Nel 1949, Ernst Jünger pubblica uno dei testi fondamentali del secolo breve: il saggio Oltre la linea, raccolto all’interno di un volume collettaneo curato da Hans Georg Gadamer in occasione del sessantesimo compleanno di Martin Heidegger (al quale è dedicato). Tra i tanti motivi di riflessione che il troppo presto dimenticato filosofo (ed entomologo) tedesco offre con il suo empito visionario e impressionistico c’è l’idea di un mondo in cui «l’individuo finisce in balìa della tensione nichilistica e ne viene abbattuto», infirmato dallo spengleriano tramonto dei valori («soprattutto dei valori cristiani») e contraddistinto dall’«inquietudine metafisica delle masse» in cui «ogni creazione artistica […] cade nell’ambito della ripetizione meccanica» e «riporta solo un’eco della realtà svanita»1. In queste pagine, Jünger individua perfettamente «il punto che segna l’avvenuta consunzione dell’Antico ma che non può ancora salutare l’insorgenza del Nuovo, il “meridiano zero” oltre il quale non valgono più i vecchi ordinamenti e dove, sottoposto a un’accelerazione fisica e tecnica sempre più veloce, lo spirito è in affanno e non ha ancora trovato nuovi orientamenti»2. «Accelerazione fisica e tecnica» che altro non può essere che quella indotta dalla macchina, ovvero da una produzione automatizzata dalla riproposizione delle stesse azioni e degli stessi gesti eseguiti potenzialmente all’infinito (la deleuziana «riproduzione accelerata degli oggetti di consumo»)3, come qualche lustro primo mostrava magnificamente il canto del cigno di Charlot in Tempi moderni [Modern Times, Charles S. Chaplin, 1936].
Sorvolando ogni (superata?4) suggestione freudiana sulla complementarità di istinto di morte e coazione a ripetere, pare altresì evidente che il tema della replica (intesa come duplicazione o reiterazione degli stessi motivi) sia uno dei cardini della cultura novecentesca. Inevitabile quindi che esso plasmi anche l’arte che più di tutte ne ha assorbito le nuove dinamiche percettive e le riformate concrezioni simboliche: il cinema. Già i primi esperimenti dei fratelli Lumière – estensione cinetica della corrente realistica della pittura vedutista – erano fondati sulla prassi del remake e dell’autoremake (qui semplicemente ricondotto alla ripresa differente del medesimo scorcio), quasi come un aggiornamento delle trentuno tele con cui Monet registrava i cambiamenti di luce della cattedrale di Rouen. Fin dalle sue origini, insomma, il cinema si mostra in qualità di dispositivo infinitamente replicabile nello spazio e nel tempo: ne dà una dimostrazione anche il recente First 10 – Remake [Prvih 10 – Remake, 2016] in cui il regista sloveno Janez Burger rifà – aggiornandoli al contesto e alle tecnologie sue coeve – i primi dieci film proiettati dai Lumière al Salon Indien du Grand Café Paris nel dicembre del 1895. Senza dimenticare che la natura illusionistica del mezzo è determinata proprio da un duplice modalità di riproduzione: da una parte quella dei fotogrammi al proiettore o in moviola (anch’essa ripetibile all’infinito) e dall’altra quella generata dalla cristallizzazione di una determinata condizione reale (l’inquadratura intesa come frammento spaziotemporale ritagliato tra lo start e lo stop della macchina da presa all’interno di un altro spaziotempo, quello del set) e la sua replica virtuale nella fantasmagoria illusoria della proiezione. Insomma: «la ripetizione sembra essere la ragione prima del cinematografo»5. Nello specifico: «ripetizione intesa come riproduzione di un “pezzo di vita”, desiderio tutto psicologico di rimpiazzare il mondo esterno con un suo doppio, mimesi dell’esistente» ma anche manifestazione dell’«ambivalenza del cinema, macchina che duplica e che si duplica»6.
Il volteggio [Le Voltige, Louis Lumière, 1895] / First 10 – Remake [Prvih 10 – Remake, Janez Burger, 2016]
Tralasciando certe capziosità linguistiche (il verbo «ripetere» chiama in causa non solo l’idea della replica ma anche della riproposizione di un protocollo formulaico), non è difficile individuare sin dai tempi del muto un intero catalogo di figure della ripetizione. Non solo in film che fanno della reiterazione il loro perno formale e narrativo (come di recente p.e. nel magnifico The Plains [id., David Eastel, 2022] o nel cinema di James Benning): dall’insistenza sui medesimi soggetti fino al fenomeno affascinante e spesso tralasciato del serial, destinato a proseguire fino al termine del secondo conflitto mondiale e in fondo – con le sue vicende spesso derivate dai fumetti (Batman, Flash Gordon, Capitan America) – precursore dell’attuale (e morbosa) superfetazione del nuovo trans-genere supereroico. In ogni caso, una volta appurata la consustanzialità di cinema e ripetizione (all’interno della quale bisogna giocoforza far rientrare anche l’adattamento di opere letterarie o teatrali), in questa sede non si vuole riproporre una scansione cronologica della pratica remake, del calco o della replica7 quanto sinteticamente circoscrivere alcune delle spinte che hanno portato tali operazioni a trasformarsi in una sorta di cerimoniale condiviso da prodotti diametralmente differenti per ispirazione o mole produttiva (dal blockbuster alla videoinstallazione, dal cinema sperimentale alla serializzazione industriale, dalle sacche di resistenza autoriale alle opere fuori norma e fuori formato che – spesso meritoriamente – riempiono i cataloghi di festival grandi e piccoli).
Per farlo, bisogna anzitutto convocare a processo quello che è il vero propulsore di ogni ideale di ripetizione: il rapporto con il passato. Una relazione quasi biologica, che chiama in causa la memoria e i sentimenti; ma anche un modello conflittuale che ricerca il senso di sicurezza del noto per poi ribaltarlo («Perché mi deve sembrare che quasi tutti, anzi tutti addirittura i mezzi e le convenienze dell’arte possano oggidì servire soltanto alla parodia?», diceva il Doctor Faustus di Thomas Mann) o un velo di Parrasio steso non tanto per ingannare lo spettatore quanto per renderlo compartecipe della natura illusiva dello spettacolo a cui assiste.
Istanze, quelle sopra elencate, già pienamente comprese da Jean-Luc Godard nel suo La gaia scienza [Le Gai savoir, 1969]
Certo, il rapporto col passato non si fonda più solamente sul principio rassicurante della mimesi ma è chiamato a confrontarsi con lo statuto sempre più incerto assunto tanto dalla realtà quanto dalle immagini che la rifigurano. In un mondo in cui il «commercio dei segni visibili»8 (espressione rubata a Marie-José Mondzain) è diventato talmente pervasivo da aver eroso in maniera probabilmente irreversibile il confine fra elaborazione virtuale e dato fattuale, dove le tecnologie computazionali e le «integrazioni dell’IA nei device fotografici degli utenti e nei siti di condivisione dell’immagine»9 hanno trasformato la realtà in un enorme schermo bianco da riempire tanto che, immaginando un mondo dove «tutti gli schermi, ovunque, si sono svuotati», Don DeLillo si chiede che cosa resterebbe «da vedere, da sentire, da provare»10, è inevitabile che l’atteggiamento generale navighi tra nostalgia e avversione, tra individuazione di una cesura e inevitabile attrazione, tra vertigine del vuoto e desiderio di riscrittura («È lì che si dissolve e si mutila/il presente», direbbe Pasolini)11.
La miniserie Irma Vep [id., creata e diretta da Olivier Assayas, 2022] mette esemplarmente in scena un rapporto con le immagini e l’immaginario del passato sospeso tra vertigine del vuoto e desiderio di riscrittura.
Si cercherà qui di riflettere brevemente su due aspetti strettamente connessi alla relazione che investe il triangolo formato dalle strategie della ripetizione, il rapporto con il passato e le nuove forme di narrazione audiovisive: da una parte, la trasformazione dell’immaginario in un gigantesco magazzino di segni e dall’altra il tentativo di riscrittura e ripensamento del passato stesso. Vengono però escluse sia una disamina della sempre più incalzante covata di opere incentrate sul confronto tra uno o più personaggi e il un passato che ritorna continuamente ma che non si può in alcun misura redimire (un esempio su tutti: l’epicedio stalloniano di Tulsa King [id., creata da Taylor Sheridan, 2022 – in corso]) sia una più specifica meditazione sulla rappresentazione della Storia, che pertiene a un ambito di ricerca decisamente più articolato, per quanto sia anch’essa oggi inevitabilmente immersa nel magma ideologico della ripetizione; soggetta tanto a tentativi di ricontestualizzazione critica – anche nel cinema italiano, si veda – al di là di operazione inutilmente oleografiche come La legge di Lidia Poët [creata da Guido Iuculano e Davide Orsini, 2023 – in corso] – il discontinuo ma geniale progetto di Mario Martone (Noi credevamo [2010], Il giovane favoloso [2014], Capri-Revolution [2018], Qui rido io [2021]) per non parlare dell’opera omnia del grande Paolo Benvenuti –, quanto a tentativi di ridefinizione estetico/morale nell’ambito del neo-iperrealismo digitale – si pensi in tal senso sia ai lavori di Sergei Loznitsa12 (Babi Yar. Context [Bábij Jar: Contéxt, 2021], The Natural History of Destruction [id., 2022], Il processo di Kiev [The Kiev Trial, 2022] e per certi versi anche Mr. Landsbergis [id, 2021]) o al Peter Jackson di They Shall Not Grow Old – Per sempre giovani [They Shall Not Grow Old, 2018] – o di vera e propria riscrittura, come ha fatto Quentin Tarantino con Bastardi senza gloria [Inglourious Basterds, 2009] e C’era una volta a… Hollywood [Once Upon a Time… in Hollywood, 2019]).
L’ARCA DELL’ALLEANZA
Lasciati ormai alle spalle certi rivolgimenti novecenteschi come le opere neo-dadaiste di Robert Rauschenberg, fondate sull’incontro tra «eterogenei reperti e il magma pittorico che interviene in modo inedito a inglobarli»13, o le sperimentazioni di Carmelo Bene e Andy Warhol, in diversa misura fondate sulla ripetizione iperbolica (di archetipi e immagini), la concretizzazione simbolica del rapporto che l’arte (in generale) e il cinema (in particolare) hanno instaurato con il passato è probabilmente l’inquadratura conclusiva di I predatori dell’arca perduta [Raiders of the Lost Ark, Steven Spielberg, 1981], dove l’Arca dell’Alleanza viene riposta in una cassa di legno e stoccata in un gigantesco magazzino, pronta – proprio come tutti gli altri oggetti lì nascosti – a essere riesumata e riadattata alle esigenze porose e malleabili dell’immaginario.
In epoca di neo-revivalismo, il passato non è più solamente un bazar da cui pescare a piene mani (come in età postmoderna) ma è anzitutto un dato storico, un immaginario condiviso da cui non si può prescindere, spesso uno scenario da rimpiangere o verso il quale provare necessariamente nostalgia, un terrain vague inteso come spazio da riempire d’infinite possibilità determinate dalla ricombinazione del noto: sia esso un periodo o un avvenimento (in questo – e solo in questo – non esiste distanza ideologica tra un grande film d’autore come Spencer [id., Pablo Larraín, 2021] e un centone indigesto da noi approdato direttamente su piattaforma come Medieval [id., Petr Jákl, 2022], così come tra Esterno notte [2022] di Marco Bellocchio e The Woman King [id., Gina Prince-Bythewood, 2022]); un fatto di cronaca (La scuola cattolica [Stefano Mordini, 2021], dal romanzo-fiume di Edoardo Albinati); un prototipo di genere (film come Halloween [id., 2018], Halloween Kills [id., 2021] e Halloween Ends [id., 2022] di David Gordon Green o come il requel Scream [id., Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, 2022] tradiscono ansie contemporanee riallacciandosi a franchise che hanno segnato l’horror della seconda metà del secolo scorso); un deposito di forme, sistemi concettuali e paradigmi ideologici facilmente storicizzati (è per esempio il caso della ripresa di estetica, mode e costumi degli anni Ottanta infinitamente riproposta fino a diventare un nuovo fenomeno di massa con la serie Stranger Things [id., creata da Matt e Ross Duffer, 2016 – in corso] e non solo); personaggi letterari oramai assurti a modelli (si pensi alla figura del detective: dai mille volti che ha assunto Sherlock Holmes a Kenneth Branagh che interpreta Hercule Poirot in Assassinio sull’Orient Express [Murder on the Orient Express, Kenneth Branagh, 2017] e Assassinio sul Nilo [Death on the Nile, Kenneth Branagh, 2022]) o personaggi realmente esistiti ma trasfigurati dalla fantasia collettiva (oltre al già citato Spencer, anche Elvis [id., Baz Luhrmann, 2022] o la Marilyn di Blonde [id., Andrew Dominik, 2022]; vicende poste al crocevia tra Storia e Mito (The Northman [id., Robert Eggers, 2022] o Re Granchio [Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, 2021]); persino il poco analizzato sottogenere retrofuturista che racconta il futuro affidandosi a griglie estetico/ermeneutiche del passato (è parzialmente il caso del Denis Villeneuve di Blade Runner 2049 [id., 2017] e Dune [id., 2021] ma anche dell’happening afropunk Neptune Frost [id., Saul Williams e Anisia Uzeyman, 2021], di bizzarrie post-surrealiste come After Blue (Paradis Sale) [id., Bertrand Mandico, 2021] o di pasticci di serie Z come Zona 414 [Zone 414, Andrew Baird, 2021]); operazioni che usano il cinema come filtro per rispecchiare l’indeterminatezza del reale (il dittico di Joanna Hogg The Souvenir [id., 2019] e The Souvenir – Part II [The Souvenir: Part II, 2021] o Sull’isola di Bergman [Bergman Island, Mia Hansen-Løve, 2021]); fino alle più scontate (e torniamo ancora una volta al cinema italiano: si veda il recentissimo Se fate i bravi – Genova 2001, il sogno e la violenza [Stefano Collizzoli e Daniele Gaglianone, 2022]) o genialoidi invarianti documentarie (Gli ultimi giorni dell’umanità [enrico ghezzi e Alessandro Gagliardo, 2022]). E mille altre sottocategorie possibili.
Blonde
Prossimo al rispetto del canone ma lontano daIle gerarchie, il passato, oggi, ha idealmente assunto la medesima configurazione delle immagini registrate dalla macchina di Morel nel romanzo di Adolfo Bioy Casares14: destinate a ripetersi all’infinito ma alterabili dall’intervento umano. Un universo allo stesso tempo rigido e proteiforme, un labirintico intrecciarsi di idee, forme, dati e culture che rimandano a un orizzonte non necessariamente esperito ma sicuramente condiviso. Un’ideale dimensione zero, un non-luogo per eccellenza dove cronaca e biografia, fantasia e storia, antropologia e mito, natura e cultura sono accomunati da un’unica, grande bandiera. Uno spazio senza confini geografici dove il rischio che «la vita diventerà, quindi, un magazzino della morte»15 viene temperato dalle opportunità (per larga ancora parte inesplorate) determinate dalla sua stessa logica iterativa.
24 FOTOGRAMMI
Nel celebre romanzo Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, l’eponimo protagonista così ribatte a questa considerazione dello scrittore e narratore Nick Carraway:«Non si può ripetere il passato».
“Non si può ripetere il passato?” esclamò incredulo. “Come no? Certo che si può!”16
La verità è che il sogno di Gatsby, inevitabilmente destinato a infrangersi, non è solo quello di ripetere (o rivivere, come succede p.e. nella recente serie Halo [id., creata da Steven Kane e Kyle Killen, 2002 – in corso]) il passato ma in qualche misura di correggerlo. Diversi decenni dopo, ad accollarsi il fardello delle illusioni di Gatsby e levare le braccia in segno di meraviglia è proprio il cinema. Perché uno degli atteggiamenti – talmente generalizzato da essere entrato nell’uso comune – che pervadono la contemporaneità è quello della ricodifica del passato, del suo tentativo di riscrittura e di riarrangiamento a seconda delle esigenze del presente.
Una pratica che trova una straordinaria varietà di applicazioni, a cominciare ovviamente dall’espediente del retcon, utilizzato al cinema come nelle serie o nei videogiochi (per non parlare anche di romanzi e fumetti) per rimediare ai problemi di continuity che la proliferazione d’immagini e storie pone costantemente.
Un’immagine del videogioco Final Fantasy VII Remake [Fainaru Fantajī Sebun Rimeiku, Square Enix, 2020]
Si tratta, comunque, della spia di un atteggiamento di contemporanea attrazione (che è il sentimento maggioritario) e repulsione (sentimento invece minoritario e connesso a determinati aspetti che la cultura giudica superati quando non insostenibili) nei confronti del passato, determinato da una stretta dipendenza da esso. Tanto che questo stesso passato non diventa più, come suggerito in precedenza, solamente la configurazione storicizzata assunta delle suggestioni proposte dall’immaginario collettivo quanto anche una specie di struttura atemporale, un già-dato inscritto in un flusso continuo privo di coordinate e che va ben oltre l’ideale postmoderno della contaminazione.
Conforme, da un certo punto di vista, alla pratica musicale del sampling, il passato è diventato anzitutto un magma infinitamente campionabile e ricomponibile in frammenti potenzialmente illimitati.
Il rapporto tra tempo e ripetizione è tematizzato anche dal recente Unrest [id., 2022] di Cyril Schäublin.
Così, ecco tutta una serie di scelte, idee e soluzioni che rimandano a questa concezione: i voluti anacronismi inseriti all’interno dei film storici (i treni e i transatlantici che fanno capolino in Il corsetto dell’imperatrice [Corsage, Marie Kreutzer, 2022], peraltro – proprio come la coeva e più superficiale serie L’imperatrice [The Empress, creata da Katharina Eyssen e Lena Stahl, 2022-in corso] – tentativo di rilettura in chiave femminista della figura di Elisabetta di Wittelsbach17; il ponteggio, gli stativi, il bluescreen e le armature del set che aprono e chiudono Il prodigio [The Wonder, Sebastián Lelio, 2022] e anche – per certi versi – il sogno impossibile ma in qualche modo attualizzato dalle immagini di un Aldo Moro liberato e ancora vivo proposta da Bellocchio sia in Buongiorno, notte (2003) che, a quasi vent’anni di distanza, in Esterno notte (2022); una certa ottica revisionista (e a seconda degli esiti sospesa tra progressismo liberale e veteromoralismo) che conduce alla riscrittura della Storia per riadattarla ai valori consolidati dal presente (la presenza di attori e attrici appartenenti a minoranze in contesti o posizioni socioculturali semi-impossibili al tempo dei fatti raccontati in opere come p.e. Bridgerton [id., creata da Chris Van Dusen, 2020-in corso], Persuasione [Persuasion, Carrie Cracknell, 2022], Amsterdam [id., David O. Russell, 2022] e Omicidio nel West End [See How They Run, Tom George, 2022]); le già citate strategie di riconversione dell’immaginario, come il requel, che però trovano nell’ubiquitaria Twin Peaks – Il ritorno (Twin Peaks, creata da David Lynch e Mark Frost, 2017), il suo punto di massima astrazione teorica18; la diffusione delle narrazioni imperniate sul principio anti-aristotelico del «what if» (sempre più imprescindibile, poi, in ambito transmediale e ipertestuale), come tautologicamente dimostra la serie Marvel What If…? [id., creata da A.C. Bradley, 2021-in corso], nonché di opere che fondano il loro impianto diegetico proprio sulla necessità di modificare il passato (per restare in ambito Marvel, è ovviamente il caso di Avengers: Endgame [id., Anthony e Joe Russo, 2019]); la possibilità offerta dalla pratica del reboot (che di recente finisce quasi per sovrapporsi – dichiaratamente o meno – a quella del sequel: si facciano gli esempi di Candyman [id., Nia DaCosta, 2021], Matrix Resurrections [The Matrix Resurrections, Lana e Lilly Wachwoski, 2021] o Top Gun: Maverick [id., Joseph Kosinski, 2022]), che addirittura può “cancellare” una porzione delle vicende collocate all’interno di un tortuosamente ramificato ecosistema seriale come l’onnipresente MCU (si veda l’annunciata nuova serie per Disney+ dedicata al personaggio di Daredevil, che farà piazza pulita della precedente Daredevil [id., creta da Drew Goddard, 2015-2018] distribuita da Netflix) o, in maniera più sfumata, l’universo post-lucasiano di Star Wars (non pochi hanno individuato in Star Wars – L’ascesa di Skywalker [Star Wars: Episode IX – The Rise of Skywalker, J.J. Abrams, 2019] un’operazione di gigantesco retcon del precedente Star Wars – Gli ultimi Jedi [Star Wars: Episode VIII – The Last Jedi, Rian Johnson, 2017]); le varianti offerte dalla logica del cosiddetto metaremake (sia esso dichiarato o meno), come avviene con varie sfumature p.e. in Star Wars – Il risveglio della Forza [Star Wars: Episode VII – The Force Awakens, J.J. Abrams, 2015] che riattualizza il classico Star Wars: Episodio IV – Una nuova speranza [Star Wars: Episode IV – A New Hope, 1977] e in parte anche Star Wars: Episodio V – L’impero colpisce ancora [Star Wars: Episode V – The Empire Strikes Back, Irvin Kershner, 1980] e nei già citati Matrix Resurrections e Top Gun: Maverick ed è decisamente diffusa in ambito videoludico (si veda il caso di Final Fantasy VII Remake [Fainaru Fantajī Sebun Rimeiku, Square Enix, 2020]); e, in fondo, anche il recente baccano generatosi intorno al fantomatico Goncharov (un inesistente film girato da Martin Scorsese e interpretato da Al Pacino, Robert De Niro, Sophia Loren, Massimo Troisi, Harvey Keitel e Gene Hackman ideato da qualche sardonico social addicted) è parte di questa costellazione fenomenologica in quanto ironica variatio di un passato già scritto.
Top Gun: Maverick
In fondo, lo stato delle cose era già stato perfettamente compreso e diagnosticato dal compianto Abbas Kiarostami nel suo ultimo film 24 Frames [id., 2017] – completato dal figlio Ahmed -,che «parte da una serie di fotografie come attimi bloccati di realtà (frames) per poi immaginare che cosa è successo nei momenti precedenti e seguenti lo scatto. Quello che vediamo, quindi, non è una registrazione della realtà, ma una rielaborazione digitale»19. In questo modo, il presente cristallizzato di una singola immagine dà origine a un’ipotesi sul passato da cui proviene quell’immagine stessa e sul futuro a cui è destinata. Niente di più preciso per sintetizzare lo stato di limbo in cui si trova ora il cinema, costretto a guardare al presente attraverso il ripescaggio e, talvolta, l’emendazione del passato per immaginare un futuro che appare quantomai nebuloso e imprevedibile.
24 Frames
Il campo magnetico su cui si muovono queste forze è, ovviamente, quello dell’immagine che, in epoca di onnipresenti virtualizzazione e digitalizzazione, assume vieppiù una natura ibrida e indefinita ma contemporaneamente aperta all’infinità possibilità («ci troviamo non alla fine della Storia bensì all’inizio della Storia, dove tutto è possibile», dice Eric Baudelaire nel suo Where There Is No More Musice to Write, and Other Roman Stories [id., 2022], contraddicendo Francis Fukuyama). Per chiarire il concetto, basta chiamare a testimone un film come Marx può aspettare (Marco Bellocchio, 2021). Non solo un personalissimo «autodafé»20 che assume la forma di una seduta psicoanalitica per esorcizzare il fantasma della morte del gemello Camillo, il film di Bellocchio lascia scorrere «le immagini di Marco e Camillo bambini, poi adolescenti, ritratti separatamente oppure insieme, quindi giovani uomini […] E poi Marco che continua a vivere: invecchia, sbiadisce in un altro senso, guadagna nello sguardo qualcosa di simile a una saggia pacatezza; Camillo, invece, resta lì, fermo sulla soglia dei trent’anni, inchiodato a quelle immagini che sono doppiamente lontane, fossili più che memorie, visibile e irraggiungibile, un segno trattenuto di vita incompiuta»21. Ecco quindi che l’immagine fissa con un automatismo implacabile proprio questa risemantizzazione del rapporto tra presente e passato nel dominio del possibile: e se a Bellocchio l’eventualità del cambiamento è preclusa e sfuma nella dimensione della memoria e del senso di colpa, il cinema – e, più in generale, ogni forma di narrazione audiovisiva – cerca invece di conquistarla con ogni mezzo. Ed è questione di lana caprina interrogarsi sulla natura dei bisogni a cui essa risponde (paradossale reazione di una società talmente ossessionata dal presente da necessitare del passato per poter comprendere i processi che la informano o esigenza psicologica di sicurezza all’interno di un mondo dove tutto svanisce nell’istante assoluto del clic?), così come è un vezzo inutilmente sprezzante quello di suonare la grancassa contro una presunta assenza di creatività e originalità (per giunta, termini passepartout spesso privi di qualsivoglia orizzonte definitorio): quello che conta più di tutto, forse, è certificare come il cinema abbia preso atto della crisi del suo immaginario ormai secolarizzato (e forse lo ha capito più di tutti Sokurov, con i suoi ultimi Francofonia [id., 2015] e Fairytalem – Una fiaba [Skazka, 2022]) e, per porvi rimedio, non possa far altro che guardare indietro. Alla sua storia e al suo passato.
Marx può aspettare
NOTE
1. Tutte le citazioni sono tratte da E. Jünger, M. Heidegger, Oltre la linea, Adelphi eBook, Milano, 2020
2. F Volpi, introduzione a E. Jünger, M. Heidegger, Oltre la linea, Adelphi eBook, Milano, 2020
3. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997
4. cfr. G. Jervis , introduzione a H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino, 2001
5. F. Ballero, L’estetica cinematografica del remake. Il declino della creatività, Aracne, Roma, 2010
6. Ibidem
7. rimandiamo comunque alla lettura del nostro speciale sul cinema hitchcockiano di Brian De Palma: https://specchioscuro.it/il-cinema-hitchcockiano-di-brian-de-palma/
8. M.-J. Mondzain, Il commercio degli sguardi, Edizioni Medusa, Milano, 2011
9. L. Manovich, L’estetica dell’intelligenza artificiale. Modelli digitali e analitica culturale, Luca Sossella Editore, Roma, 2020
10. D. DeLillo, Il silenzio, Einaudi, Torino, 2021
11. P.P. Pasolini, La religione del mio tempo, Garzanti, Milano, 1961
12. per comodità ricorriamo a questa traslitterazione, essendo la più conosciuta a dispetto di quella più corretta, ovvero Sergej Lozniča.
13. M. Calvesi e A. Boatto, Pop Art. Art Dossier N° 36, Giunti Editore, Firenze, 1997
14. cfr. A. Bioy Casares, L’invenzione di Morel, Edizioni SUR, 2017
Come scrive Federica Lazzaro nella postfazione:«L’unica possibile immortalità garantita dalla macchina, nel romanzo di Bioy, è la ripetizione delle scene registrate, come in un film proiettato all’infinito e interrotto dagli intervalli provocati dalla bassa marea: il paesaggio diventa scenario, la colonna sonora è garantita da un fragoroso fonografo che suona sempre le stesse canzoni, gli intrusi sono personaggi che recitano sé stessi. Alla fine, penetrato il segreto della ciclica «proiezione», il protagonista otterrà di andare anche lui in scena, facendosi riprendere dalla macchina accanto a Faustine e realizzando una sorta di postproduzione che gli permette di strappare a Morel il ruolo di autore e regista dello spettacolo.
Viene così ripristinato un cinema «totale» dove non esistono spettatori ma solo attori, simulacri che prescindono da ogni supporto tangibile e non si presentano più come copie, ma come nuovi, ambigui originali. In fondo la macchina è, come il cinema, uno strumento per raccontare storie e un archivio eterno, un deposito dove c’è sempre spazio per nuovi morti. Sedotto e divorato dalle immagini, il protagonista si arrende a esse e diventa anche lui un simulacro, speranzoso, come Kris Kelvin nel Solaris di Stanisław Lem (un altro ricettacolo di repliche convincenti,“ricavate dalla mente degli astronauti terrestri), nel fatto che “il tempo dei miracoli crudeli non sia finito”.
L’unico miracolo possibile sarebbe, è chiaro, la costruzione di una nuova macchina ispirata e suggerita dall’eventuale ritrovamento del diario, perché solo un lettore del manoscritto potrebbe dare un senso al sacrificio dell’innamorato di Faustine e tentare di esaudirne il desiderio. Accanto all’invenzione di Morel, ecco apparire allora un’altra «macchina» eterna, la scrittura, che tramanda la memoria attraverso un testo definito di volta in volta diario, relazione, memoriale, e che, come in un gioco di scatole cinesi, ne contiene altri che aggiungono nuovi punti di vista: le puntualizzazioni a piè di pagina di un curatore scettico e pignolo, i fogli rubati a Morel»
15. Ibidem
16. F. Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, Feltrinelli, Milano, 2011
17. Si pone pertanto come inevitabile il confronto con un modello del passato (ovviamente da riscrivere): la trilogia dei film dedicata alla principessa Sissi interpretata da Romy Schneider
18. Come scritto su queste pagine: «Il mito, in Twin Peaks, si posiziona fuori dal tempo, scardina l’ordine della simultaneità, s’innesta in un divenire assoluto che è contemporaneamente principio e fine (l’ultima battuta, non a caso, è:«What year is this?»). Il mito diventa compiutamente una forma di apertura all’infinita riscrittura (tornando indietro nel tempo, Cooper cancella la scena originaria da cui si è edificato l’intera architettura mitologica della serie: l’omicidio di Laura Palmer) e, contestualmente, pura potenza immaginaria (a quanti Twin Peaks possibili apre il finale?).»
in A. Libera, Parlar per miti: breve viaggio tra Star Wars, Mad Men e Twin Peaks, Lo Specchio Scuro – Rivista di cinema e altre arti audiovisive, 6 dicembre 2017: https://specchioscuro.it/parlar-per-miti-breve-viaggio-tra-star-wars-mad-men-e-twin-peaks/
19. P. Mereghetti, Il Mereghetti – Dizionario dei film. Edizione del trentennale 1993- 2023, Baldini+Castoldi, Milano, 2020
20. Ibidem
21 L. Malavasi, La storia gemella. Prospettive parallele in Nuova Serie Cineforum. Rivista trimestrale di cultura cinematografica, settembre 2022