacia per la prima volta Jean Simmons, con il commento musicale che impazzisce, e la giacca che copre le spalle di lei cade per terra e lei ci appare per un istante (a noi che la vediamo fino alle spalle scoperte) improvvisamente nuda nel suo imbarazzo, si è di fronte ad un trucco forse tutt’altro che spontaneo (e, anzi, lo si può dire, effettivamente retorico e magari persino didascalico), ma nondimeno in grado di produrre un effetto immediato, istintivo, di grande efficacia, e soltanto con la forza delle immagini e della musica. Allora, ecco che «arrivare al punto» assume un altro significato, non si riferisce cioè soltanto alla scelta scomoda e talvolta provocatoria del soggetto da filmare, ma anche alla capacità di dargli una forma che sia la più schietta possibile e che riesca a tradurre su un piano puramente emozionale ciò che si presenta il più delle volte come una pedante preoccupazione di carattere intellettuale. Questa dialettica tra la riflessione e l’istinto, l’intelletto e le emozioni, la parola e l’immagine, il contenuto e la forma è fondamentale se si vuole comprendere il cinema di Brooks. Ogni discussione sulla retorica dei suoi film va fatta a partire da ciò, dalla consapevolezza di questa tensione.
La scena del bacio tra Burt Lancaster e Jean Simmons in Il figlio di Giuda
Si può poi, volendo, discutere dell’ingenuità dei freudismi in un film come A sangue freddo, o dell’interpretazione un po’ semplicistica delle dinamiche coloniali in Qualcosa che vale [Something of Value, 1957], trovare il moralismo di questi film enfatico e fin troppo facilone; ma ciò significherebbe fermarsi al livello del contenuto, limitarsi a considerare solo un aspetto di queste opere, che rivelano la loro vera forza altrove. Per esempio, nella strabiliante sequenza dell’assassinio in A sangue freddo, dove da un iniziale naturalismo si passa all’improvviso ad una dimensione mentale di luci ed ombre, in un montaggio che riunisce rapidamente pochi gesti e rumori, incredibilmente espressivi in quanto isolati nella loro concretezza. O, ancora, nella sequenza, per molti versi simile, della razzia alla fattoria dei McKenzie in Qualcosa che vale, in cui una tempesta assordante di rumori ci trasporta bruscamente nell’ordine di una violenza senza punto di ritorno, dove le parole diventano inudibili e si è ad un tratto lontani anche dal silenzio innocente dell’infanzia con cui la sequenza comincia (i due bambini bianchi che dormono sotto lo sguardo di Sidney Poitier). Brooks, dunque, è sì un regista retorico ma non tanto nel senso di quella retorica un po’ pretenziosa, di tipo letterario, talvolta denunciata dai suoi detrattori, di cui si può trovare comunque traccia in alcune delle sue sceneggiature e dei suoi dialoghi/monologhi, a metà tra un moralismo un po’ isterico e un idealismo naif, quanto nel senso di una retorica che si sviluppa al contrario a livello visivo e sonoro al fine di suscitare nel pubblico un coinvolgimento emotivo, grazie al quale comunicare efficacemente temi e soggetti.
Inquadrature tratte dalla sequenza dell’assassinio in A sangue freddo.
Inquadrature tratte dalla sequenza della razzia in Qualcosa che vale.
Questa precedenza dell’immagine sulla parola, e dunque dell’emozione sull’intelletto, veniva riconosciuta dallo stesso Brooks, che in un’intervista dichiarava:
I film sono qualcosa di diverso dalla parola scritta. Quando leggi qualcosa o vai a teatro e il dialogo arriva dal proscenio, devi comprendere quelle parole. Lo puoi fare rapidamente mentre leggi o ascolti, ma si tratta di una reazione intellettuale. Ora, se tutte le parole sono messe insieme e strutturate correttamente, la tua seconda reazione potrebbe essere di tipo emozionale – o dovrebbe esserlo. Ma il cinema, come la musica – hanno davvero molto in comune –, è praticamente l’opposto. La prima reazione, qui, è di tipo emozionale.3
In Brooks tutto ciò che è intellettuale deve passare dall’emozione e, a sua volta, tutto ciò che è concreto deve avere il rigore di un teorema: in ciò consiste la sua retorica e il suo didatticismo. Certo, in una filmografia come quella di Brooks, che ha il difetto dell’incostanza, è possibile imbattersi in film in cui si fatica a comprenderne la statura autoriale. Karamazov [The Brothers Karamazov, 1958], per esempio, piatto adattamento del capolavoro di Dostoevskij, fallisce nel compito, obiettivamente enorme, di tradurre visivamente la profondità di pensiero del romanzo originale, proponendo tutt’al più una storia appena avvincente di intrighi famigliari sullo sfondo di scenografie esotiche. Il figlio di Giuda, però, regge perfettamente il paragone col romanzo originale di Sinclair Lewis (autore senza dubbio più vicino alla sensibilità di Brooks, per vigore espressivo e spirito critico), aggiungendovi nuove sfumature attraverso i legami che va stabilendo visivamente tra i personaggi e i temi del film, mentre A sangue freddo, partendo da una prospettiva diversa rispetto al libro di Capote, riesce a dar vita ad un linguaggio efficacissimo nel comunicare le tensioni alla base della storia. Ma è nel sottovalutato L’ultima caccia [The Last Hunt, 1956] che possiamo trovare uno degli esempi migliori di ciò che si è finora discusso.
L’ultima caccia, tratto da un romanzo di Milton Lott, è un film singolare, che ricorda a tratti la rozzezza dei western di Hart e Ince, pur presentandosi come un grande spettacolo MGM in Cinemascope ed Eastman Color. Ambientato durante gli ultimi anni della caccia ai bisonti, il film denuncia l’assassinio sconsiderato di milioni di questi animali perpetrato dall’uomo bianco, col solo scopo di guadagnare dei soldi dalle loro pelli, decimando in questo modo l’unica possibilità di sopravvivenza dei nativi americani. Immagini di veri bisonti colpiti a morte ricorrono con frequenza nel film: queste furono filmate da Brooks in South Dakota, dove una volta all’anno venivano ammazzati una cinquantina di bisonti sterili4. Per Brooks queste immagini, che mettevano lo spettatore di fronte alla violenza della caccia e alla realtà tragica del brutale assassinio dei bisonti di cui il popolo americano era responsabile, furono tra le principali cause dell’insuccesso del film:
L’intenzione era di rendere il pubblico talmente schifato da dire: ‘È un crimine’. Ma il pubblico fu talmente schifato che non andò a vedere il film.5
La storia, come capita spesso nei film di Brooks, ruota intorno ad un conflitto, nello specifico quello tra i due protagonisti, Sandy McKenzie (Stewart Granger) e Charlie Gilson (Robert Taylor), che si incontrano all’inizio del film e decidono di mettersi in coppia per dare la caccia ai bisonti. Sandy, cresciuto dagli indiani, ammazza i bisonti per necessità, pur soffrendone; Charlie invece prova piacere nell’uccidere, e non trova differenze tra l’ammazzare un bisonte o un indiano. Entrambi hanno fatto la guerra, ma Sandy ne ha ricavato soltanto disgusto, mentre Charlie vi ha imparato che uccidere è una parte naturale della vita. Questa differenza tra i due personaggi viene esplicitata visivamente in una dissolvenza incrociata tra i due mentre sono appostati per sparare ai bisonti: Sandy è titubante e preferisce temporeggiare, mentre Charlie scarica le sue munizioni con entusiasmo. Entrambi condividono la stessa posizione all’interno dell’inquadratura, ma il loro atteggiamento è radicalmente diverso; entrambi condividono lo stesso controcampo (i bisonti), ma reagiscono ad esso in maniera diversa. Di fronte alle immagini dei brutali ammazzamenti di bisonti, solo Sandy è in grado di provare dell’empatia per queste bestie, di riconoscersi in esse (nella medesima sequenza non riesce a trattenere le lacrime mentre le uccide).
Transizione tra Sandy e Charlie in L’ultima caccia
Il rapporto tra i due si complica dal momento in cui si aggiunge al loro viaggio una ragazza Sioux (Debra Paget), insieme al bambino di cui si prende cura. La dinamica che si viene a creare tra questi tre personaggi ricorda un film precedente di Brooks, Femmina contesa [Take the High Ground!, 1953]. Anche lì l’amicizia tra i due protagonisti (Richard Widmark e Karl Malden nei panni di due sergenti istruttori dell’esercito statunitense) entra in crisi quando una donna (la bella Elaine Stewart) attira le attenzioni di entrambi. Ma se alla fine di quel film è il personaggio femminile a farsi da parte e a permettere una riappacificazione tra i due amici, in L’ultima caccia la situazione è più complicata. In una scena emblematica del film, Sandy, camminando vicino alla riva di un fiume, vede il bambino dell’indiana, che prende in braccio, e, più distante, la ragazza farsi il bagno nel fiume (semplice raccordo di sguardo; breve inquadratura da lontano di lei nuda ma coperta da un albero; tema romantico in sottofondo) e si volta pudicamente dall’altra parte. Vediamo allora Charlie a cavallo che da una rialzatura guarda la stessa scena (altro raccordo di sguardo ma l’inquadratura di lei che si riveste è più ravvicinata, leggermente rialzata e accompagnata da un tema minaccioso, quello di Charlie, che suggerisce qualcosa di sinistro). Lei si volta e guarda qualcosa fuori dall’inquadratura. L’oggetto del suo sguardo, come ci rivela l’inquadratura successiva, è Sandy (e la musica, infatti, torna subito al tema romantico), che le volge ancora le spalle e che lei raggiunge sorridendo, sempre sotto lo sguardo geloso di Charlie. Ancora una volta, come con i bisonti, Sandy e Charlie condividono lo stesso oggetto del loro sguardo. Ciò che cambia è che, a differenza di un bisonte puntato dal mirino di un fucile, il personaggio della Paget è in grado di ricambiare questo sguardo (non è stato forse questo ad impedire a Charlie di ammazzarla?) e, quel che è più importante, di esprimere, attraverso il suo sguardo, il proprio desiderio, che ovviamente preferisce andare nella direzione di colui che la vede come un essere umano piuttosto che di colui che la vede come una preda.
Scena da L’ultima caccia
Questo intrigo di sguardi, successivamente ripreso, anche fino al disorientamento, non rappresenta solo la traduzione visiva di una necessità narrativa, ma anche l’espressione di una morale. Charlie, ossessionato da quello sguardo rivolto a Sandy ma mai a lui, non riesce a darsi pace, scivola lentamente nella paranoia. Tratta gli indiani come se fossero animali, ma poi si stupisce che la «sua» indiana quando è con lui non mostri sentimenti, che si comporti «come un animale stupido». Il suo è lo sguardo del cacciatore, abituato a tenere il resto del mondo nella mira del suo fucile; sguardo che non potrà mai essere ricambiato dalle prede che tiene sott’occhio, che mai potrà rivedersi in ciò che guarda. Solo l’indiana ha il coraggio di rivolgergli i suoi occhi di preda, quando la vede per la prima volta, dopo aver ammazzato il gruppo di indiani con i quali era accampata, e forse per questo lui la risparmia. Per questo è condannato ad impazzire.
Incontro tra Charlie e l’indiana
Lasciato solo, dopo essersi fatto terra bruciata tutto intorno, non ha più neanche dei bisonti a cui sparare, ma solo i loro spettri, che però, punizione terribile per un cacciatore, non può vedere. Non c’è da stupirsi se alla fine il film rinuncia alla tradizione della catartica sparatoria finale tra i due: il personaggio di Charlie viene già fatto fuori dalla sceneggiatura e dalla messa in scena del film, dalla dialettica inappellabile dei raccordi di sguardo. Nell’ultima scena (che Stanley Kubrick doveva conoscere molto bene), Sandy scopre che Charlie è stato congelato a morte da una bufera di neve durante la notte. I suoi occhi, fissi nel vuoto, sono quelli di un morto, incapaci di restituire lo sguardo. Questo è ciò che si intende quando si dice che è impossibile in Brooks separare ciò che è intellettuale da ciò che è immediato: egli imbastisce la sua retorica partendo dalla realtà materiale delle immagini, permettendo in questo modo a ciò che è astratto di farsi concreto, e viceversa. Le relazioni tra i personaggi, i loro sentimenti e i temi del film vengono ridotti ad una semplice triangolazione di sguardi, col paradosso che essi divengono i termini di una logica implacabile, tanto che basta un semplice gesto a far precipitare più destini. In un solo sguardo scorrono paralleli la calda emozione e la fredda morale.
Charlie congelato a morte nel finale del film
NOTE
1. G. Stevens Jr. (a cura di), Conversations with the Great Moviemakers of Hollywood’s Golden Age at the American Film Institute, Vintage Books, New York, 2007, p. 536.
2. Ivi, p. 554.
3. Ivi, p. 537.
4. P. Brion, Richard Brooks, Éditions du chêne, Parigi, 1986, p. 112.
5. Ivi, p. 113.