Les garçons sauvages [id., 2017] è un film fuori dal tempo. Il primo lungometraggio del regista francese Bertrand Mandico, già autore di numerosi cortometraggi di indubbio valore, si presenta difatti come un’opera estranea a schemi e tendenze di molto cinema contemporaneo indipendente. Ed è forse proprio questa la peculiarità che maggiormente colpisce nella visione del film – presentato quest’anno alla Settimana Internazionale della Critica del Festival di Venezia. L’autore di Living Still Life [id., 2012] infatti, piuttosto che ripiegare su di un minimalismo più consono alle piccole produzioni, tenta un’impresa davvero coraggiosa: realizza un film fantastico, girato in luoghi reali, utilizzando la pellicola 16 mm e riducendo al minimo gli interventi di post-produzione. Mandico insegue dunque un’idea di cinema quasi naïf, a fronte dei costi e dei sacrifici che la stessa può richiedere. Dichiara Mandico in un’intervista: «Volevo provare a fare un film marittimo, con scene di tempesta, scene ambientate in una giungla con dei ragazzi. Scene difficili da filmare nell’ambito di un cinema d’autore che non è troppo fortunato, perché a basso budget. È il tipo di riprese che si può trovare nella grande produzione americana. Ma mi piaceva molto l’idea di riuscire a farcela.»1 Ogni fotogramma di Les garçons sauvages esprime questa precisa idea artigianale di cinema. Utopistica, forse, eppure incredibilmente viva e pulsante.

Il film, il cui titolo ricalca letteralmente quello di un noto romanzo fantastico di William S. Burroughs – I ragazzi selvaggi –, è invero un crocevia di suggestioni letterarie e cinematografiche. Non si tratta difatti di una semplice riduzione del classico burroughsiano. Piuttosto, in Les garçons sauvages convergono tutte quelle passioni ed ossessioni che affollano la mente di un regista cinéphilie quale è Bertrand Mandico. Basta scorrere le varie interviste rilasciate dall’autore, relative alle influenze che hanno plasmato il film, per trovarsi davanti ad una vera e propria pletora di nomi e di titoli, spesso e volentieri distanti fra loro: Walerian Borowczyk, Jules Verne, Kōji Wakamatsu, Jean Genet, Josef von Sternberg, Querelle de Brest [id., 1982], L’isola della anime perdute [Island of Lost Souls, 1932], Jean Cocteau, Kenneth Anger, Lautréamont, Giovani prede [Mikres Afrodites, 1963], Jean Vigo, Il signore delle mosche, Seijun Suzuki, Il profondo desiderio degli dei [Kamigami no fukaki yokubo, 1968], e via dicendo.2

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les garcons sauvages - mod 2Alcuni esempi dell’universo barocco e citazionista di Les garçons sauvages. L’uso del colore può essere ricondotto al cinema sperimentale di Shūji Terayama (ad esempio, Pastoral: To Die in the Country [Den-en ni shisu, 1974]). Così come possiamo ritrovare riferimenti alle opere underground di Kenneth Anger, ad esempio Scorpio Rising [id., 1969] o Lucifer Rising [i.d, 1973]. Nella figura del capitano impalato sulla spiaggia, poi, possiamo intravvedere un macabro omaggio alla testa di maiale ne Il signore delle mosche [Lord of the Flies, 1963] di Peter Brook, adattamento dell’omonimo romanzo di William Golding.

Ne deriva un’opera letteralmente caleidoscopica; suggestiva ed onirica. Quasi un sogno surrealista, come avrebbe potuto esserlo, anni fa, il cinema del sempre troppo spesso dimenticato Raoul Ruiz3. Un film d’avventura stevensoniano, sulle orme del sublime Lang de Il covo dei contrabbandieri [Moonfleet, 1955], che, col passare dei minuti, si rivela un viaggio nell’impossibile, nel meraviglioso e nel mostruoso. Nell’esotico e nell’erotico. Nel film, un gruppo di ragazzini indisciplinati, reo di una violenza sessuale di gruppo nei confronti della propria insegnante, viene assegnato alle direttive di un dittatoriale capitano di nave, l’Olandese, un uomo dal passato misterioso. Insofferenti alla rigida disciplina imposta dal capitano, i cinque ragazzi tentano inutilmente un ammutinamento. Approderanno su di un’isola misteriosa: un luogo fantastico in cui crescono piante “sessuate” e succulenti frutti pelosi. L’isola, però, avrà una strana influenza sui ragazzi, i quali subiranno una mutazione fisica, diventando donne.

les garcons sauvages - 6L’isola sembra provenire da un immaginario puramente “cinematografico”. Riporta la nostra mente a quella del King Kong [id., 1933] di Cooper e Schoedsack, oppure all’Isola delle anime perdute di Erle C. Kenton.

Allucinazioni e illusioni

«Gran parte dei film sono una fantasia che l’autore tenta di far apparire reale. […] Nell’attesa, ho cercato di ottenere l’illusione drammatica […] al contrario, dando a una realtà esistente i caratteri più generali della finzione. Ho cercato di far apparire la verità, favolosa.»4 È con queste parole che il regista Jean Epstein descriveva il proprio gesto artistico, sviluppato in contrapposizione alla ricerca di verosimiglianza avviata dal cinema americano in quegli stessi anni. Partire dalla verità per renderla fantastica era, difatti, una delle prerogative del suo cinema, che si serviva di mezzi propriamente filmici per trasfigurare il reale nel meraviglioso. Il film, nelle mani del regista de Lo specchio a tre facce [La glace à trois faces, 1927], diventava un vero e proprio sogno, non tanto – o non solo – per quello che rappresentava, ma anche per come lo rappresentava.
Ebbene, fin dalle prime immagini, Les garçons sauvages mette in scena una lunga ed articolata “allucinazione cinematografica” che insegue un’idea di meraviglioso non troppo distante da quella descritta da Epstein nei suoi scritti. Nel film, infatti, elementi reali (le locations, per esempio) si scontrano spesso e volentieri con altri di fantasia, trovando l’ideale sintesi in una mise en scène che li fa convergere filmicamente.
Prendiamo l’incipit, girato come buona parte del film in bianco e nero. Su di una spiaggia, in primo piano, scorgiamo la silhouette di una bottiglia; in profondità di campo, quella di un ragazzo. Una voce over ci introduce alla storia – che si configura, dunque, in qualità di racconto, di storia nella storia. Al pestaggio del ragazzo (Tanguy) segue l’apparizione di un mostro (Trevor?) che sembra provenire dall’immaginario bestiario borgesiano de Il libro degli esseri immaginari. Segue un flashback, contraddistinto da colori irreali – in contrasto al bianco e nero5 –, illuminazioni espressioniste e dissolvenze incrociate.

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Se escludiamo il mostro incontrato sulla spiaggia da Tanguy (essere chimerico che fa parte del coté barocco che caratterizza il film), l’incipit utilizza espedienti filmici particolarmente eccentrici e demodé per condurci in un’atmosfera sognante e allucinata. Soluzioni linguistiche, queste, che si moltiplicheranno col procedere dei minuti. Soggettive esasperate, riprese decentrate, plongée e contre-plongée, sovrimpressioni, ralenti, dissolvenze incrociate, colori irreali e filtri – oltreché il formato stesso stesso dello schermo scelto da Mandico6 – destabilizzano continuamente l’occhio dello spettatore, creando un universo visivo letteralmente onirico e citazionista.

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les garcons sauvages - 13Alcuni esempi di riprese eccentriche e oniriche nel film.

In fondo, la ricerca compiuta sull’immagine da Bertrand Mandico in Les garçons sauvages non è troppo distante da quella intrapresa da un maestro dello sperimentalismo contemporaneo come Guy Maddin. Ma è bene specificare. In entrambi i casi, infatti, non si tratta di una ricerca meramente archeologica: piuttosto, come scrive Andrea Termini in riferimento al recente capolavoro The Forbidden Room [id., Guy Maddin, Evan Johnson, 2015], il loro cinema «guarda al passato in cerca del futuro»7. Con una differenza. Se il trasformismo «magico» dell’immagine, in Maddin, investe lo statuto ontologico della stessa8, in Les garçons sauvages questa caratteristica si lega indissolubilmente con uno snodo essenziale del film: il trasformismo organico dei corpi.

 Corpi instabili nell’isola dell’amore

Dopo molto garrir conchiuso fue,
per por silentio al lor ridicol piato,
che dicesse ciascun le ragion sue
ad un, che maschio, e femina era stato.
Fu femina una volta, e maschio due,
un’ huom, ch’era Tiresia nominato,
e spesso hor donna, hor huom gustati havea
i frutti del figliuol di Citherea.
– Publio Ovidio Nasone, Le Metamorfosi, Libro III.9

Fin dai primi cortometraggi, il cinema di Bertrand Mandico stringe un interesse esclusivo nei confronti del corpo e delle sue possibili rappresentazioni. Basti pensare ad un film come Prehistoric Cabaret [id., 2014], ambientato in un bordello genetiano caratterizzato da riprese di organi interni e dettagli fisici.
Come nota acutamente Henri de Corinth10, nei suoi film il corpo ha una presenza prettamente «oggettuale». Può essere (ri)animato, come accade in Living Still Life – e dunque sottoposto ad un processo simile a quello del cinema di animazione –, oppure mutato cronenberghianamente, inglobando in sé elementi extra-umani (pensiamo, ad esempio, alla pistola contenuta nel ventre, in Les garçons sauvages). Esso è sì materia fisica, ma altamente instabile. Lo stesso discorso vale per oggetti, décor, piante e animali che vediamo nei suoi film. La vegetazione dell’isola in cui sbarcano i cinque “ragazzi selvaggi”, ad esempio, è dotata di caratteristiche proprie dell’umano (uno di loro ha addirittura un rapporto sessuale con una distesa di muschio e licheni che replicano la fisionomia femminile). Il corpo, dunque, diviene oggetto, e viceversa. L’isola stessa è dotata di una sessualità non dissimile a quella di un essere umano. Viene allora in mente quanto diceva Raoul Ruiz in proposito ad un suo film, incredibilmente vicino a Les garçons sauvages, Territory [id., 1981]: «Nel mio film ho giocato a trasfigurare un paesaggio che, a poco a poco, diventa il protagonista del film, il mostro, la bestia.»11

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Sempre Corinth nota12 come sia probabilmente Walerian Borowczyk – autore di opere erotico-surreali quali La bestia [La Bête, 1975] e I racconti immorali [Contes immoraux, 1974] – il regista più vicino a Mandico nella rappresentazione del corpo instabile ed erotico. Corpo, vorremmo aggiungere, che trova la propria ideale continuazione sensuale nell’ambiente che lo circonda. Borowczyk, regista al quale Mandico ha dedicato il corto Boro in the Box [id., 2012], ha difatti un rapporto con la materia erotica propria dell’animatore13. Scrive Valerio Caprara: «(…) la mentalità da bricoleur di Boro – attiva come sappiamo sin dal periodo dei disegni animati – non concepisce il turgore sessuale né come ripetizione iperrealista, né come lusso fotografico: erotismo della mente e dell’occhio, il furore “eccedente” del regista ha bisogno del contatto continuo col décor, con l’accessorio, con lo strumento, col segnale-oggetto, con la materia molecolare degli ambienti.»14 D’altronde, il pan-erotismo del film di Mandico, come quello rappresentato da Borowczyk in Goto, l’isola dell’amore [Goto, l’île d’amour, 1969], investe tutto e tutti. Esso non trova possibili interruzioni tra ambienti e corpi: piuttosto, questi si compenetrano vicendevolmente. A dominare è, appunto, una instabilità che non permette mai di determinare la fisionomia definitiva di un corpo, perché esso è in continua mutazione. Il Capitano, ad esempio, possiede in sé elementi eterogenei: è dotato di un membro evidente, ma anche di un seno femminile.

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Ma è forse nella trasformazione finale dei cinque ragazzi che Les garçons sauvages mette in scena, in maniera definitiva, questo processo di mutazione ininterrotta. I falli dei ragazzi – evidenti protesi, a ribadire ancora una volta l’oggettualità del corpo – cadono a terra. I garçons, colpevoli di violenze sessuali, sono ora, loro stessi, donne alla mercé di altri uomini. «L’avenir est femme, l’avenir est sorcière», sussurra l’isola, nel silenzio della notte. Come altri prima di loro (il Capitano; la donna che vive nell’isola), hanno subìto la misteriosa forza che si insinua tra le terre di questo luogo magico. Ora sono pronti a ripartire, e a solcare i mari con una nuova identità. E come afferma uno di loro guardando in macchina, «se non saranno in grado di divenire davvero donne, allora saranno capitani.»


NOTE

1. A. Aniballi, R. Meale, Intervista a Bertrand Mandico, http://quinlan.it/2017/09/06/intervista-bertrand-mandico/

2. Intervista a cura di V. Economou, http://cineuropa.org/it.aspx?t=interview&l=en&did=333977

3. Ci riferiamo in particolare ai due capi d’opera del maestro cileno, Le tre corone del marinaio [Le Trois couronnes du matelot, 1983] e La città dei pirati [La Ville des pirates, 1983], entrambi recensiti sul nostro sito.

4. J. Epstein, Gli accessi alla verità, in (a cura di) V. Pasquali, L’essenza del cinema. Scritti sulla settima arte, Biblioteca di Bianco & Nero, Venezia, 2002, p. 64.

5. «[…] momenti a colori del tutto improvvisi, che arrivano così a contaminare la retina dopo che questa si è abituata alle immagini in bianco e nero.», http://quinlan.it/2017/09/06/intervista-bertrand-mandico/

6. Il formato scelto da Mandico richiama altri esempi di film contemporanei che indagano sulle nuovo possibilità del visibile, come Faust [id., 2011] di Aleksandr Sokurov o Jauja [id, 2014] di Lisandro Alonso.

7. Cfr. https://specchioscuro.it/the-forbidden-room/

8. Idem.

9. Traduzione di Giovanni Andrea dell’Anguillara (1561).

10. H. de Corinth, The Intersex Object of Bertrand Mandico, https://mubi.com/notebook/posts/the-intersex-objects-of-bertrand-mandico

11. R. Ruiz, Poétique du cinéma 2, Éditions Dis Voir, Parigi, 2006, pp. 88-89, ora in (a cura di ) E. Bruno, Ruiz Faber, Minimum Fax, Roma, 2007, p. 227.

12. H. de Corinth, Op. cit.

13. Un altro regista particolarmente vicino a questo tipo di erotismo “macchinico” è Jan Švankmajer, che con il bellissimo I cospiratori del piacere [Spiklenci slasti, 1996] aveva indagato proprio la continuità tra corpi e oggetti erotici.

14. V. Caprara, Walerian Borowczyk, Il Castoro Cinema – La Nuova Italia, Firenze, 1980, p. 74.

Tutte le immagini presenti nell’articolo appartengono alla Ecce Films e sono usate nel testo al solo scopo illustrativo.