Due tra i migliori film presentati in concorso, Povere creature! [Poor Things, 2023] di Yorgos Lanthimos – tratto, con numerosi e significativi cambiamenti, da un romanzo dello scozzese Alasdair Gray – e La Bête [id., 2023] di Bertrand Bonello mettono al centro il rapporto tra progresso scientifico e sentimenti umani. In Povere creature!, il mad doctor sfigurato Godwin («la vittoria di Dio» o «colui che ha sconfitto Dio»?) Baxter (Willem Dafoe) ha riportato in vita una donna (Emma Stone, eccezionale) ripescata tra le acque del Tamigi impiantandole il cervello del feto che portava in grembo. Ribattezzata Bella, la giovane – una specie di Candide al femminile – vive inizialmente di soli istinti, a partire da una tonante voracità sessuale, lontana dal capestro delle convenzioni sociali. Sarà l’incontro con il laido e mellifluo avvocato Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), dongiovanni solo in apparenza anarchico che si rivela essere in realtà il più inetto dei conformisti, a strapparla dal suo rifugio dorato: Bella conoscerà così il mondo, la violenza, la sofferenza, aderirà al socialismo marxista, sarà tormentata dal ritorno inaspettato dei fantasmi della sua vita precedente ma, grazie alla prensilità elastica del suo “giovane” cervello, saprà sempre guardare alle cose con lucidità irriconciliata, lontana da ogni schema della convivenza civile, passando dall’universo chiuso e solipsistico del sé alla scoperta dell’altro e delle sue ragioni.
Nel film di Lanthimos, che mescola suggestioni vittoriane (con Godwin Baxter che è contemporaneamente Frankenstein ed Elephant Man, creatore e creatura), scenografie steampunk (la splendida Lisbona inventata dagli scenografi Shona Heath e James Price) e ricordi dell’erotismo contemporaneamente stilizzato e sanguigno di Fassbinder (la lunga traversata a bordo del piroscafo rimanda alle cromie di Querelle de Brest [Querelle, Rainer Werner Fassbinder, 1982]), tra natura e scienza non c’è più scontro ma incontro, tentativo – letterale (c’è persino l’innesto del cervello di una capra su un essere umano) – di comunione.
L’esatto contrario di ciò che avviene in La Bête, film complesso e straordinario, scandito da una tripartizione temporale. Due personaggi, Gabrielle (Léa Seydoux) e Louis (George MacKay), s’incontrano in infatti tre epoche diverse: nel 1910, a Parigi, poco prima della grande alluvione della Senna (un segmento chiaramente debitore di La giunga nella bestia di Henry James); nel 2014, a Los Angeles, nei giorni del terremoto che colpì la città californiana; infine nel 2044, in un mondo ormai pienamente dominato dall’intelligenza artificiale (il film è stato comunque pensato ben prima del lancio di software d’intelligenza artificiale generativa come ChatGPT), in grado di “purificare” gli esseri umani per cancellare l’infelicità al prezzo però della completa anestetizzazione di emozioni e sentimenti.
La presenza dell’intelligenza artificiale, nel film di Bonello, non è quindi solo un pretesto à la page: la misteriosa connessione amorosa (e sempre inappagata) che lega i due protagonisti e il loro strano caso di metempsicosi attraverso gli anni e i secoli, potrebbero essere una possibilità una fantasia, il prodotto di una memoria sintetica alla Blade Runner [id., Ridley Scott, 1982] (un altro tipo di innesto, dopo Lanthimos). La Bête è contemporaneamente film-cervello (tra Muriel, il tempo di un ritorno [Muriel, ou le temps d’un retour, Alain Resnais, 1963], Crimini invisibili [The End of Violence, Wim Wenders, 1997] – suggestione, quest’ultima, che rubo a Roberto Manassero – e, ovviamente, a La Jetée [id., Chris Marker, 1962] e al Lynch di Mulholland Drive [Mulholland Dr., David Lynch, 2001], INLAND EMPIRE – L’impero della mente [INLAND EMPIRE, David Lynch, 2006] e Twin Peaks – Il ritorno [Twin Peaks, conosciuta anche come Twin Peaks – The Return, David Lynch, 2017]), favola e trattato filosofico, un film dove tra scienza e sentimento esiste un conflitto sanabile solo dalla scelta dei singoli. Questo perché la presenza onniveggente della tecnica ha condotto su uno stesso livello le molteplici dimensione della realtà: la fantasia e il sogno come il vissuto e l’ideale. Sarà ancora una volta compito del cinema, allora, cerare di cogliere la segreta, misteriosa complessità di questa realtà, lacerando il velo impenetrabile tra le diverse dimensioni dell’esistenza, dello spazio e del tempo (come si è visto, un altro dei temi-cardine di questa edizione del Festival). Lo mostra, con impressionante intensità, una sequenza in cui – anche solo per un momento illusorio – a salvare la protagonista dalla morte saranno proprio le immagini delle videocamere di sorveglianza (vedere per credere). Il cinema, pertanto, prende possesso della realtà, la plasma secondo la sua logica, testimonia tutta la sua capacità di creare mondi possibili. Mondi alternativa. Mondi di salvezza.