Una delle filmografie più stimolanti e ostinatamente sovversive all’interno del panorama sperimentale italiano è quella della coppia di cineasti costituita da Morgan Menegazzo e Mariachiara Pernisa.I due autori rifiutano testardamente il già visto in nome di una ricerca che punta a trasporre sullo schermo nero le infinite possibilità dello sguardo, inteso come strumento privilegiato d’indagine della realtà. Questo percorso assume nei loro film una connotazione inevitabilmente sacrale: è frequente infatti la presenza di “traghettatori” senza corpo che accompagnano lo spettatore all’interno di un viaggio che si compie all’interno del flusso continuo delle immagini. Un progetto autoriale, quello di Menegazzo e Pernisa, pervenuto alla propria maturità attraverso opere come Psicopompo , Iconòstasi e Dagadól, successivamente riuniti in unico lavoro dal titolo Le porte regali.
Partiamo dalla domanda che genera il tutto. Perché il cinema?
Morgan
Perché la vita?
Tutti iniziamo – i più fortunati – con un pennarello e un muro bianco ai danni di mamma e papà. L’impossibilità di essere allo stesso il pennarello e il muro bianco – l’osservatore e l’osservato, la creazione e il demiurgo – ci terrorizza. Così, il cinema ci viene in soccorso con la sua molteplicità di vite.
Mariachiara
Il Cinema perché emula la vita attraverso l’uso simultaneo di immagine, suono e tempo. Princìpi chiave della nostra percezione. Alla frequenza di 24/25 fotogrammi al secondo l’immagine si mostra e si nega, similmente alla vita, in cui ogni cosa appare e svanisce.
Ma è davvero una scelta personale o, a conti fatti, è l’unica scelta possibile per poter dire veramente qualcosa nell’ambito della nostra contemporaneità?
Morgan
Dovrebbe nascere da uno stato di necessità impellente che cerchiamo di nutrire e tutelare soprattutto con l’assenza. Purtroppo gli anni e il lavoro come mera sussistenza, sviliscono l’ingenuità e trasformano spesso le cose amabili in orribili abitudini a cui si crede di non poter rinunciare. L’immagine in movimento è tra queste. La contemporaneità è un tripudio di strumenti, utilizziamo il telefonino e la ruota allo stesso tempo, ma ci scordiamo della seconda perché luccica di meno. Abbiamo sostituito la politica con la tecnica e rinunciato alla libertà per qualche comodità. È davvero l’unica scelta possibile?
Mariachiara
Tale esigenza nasce da un moto interiore che non lascia scampo. Si tratta soprattutto di un gioco di rimandi tra l’elemento immagine e l’eventuale: per me il mondo oggettivo ha ben poco di concreto, è esso stesso un’apparizione sfuggente con la quale interagire. Il cinema mi permette dunque di ricalcare alcuni aspetti della creazione, scostandomi da una contemporaneità ingurgitata e priva di contemplazione dove le immagini hanno perso il proprio potere psicopompo, così come la musica. Siamo talmente invasi da suoni e immagini-merce da non riuscire più a utilizzare questi strumenti verso altre dimensioni, se non quella più specificatamente sensoriale. La loro saturazione ha portato a una totale banalizzazione, civile e morale. Il tentativo che facciamo, attraverso le nostre opere, é quello di recuperare una certa sacralità dell’immagine, una purezza percettiva in grado di disconoscerci. Naturalmente non abbiamo la pretesa di riuscirci, ma il tentativo diventa l’unica via di scampo allo sfacelo interiore.
La prima inquadratura presente in Psicopompo (2015) ritrae la nuca di una ragazza senza messa a fuoco
Nel vostro cinema da un lato la possibilità dello sguardo è assolutamente centrale, penso a un film come Dagadòl, ma anche Iconostasi, dove l’occhio umano è portato a relazionarsi direttamente con la luce. Sembra quasi di trovarsi ad opere in cui lo spettatore è quasi una figura inessenziale. Il ruolo del pubblico risulta limitante in relazione al vostro modo di concepire il cinema?
Morgan
Bisognerebbe chiederlo al pubblico. Inizialmente, siamo tra loro, ma non abbiamo ancora la capacità critica di scinderci a film ultimato. L’aspetto del pubblico è certamente secondario, un limite che indossiamo malvolentieri e che viene considerato strutturalmente perlopiù in relazione ai nostri lavori di carattere documentaristico, dove la presenza della parola è più connaturata a inficiare la portata esoterica dell’immagine. In ogni caso, porsi il limite del pubblico, genuflessi anche dall’esigenza produttiva di un film, può essere un modo stimolante per cercare di aggirarlo.
Un’immagine tratta da Dagadòl (2017) ritrae un cinema abbandonato con le sedie divelte dal terreno e coperte di polvere
A proposito di portata esoterica, e sempre trattando il tema del rapporto tra artisti e fruitori, voi avete più volte sottolineato che l’esoterismo nei vostri lavori è una componente più che primaria, un po’ come lo era per Grotowski per quanto riguarda il ruolo dell’attore, se vogliamo. Quanto è importante per voi questa dimensione di accompagnamento spirituale?
Morgan
Non so dirti se si tratti o meno di dimensione spirituale, penso sia qualcosa di più legato alla ritualità e all’esperienza alterata di coscienza che dovrebbe derivare dalla relazione filmica e che manca fortemente nel nostro contemporaneo, se non come prassi dello sballo. Il Cinema, se fossimo più audacemente consapevoli della nostra ignoranza, potrebbe essere lo strumento principe di ogni piccolo sacerdote e della sua cerchia di adepti. Tuttavia il suo potere curativo è stato pressoché annullato dallo scientismo, per vendere qualche scatola di popcorn in più.
Mariachiara
La creazione delle nostre opere ha solo parzialmente a che fare con noi. Nasce da un sentimento, da un moto, da un intento sempre aperto a una quinta mano, quella dell’invisibile, che prettamente s’incarna nel medium cinematografico.
Con Psicopompo, Iconostasi e Dagadòl avete costituito un’ideale trilogia che è poi diventata un unico film, Le porte regali. Queste tre figure fungono da accompagnatori in un mondo altro, in un cinema diverso, diverso perché nasce da voi e torna a voi, ma anche perché premette una necessaria distruzione di ciò che c’era prima. Dove si arriva per voi alla fine?
Morgan
Non saprei, non c’è mai una fine nei nostri lavori, o meglio un termine ultimo dichiarato. È sempre un nuovo inizio che prosegue in forma circolare sino alla trasformazione dello sguardo. L’idea di proiettare Iconostasi–Psicopompo–Dagadòl in un unico film è stata suggerita da Adriano Aprà per FuoriNorma, prima la trilogia era solo ideale e avrebbe dovuto esprimersi in un percorso installativo esperienziale, che per mancanza di fondi, purtroppo, non abbiamo portato a termine.
Mariachiara
Per me non c’è una fine a cui giungere. Come dicevo prima, si tratta di un gioco di specchi, di rimandi che fluiscono continuamente. Ogni costruzione emerge da una precedente distruzione e finirà per essere a sua volta distrutta, lasciando spazio al germe di una nuova idea, a uno sguardo altro.
Un’immagine tratta da Iconostasi (2015), uno dei tre traghettatori che andranno in seguito a comporre Le porte regali. L’iconostasi richiama il tramezzo dipinto munito di tre porte presente nella chiese della tradizione ortodossa.
Qual è questo mondo altro, questo altro cinema che ci aspetta dall’altra parte del fiume?
Morgan
Dall’altra parte del fiume si trovano i fondi o, miracolosamente, il cinema totale di Barjavel privo della coercizione tecnica, infuso in coscienza tramite la sola protesi dello sguardo.
Mariachiara
Non voglio sapere cosa ci sia al di là del fiume, preferisco intravederlo e immaginarlo cercando di edificare ponti.
Ormai l’audiovisivo è, per lo meno nei canali più diffusi, anche se con importanti eccezioni, di natura prettamente digitale. Come vi relazionate con questo supporto che avete anche utilizzato nella trilogia, mischiandolo con la pellicola? L’idea che l’immagine sia chirurgicamente nitida vi disturba o può essere per voi fonte di una riflessione sul linguaggio?
Morgan
Il digitale non ha ancora una sua personalità distinta, è nato da poco ed è quasi sempre stato utilizzato come mero sostitutivo della pellicola. Ci sono diversi aspetti del digitale a cui siamo interessati, anche solo come incauta riflessione sul mezzo. In particolare ci attrae l’immaterialità e l’ubiquità del supporto. Di certo è sempre più arduo elaborare una differenziazione netta tra pellicola e digitale, visto che la fruizione della pellicola avviene quasi totalmente tramite dispositivi digitali.
Mariachiara
Il supporto é un semplice mezzo a servizio di un’idea, la reale differenza sta nel suo utilizzo. Trovo che la ricerca nel digitale di una sempre più chirurgica definizione dei dettagli – 4k, 8k – sia pura pornografia, un modo per denudare l’immagine tentando di possederla. Ma l’immagine non può essere posseduta, va solo evocata, poiché sfugge ad ogni controllo. E in questa epoca di consumi, dove l’uomo possiede per divenire, anche l’immagine subisce questo trattamento, questa riduzione a merce. Reificandosi, diventa l’aberrazione di se stessa, un feticcio.
Cosa ne pensate del termine videoarte? Esiste la videoarte o è solo un modo per ghettizzare un cinema differente?
Morgan
Esistono sigle ed etichette per ogni prodotto e per ogni esigenza di critico. Chiunque scriva d’arte o di cinema vorrebbe trovare un suo filone d’oro per cui essere ricompensato. Già la catalogazione dei film in lunghi e corti la trovo aberrante – Il tuo quanto misura? – Un quadro di Velásquez è meglio di uno di Rothko perché è più piccolo e sta meglio in salotto? Un libro di Čechov rispetto a uno di Tolstoj avrebbe meno da dire solo perché non ha lo stesso numero di pagine?
Mariachiara
Credo che per ogni cosa l’uomo cerchi una definizione, un termine in grado di confezionarne la linfa vitale per renderla prodotto. Videoarte in questo senso sembra una parola atta a giustificare un’indagine dell’immagine in movimento per fini non di intrattenimento. Questa sorta di affronto, di tradimento, fa rabbrividire la maggior parte delle persone che accettano malvolentieri l’idea di non sentirsi intrattenute. Se qualcuno però accompagna l’affronto alla parola “videoarte”, si sentono subitaneamente più sollevati e meglio disposti a subirne la tortura. Una definizione quindi, funzionale ad addolcire un boccone amaro.
La descrizione di un vostro lavoro del 2015, Rothkonite, recita così: “Rothkonite tenta di eliminare ogni memoria configurata e ogni ostacolo concettuale senza memoria e senza riferimento a un’ulteriore realtà. Solo immagini ipnagogiche che fluttuano nell’oscurità degli occhi chiusi. Luce dal nero, come gli ultimi dipinti dell’artista Mark Rothko: esaurire il gesto pittorico, per lasciare spazio alla dissoluzione iconica. Spingendo noi stessi verso ciò che è vero, verso l’eccezione, trascurando ciò che è possibile. Rothkonite si rivela anche un errore, un insetto filmico, un errore che non viene eluso né respinto, ma affrontato, analizzato e scrutato in tutti i suoi aspetti. L’errore quindi non è più un errore, né è oscurità, e l’errore diventa l’unica scelta possibile.” Lo stesso può dirsi del vostro cinema?
Morgan
Davvero l’abbiamo scritto noi? È sicuramente un errore.
Mariachiara
L’errore è una fuga dal confezionamento, da ciò che si vuole rendere controllabile e ben circoscritto. In questo senso esplica un ruolo salvifico in una società in cui vige la dittatura della ragione, dove anche la ribellione viene impacchettata e messa in vendita come merchandising. Per questo noi partiamo dall’errore: esso implica movimento, instabilità, sintomo estemporaneo della nostra apparizione. Nell’errore luccica la possibilità di fuga dall’ordinario, dallo stile, dalla regola, verso qualcosa di momentaneamente inimmaginabile, sfuggevole e irrazionale.
Un’immagine tratta da Rothkonithe (2015)
Un dipinto di Mark Rothko, Untitled (1956)
Quali sono i vostri progetti per il futuro?
Morgan e Mariachiara
Solitamente ci occupiamo di più progetti allo stesso tempo, girandoli e accantonandoli per sostanziali periodi a seconda delle fasi di produzione. Tra questi, un’opera su una spedizione norvegese in Antartide, un documentario sui prigionieri politici degli anni di piombo in collaborazione con EneceFilm e un documentario a più mani sugli sciamani ereditari in Siberia. Prossimamente, tra aprile e maggio, è in programma una personale al Muvig, museo virtuale del Garofalo, a cura della ricercatrice mediale Alessandra Chiarini.