Lo specchio della vita [Imitation of Life, 1959] non è soltanto l’ultimo dei melodrammi familiari che hanno reso popolare Douglas Sirk, ma probabilmente il suo film più conosciuto. Certamente, quello che ha ottenuto il maggior successo di pubblico, oggetto nel corso degli anni di una poderosa rivisitazione critica, e che in più ricopre una posizione esclusiva all’interno della sua filmografia, quella cioè di essere l’opera finale prima del sorprendente, per un regista in quel momento all’apice del successo, ritiro da Hollywood e del ritorno in Europa.

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Per la terza volta alle prese con il remake di un omonimo film John M. Stahl che, come negli altri casi, Sirk dice di non aver visto (così come non ha letto il romanzo di Fannie Hurst da cui è tratta la sceneggiatura), Lo specchio della vita presenta ancora una volta tutti quegli elementi tipici dei suoi melodrammi: tensioni familiari, ricerca di un’identità da parte dei personaggi, intensità emotiva, repressioni e ambiguità. Ma declinando questa volta il film interamente al femminile, con i due rapporti madre-figlia a rappresentare il vero interesse del regista, più del problema della discriminazione razziale di cui si serve non con un interesse sociopolitico ma principalmente in funzione melodrammatica. Mai come stavolta, inoltre, il falso happy end tipicamente sirkiano si rivela così profondamente illusorio, poiché la riconciliazione finale, se così si può definire, passa solo attraverso la morte di una dei protagonisti.

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Premesso, dunque, il convenire del film al più comune modello di melodramma familiare alla Sirk, rispetto al trittico Magnifica ossessione [Magnificent Obsession, 1954], Secondo amore [All That Heaven Allows, 1955], Come le foglie al vento [Written on the Wind, 1956] (che insieme a Imitation of Life compongono, per chi scrive, il vertice della produzione melodrammatica di Sirk), tuttavia il film presenta, soprattutto nella prima parte, una maggiore classicità formale, a discapito di quegli aspetti tecnici a cui istintivamente associamo il nome di Sirk e dei suoi collaboratori storici, Russell Metty e William Fritzsche su tutti: l’uso antinaturalistico ed emozionale del Technicolor, qui abbandonato a favore di un più controllato Eastmancolor, e i formati panoramici SuperScope o CinemaScope (ritorna invece il rapporto 1.85:1). Vi è inoltre, soprattutto nelle prime scene (l’incontro tra Lora e Annie sulla spiaggia, la prima visita di Archer a casa Meredith), un ricorso più frequente del solito al campo-controcampo e a piani ravvicinati, probabilmente anche per il venire meno della necessità di risaltare gli ambienti domestici fintanto che i protagonisti vivono in un contesto più umile; prospettiva non a caso ribaltata nella seconda parte del film, cioè dopo il trasferimento nella nuova casa, in cui prevalgono invece i campi lunghi.

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Complessivamente, malgrado quanto detto, sul piano della messa in scena restano comunque presenti tutti gli altri segni distintivi del regista tedesco, tanto che è impossibile non considerare Lo specchio della vita come fermamente e quasi paradigmaticamente sirkiano. E cioè mi riferisco all’ambientazione prevalentemente in interni, sempre meticolosamente curati, e la conseguente percezione che i personaggi siano come imprigionati in un ambiente chiuso e oppressivo (con Sarah Jane che incarna invece lo slancio vitale verso l’emancipazione); alla presenza di specchi e superfici riflettenti; all’uso simbolico del colore degli abiti con, in questo caso, una prevalenza iniziale del grigio di Lora, sostituito successivamente dal rosa, dal bianco e da altri colori chiari ad indicare l’agio raggiunto, in contrasto invece col nero di Annie. Così come, seppur in un formato più ristretto, alla disposizione nello spazio dei personaggi, e più in generale alla cura dell’architettura visiva dell’inquadratura.

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Pensiamo soprattutto alla seconda parte del film, cioè quando tradizionalmente «la violenza interiore, l’energia che è nascosta dentro i personaggi può scoppiare»1, usando le parole dello stesso Sirk, e la messa in scena del regista tedesco torna agli eccessivi, finanche barocchi, moduli usuali. Le due scene clou, quella dell’incontro-scontro tra Annie e Sarah Jane nel camerino del locale in cui si esibisce la ragazza e quella in cui Lora annuncia a Susie la sua intenzione di sposare Archer, sono un vero e proprio manifesto del cinema di Sirk per la perfetta orchestrazione di movimenti di allontanamento e riavvicinamento tra i personaggi e per l’uso di specchi per riflettere la loro immagine e di oggetti di arredamento per allontanarli. Nella prima delle due sequenze, in particolare, degno di nota è il ricorso a un low-angle shot che enfatizza lo spazio circostante le due donne, alternato a primi e medi piani in cui l’incontro tra gli sguardi è strategicamente negato. Ne viene fuori un esemplare equilibrio tra un uso del corpo attoriale e dello spazio scenico quasi teatrale e lo sfruttamento della profondità e delle altre prerogative del mezzo cinematografico.

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Fatta questa introduzione sui caratteri generali del film, è mio interesse porre l’attenzione in questo saggio specificatamente sul tema, suggerito dal titolo originale stesso, dell’imitazione. Sono lo spessore dato all’idea di vita come Living Theatre, secondo la definizione di Robert B. Pippin2, e il suo riverbero con eventi che trascendono il film stesso a definire il carattere distintivo di questo remake di Sirk. Per entrare nel merito, occorre innanzitutto porre brevemente l’attenzione agli eventi narrati nel film.

Racchiuso tra due eloquenti campi lunghi, Lo specchio della vita si dipana a partire da una spiaggia affollata in cui una madre, Lora Meredith, cerca disperatamente la figlia di sei anni smarrita, e si conclude con un funerale in cui è una figlia a cercare un ultimo contatto con una madre ormai morta, Annie, cioè colei che molti anni prima ritrovò la bambina su quella spiaggia. Nel mezzo, la storia delle due donne e delle loro figlie: da un lato Lora, aspirante attrice che raggiungerà l’agognato successo a teatro, e la figlia Susie, che a causa della carriera della madre sarà abbandonata alle cure della domestica. Dall’altro, appunto la governante afroamericana Annie con la figlia Sarah Jane, chiara di carnagione e che a causa di ciò per tutta la vita rifiuterà la sua identità, facendosi passare per bianca e arrivando a respingere ed allontanare la madre. A complicare ulteriormente questo intreccio di rapporti familiari e di amicizia, che già devono fare i conti con questioni più grandi quali il problema razziale e i rapporti di classe (quando le due donne si conoscono sono entrambe indigenti, mentre il successo di Lora amplificherà le gerarchie sociali finendo per allontanarle), vi è l’unico personaggio maschile degno di nota del film, il fotografo Steve Archer. Conosciuto anch’egli su quella spiaggia, Lora ne rifiuta gli approcci, nonostante l’amicizia nata tra i due, per non sacrificare le sue ambizioni lavorative. Rincontratolo anni dopo, l’uomo, che contrariamente a Lora ha rinunciato alle sue aspirazioni artistiche divenendo un pubblicitario, tornerà a frequentare casa Meredith, stringendo una forte amicizia con la ormai sedicenne Sandra, da sempre innamorata di lui e finendo involontariamente a frammettersi tra madre e figlia. Nel finale, dunque, entrambe le storie giungono al punto di rottura, per poi seguire quello che lo stesso Sirk definiva l’unhappy happy end.

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Se guardiamo alla struttura principale del film, dunque, la versione di Sirk non si discosta troppo né dal romanzo né dal primo adattamento messo in scena da Stahl; vengono mantenuti infatti l’incontro casuale tra le due donne (seppur in circostanze diverse), il fatto di avere Anne (nel film originale Delilah) una figlia dalla pelle più chiara e i conseguenti scontri madre-figlia, il successo raggiunto tramite l’attività lavorativa, la presenza di Archer. Numerose e significative sono tuttavia le differenze nella caratterizzazione dei personaggi, dai nomi, all’aspetto fisico, a soprattutto al lavoro svolto da Lora, anche in vista della necessità di attualizzare la storia in una nazione profondamente cambiata nei venticinque anni passati dalla trasposizione di Stahl. Le novità più sostanziali della versione sirkiana di Lo specchio della vita si inquadrano difatti proprio a partire dalla scelta di modificare il lavoro della donna, trasformandola da un’imprenditrice dei pancake (il cui successo è conseguente allo sfruttamento della ricetta di famiglia di Delilah) ad attrice teatrale. E cioè, pur mantenendo saldamente una gerarchia sociale, innanzitutto si adattano a quella che era la sensibilità contemporanea i rapporti umani e lavorativi tra le due donne; siamo infatti agli esordi dei movimenti per i diritti civili, istanze a cui il progressista Sirk è sensibile, e dunque per lo stesso motivo il padre di Sarah Jane passa da un «very light colored man» a un «practically white», lieve ma rilevante concessione al tabù dei rapporti sessuali interraziali.

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Ma allo stesso tempo, rendere Lora Meredith un’attrice permette a Sirk (che era stato e rimaneva un uomo di teatro) di compiere l’operazione più interessante di questo suo remake: aggiungere al film un’ulteriore stratificazione, convertendolo, a partire dall’evocativo titolo (che, caso più unico che raro, ha mantenuto la sua ambivalenza anche nell’adattamento italiano), in una riflessione sulla finzione e sulla performance, nella vita come nella scena, che infine trascende lo stesso film e che si allarga, vedremo, all’immaginario hollywoodiano, allo status di due delle attrici protagoniste (Lana Turner e Sandra Dee) e alla futura evoluzione del genere melodrammatico.

Il tema della vita come palcoscenico dove si recita un ruolo è d’altronde un topos già visto nella storia delle arti ed incredibilmente nelle corde del regista tedesco. L’idea di fare del film un melodramma ricco di richiami metateatrali è dunque, probabilmente, da subito nella testa di Sirk, che in un’intervista del 1967 ai Cahiers du Cinéma dirà infatti: «avrei fatto comunque Imitation of Life per il titolo»3. Vi inserisce il riferimento personale al suo amato teatro attraverso il lavoro di Lora e da lì problematizza il tema della esibizione, della performance, sia attraverso il materiale già presente nel romanzo, sia attraverso ulteriori aggiunte, riservandogli una centralità che spinge ad esempio Robert Pippin4 a scrivere che è proprio il concetto di imitazione a fare da trait d’union tra le due storie del film, quella di Lora e della sua carriera da un lato, e quella di Annie e Sarah Jane dall’altra.

Sono per l’appunto Lora e Sarah Jane, in questo Living Theatre, il fulcro del film. Nel corso de Lo specchio della vita, Sarah Jane si fa passare continuamente come ragazza bianca, e recita doppiamente quando si esibisce (come donna bianca) nel nightclub, ricercando nella finzione scenica il luogo ideale dove perseguire la sua messa in scena. Ma è un’interpretazione anche quella che fa della stereotipata cameriera afroamericana davanti agli ospiti di Lora, in una scena determinante per comprendere le dinamiche psicologiche della ragazza e la sua volontà di emancipazione da quello che fino a non molti anni prima era l’immaginario legato alla cameriera afroamericana.

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Anche Lora, presa come è dalle sue ambizioni lavorative, finisce con l’essere solo l’imitazione di una madre, un’interpretazione da mettere in scena nel poco tempo libero a sua disposizione. Questa lettura è resa già esplicita nel testo quando, in più occasioni, è la stessa figlia Susie a esortare la madre a smettere di recitare.

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È infine protagonista di una performance persino Annie, quando attraverso le sue ultime volontà riguardo il suo funerale fa organizzare una grande cerimonia con inni religiosi cantati da Mahalia Jackson e una bara bianca trainata da cavalli bianchi; mettendo in scena, dunque, un lusso e una vitalità che contrastano con quella che è stata invece la sua modesta vita da serva.

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A sostegno di questa idea della vita come palcoscenico in cui ogni soggetto interpreta un ruolo, vi è il lavoro formale di Sirk e dei suoi collaboratori. Riassume con precisione Tom Ryan5 quando scrive che la messa in scena «persistently suggest the everyday as a form of theatre». E ancora, sottolineando come attraverso porte, finestre, specchi e scale, l’ambiente che circonda i personaggi sia «deployed as frames for their performance […] as if to underline the artifice of their exchanges».

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Non sono, ad ogni modo, soltanto i riferimenti meta-teatrali interni alla narrazione l’aspetto su cui ci preme focalizzare l’attenzione in questo saggio. Come già accennato, il tema dell’imitazione o meglio dell’invasione e della sovrapposizione della realtà nella finzione e viceversa, assume nel caso di Lo specchio della vita una dimensione che curiosamente si ribalta e si allarga oltre i confini del film in sé, inserendosi, seppur in larga parte in modo involontario, in un meccanismo che coinvolge la carriera, l’immagine e la vita privata di Lana Turner e, in minor misura, di Sandra Dee, e che finisce per svolgere un ruolo significativo nello sviluppo di quella che sarà la derivazione televisiva del melodramma americano.

Uno degli argomenti critici più comuni quando si parla di Lo specchio della vita è infatti, a ragion veduta, l’importanza capitale della presenza di Lana Turner, vera regina e volto per eccellenza (prima e soprattutto dopo la partecipazione al film di Sirk) del melodramma, qui in quello che possiamo definire il ruolo della sua vita. Già molto nota negli anni Quaranta, l’attrice, quando si appresta a girare il film di Sirk, è ricordata soprattutto per la sua partecipazione nel classico Il postino suona sempre due volte [The Postman Always Rings Twice, Tay Garnett, 1946], di cui ironicamente vale la pena ricordare brevemente il plot, cioè una donna che con la complicità dell’amante uccide il marito. L’anno prima dell’inizio della lavorazione di Lo specchio della vita, la donna è stata inoltre protagonista del melodramma di Mark Robson I peccatori di Peyton [Peyton Place, 1957], film importante nella storia del melodramma e soprattutto nella sua evoluzione verso il modello che porterà alla nascita della soap opera (dallo stesso romanzo ne è stata tratta, appunto, una delle prime soap di successo). Oltre ai suoi ruoli e alla sua immagine da femme fatale, la celebrità della Turner è comunque, in quel momento della sua carriera, dovuta soprattutto alla sua movimentata vita privata, caratterizzata da numerosi matrimoni e da un leggendario scandalo di Hollywood, l’affare Stompanato. Nel 1957, infatti, la donna inizia una burrascosa frequentazione con Joe Stompanato, gangester italoamericano, caratterizzata da liti, occhi neri, divieti d’accesso ai set, un pubblico scontro con Sean Connery (con cui l’attrice stava girando Estasi d’amore [Another Time, Another Place, Lewis Allen, 1958]). Il finale della storia è poi degno di un vero melodramma: durante un feroce litigio in cui Stompanato sta minacciando di morte la Turner, la figlia della donna, Cheryl, accorre con un coltello da cucina e uccide l’uomo. Ne segue naturalmente un processo, nelle aule del tribunale e mediatico, su cui non vale la pena soffermarsi ulteriormente, ma di cui è facile intuire la portata.

Il postino suona sempre due volte.

La critica è concorde nell’affermare che l’affare Stompanato e l’immagine della Turner abbiano influenzato Sirk e la produzione nella scelta dell’attrice, benché già in I peccatori di Peyton ella si fosse confrontata con il ruolo di una madre. Quello che è certo, è che questa fusione tra immagine fuori e dentro gli schermi di donna tormentata, proprio a partire dal biennio ’57-’58 le si incollerà addosso, facendo di lei la protagonista ideale di una serie di melodrammi sempre più morbosi, che parteciperanno all’evoluzione del melodramma, come già detto, verso i moduli eccessivi della futura soap opera. Dei titoli interpretati dalla donna dopo Lo specchio della vita, merita una citazione tra tutti Madame X [id.], diretto da David Lowell Rich nel 1966, che è inizialmente lo stesso Sirk a dover girare come progetto successivo a Imitation of Life e che, anche se girato molti anni dopo, mantiene una visibile influenza sirkiana nell’uso del colore.

Madame X.

Un discorso parzialmente analogo a quello della Turner, se si parla di attrici che rispondono a uno specifico immaginario, lo si può fare riguardo la partecipazione al film della giovane Sandra Dee che, a partire dallo stesso biennio, si era affermata come attrice adolescente in commedie e film sentimentali. Il 1959 è l’anno della sua consacrazione in quello che è il ruolo e l’immagine per cui sarà per sempre ricordata, grazie appunto alla sua partecipazione a Lo specchio della vita e ad un altro film altrettanto seminale per quella direzione già citata verso cui si volge in quegli anni il melodramma, Scandalo al sole [A Summer Place, 1959] di Dalmer Daves. Tale è la sovrapposizione tra l’attrice e questo ruolo di figlia, che l’anno successivo lo stesso storico produttore di Sirk, Ross Hunter, riproporrà la coppia Turner-Dee in Ritratto in nero, melodramma a tinte nere in cui, guarda caso, Lana Turner torna come quattordici anni prima a complottare l’omicidio del marito; con il buongusto di rievocare, senza riproporre apertamente, le sirene dell’affare Stamponato.

Ritratto in nero.

Pur mantenendo, dunque, Lo Specchio della vita, una dignità autoriale diversa sia da I peccatori di Peyton che dai successivi lavori con la Turrner, è innegabile che il film di Sirk si inserisca, in una ricostruzione storiografica del melodramma, in questa singolare vicenda di incastri tra vita, arte, immaginario dentro e fuori dagli schermi dei suoi volti più noti. Imitation of Life, mai titolo fu tanto indovinato.

NOTE

1. Citazione riportata da Thomas Elsaesser in Storie di rumore e furore. Osservazioni sul melodramma familiare, Monogram n. 4, 1972.

2. Robert B. Pippin, Douglas Sirk. Filmaker and Philosopher, Bloomsbury Academic, 2021.

3. «Cahiers du Cinéma», n.189, 1967.

4. Robert B. Pippin, Op. cit, p. 103.

5. Tom Ryan, The Films of Douglas Sirk. Exquisite Ironies and Magnificient Obsessions, University Press of Mississipi, 2019, p. 228