Possiamo definire le immagini dei film della regista Anna Marziano come “immagini del limitare”, fatte di inquadrature fisse di orizzonti che esprimono la visione di un’umanità marginalizzata. Gilles Deleuze in Che cosa è un corpo scrive: «Il margine del bosco è un limite. […] Non avendo più la possibilità di mettere radici o d’espandersi, la foresta si dirada. La foresta non finisce. Il margine della foresta tende verso un limite. […] Il margine della foresta non è un perimetro, ma l’espressione di una determinata potenza, la sua capacità di espandersi, di allargarsi, fin dove è in grado di giungere, di estendersi.» E allo stesso modo si muove la Marziano lungo due direttive: dal punto di vista stilistico, l’immagine si sposa con le parole (spesso fuoricampo) che strabordano dalla stessa. Dal punto di vista contenutistico, l’individuo raccontato nei suoi lavori – da Della mutevolezza di tutte le cose e della possibilità di cambiarne alcune (2011) a Al di là dell’uno (2017) –, ricerca la trasformazione e la rinascita, reinventandosi sia come corpo etico che come corpo socio-politico, andando al di là della sua unità.

In sostanza, l’attività artistica della Marziano può essere ricondotta ad un fondamentale binomio tematico “politica-poetica”, che il titolo di un importante lavoro del 2005 di Francis Alÿs spiega perfettamente: “Sometimes doing something poetic can become political and sometimes doing something political can become poetic. Una tematica attorno alla quale il cinema della Marziano si muove in continua evoluzione e insoddisfazione.


1) Per cominciare, come nasce il tuo interesse per il cinema e l’audiovisivo?

C’è stato l’incontro con alcuni film al liceo attraverso i quali potevo vivere il piacere del pensiero e in cui la vita sembrava addensarsi… Alcuni film, come alcuni libri, come alcuni incontri, mi hanno un po’ salvata. E così a mia volta faccio film, con curiosità e gratitudine.
Al liceo trascorrevo molto tempo a leggere e mio padre mi aveva insegnato la tecnica della fotografia e dello sviluppo. Quando andavo in giro portavo con me un libro e la macchina fotografica. Il cinema mi ha permesso di avere a che fare con queste due cose a cui ero molto appassionata e che cercavo di mettere assieme – le parole e le immagini – nell’attraversare il mondo.
Oltretutto fare film permette di coniugare periodi di grande apertura e periodi ursini di riflessione.

2) Mi piacerebbe che ci raccontassi della tua esperienza presso gli Atheliers Varan, durante la quale hai realizzato il tuo lavoro La veglia (2010).

Gli Ateliers Varan sono stati molto significativi perché mi sono finalmente autorizzata a fare… e non contro tutto un sistema (come mi pareva di dover fare nei miei anni precedenti a Roma) ma con l’ascolto, il nutrimento e il sostegno di un ambiente e dei formatori (Marie-Claude Treilhou e Yves De Perretti) che mi hanno aiutata a partorire il mio primo film-esercizio “Mainstream” e a cui sono molto grata. Loro mi hanno mostrato alcuni lavori di Agnès Varda, Johan Van der Keuken, Artavazd Pelešjan, oltre a vari esempi di quel che in Francia chiamavano il documentario di creazione insomma.
I Varan si concentrano sull’etica dello sguardo e delle relazioni, a cui sempre torno e che mi ha influenzata anche rispetto al fatto di avere una mia propria camera e utilizzare mezzi di ripresa frugali, nonostante avessi alle spalle una formazione da D.O.P. al Centro Sperimentale.
Yves e Marie-Claude mi hanno poi consigliato di proseguire con gli studi al Fresnoy – Studio National che è stato in effetti un enorme sostegno per poter continuare a realizzare i miei lavori con più tempo e mezzi.
La veglia l’ho realizzato indipendentemente durante un periodo a Berlino, subito dopo la fine dei Varan, usando una Super8 malridotta… Ho inviato il film al Torino Film Festival senza nessuna speranza e invece son stata sorpresa e felice quando i selezionatori (Davide Oberto) l’hanno notata e mostrata al TFF.
I Varan e il TIFF son stati d’enorme sostegno e incoraggiamento e significano molto per me.

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Mainstream (2009): la regista documenta il lavoro dell’artista romeno Dan Perjovischi, caratterizzato da una pungente ironia che connota i suoi epigrammi e disegni fumettistici.

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La veglia (2010)

3) Perché la sperimentazione è per te così importante?

Forse perché mi pare coerente a quel che si può far con l’esistenza: non tanto un percorso rettilineo quanto un andare andando. Sono stata ispirata da persone la cui grandezza è contraddittoria, asimmetrica, e la cui incredibile carica vitale è quella di un seme non quella di una cattedrale, pur nel loro rigore e nella determinazione. Così, mi pare ci si possa saggiare, si possa stare all’ascolto di sé e degli altri… e per farlo bisogna mantenersi sufficientemente osmotici alle circostanze, per non impossibilitare una reale presenza propria e degli altri.

4) Quali sono le tue principali influenze artistiche?

Sono così frastagliate e molteplici che non saprei bene tracciarle. Probabilmente degli scrittori nelle cui opere il pensiero e la poesia si intrecciano… e i cui testi attraversano le forme della letteratura e della filosofia. Nell’infanzia i miti greci, nell’adolescenza gli scritti di Nietzsche, molta poesia, i testi di Henri Michaux, a vent’anni alcuni film di Jean Rouch, di Jean-Luc Godard. Ai Varan, Johan Van der Keuken, Agnès Varda, Artavazd Pelešjan. Al Fresnoy, i film di Jean-Daniel Pollet, gli scritti di Deleuze e Guattari, Gregory Bateson, varie riflessioni sull’arte partecipativa e relazionale, mi sono concentrata sulle installazioni sonore e sul lavoro con lo spazio pubblico…
Successivamente un’importante quanto breve tappa in Nord America mi ha avvicinata a vari filmmaker d’avanguardia… per cui mi sono autorizzata in seguito ad aprire un aspetto più prettamente estetico che nei lavori precedenti cercavo solo di contrastare e minimizzare il più possibile.
Eppoi la musica di vari compositori remoti e contemporanei, per i colori e la dinamica dei brani, per la struttura delle loro opere.Giusto un abbozzo di risposta alla sua domanda… molto incompleto!

5) In Della mutevolezza di tutte le cose e della possibilità di cambiarne alcune (2011), in cui si parla/denuncia della condizione di adattamento a cui gli abruzzesi sono stati costretti a causa del terremoto che ha colpito L’Aquila, le macerie sono un elemento davvero importante, a mio parere. Si tratta di un elemento che può essere trattato sia da un punto di vista stilistico sia da un punto di vista socio-politico. Nel primo caso, macerie come nostalgia per supporti tradizionali come la pellicola: esemplificativo l’inserto di Una settimana [One Week, 1920] di Buster Keaton. A questo proposito, vorrei sapere qual è il tuo rapporto con le tecnologie del passato…

Detto che le tecnologie dovrebbero essere per gli uomini e non gli uomini per le tecnologie – per cui vediamo effetti deleteri, non solo in ambito cinematografico – devo ammettere che il mio rapporto con la pellicola è principalmente intimo. Se non sentissi questa intimità con la pellicola non ci girei. Questo lo dico perché per me non c’è niente di nostalgico a girare in pellicola, il mio contatto è diretto e son forse son più io ad esser “fuori tempo”… che non le tecnologie che mi accompagnano.
Poi il fatto di usare macchine scassate è perché realizzo delle produzioni davvero indipendenti per non dire randagie. E quindi non è che ci si possa permettere di più. Accolgo e incorporo le imperfezioni e gli effetti fortuiti connessi a queste camere, piuttosto che modificare nettamente forme e minutaggi dei miei lavori per ricevere maggiori finanziamenti o visibilità, ma è certo una strada non facile.
In sintesi, trovo necessario riflettere sulla sostenibilità delle produzioni audiovisive e questo non viene fatto abbastanza. Jean Rouch insegna come il lato creativo, il processo e la produzione sono un tutt’uno e come vadano elaborati congiuntamente.
Come vede, per me non si tratta di un purismo analogico. Mi piace la pellicola perché mi permette di lavorare con la densità… apprezzo il digitale perché mi permette di lavorare con la fluidità. E’ chiaro che ogni film e ogni inquadratura hanno bisogno di ciò di cui hanno bisogno nel loro specifico.
Certo sarebbe sciocco pensare di poter fare un buon film solo perché si gira con una camera digitale a non so che altissima risoluzione… così come sarebbe sciocco pensare di fare un buon film solo perché lo si gira con una “tecnologia del passato”.

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Della mutevolezza di tutte le cose e della possibilità di cambiarne alcune (2011)

6) …Nel secondo caso, macerie come possibilità di rinascita e trasformazione, accezione questa a cui è strettamente connessa la transitorietà del corpo sociale, tema a cui tu tieni particolarmente. Ci sono degli studi sulla base dei quali hai corroborato questo tuo pensiero?  

Si trattava della trasformazione, del cambiamento nel suo carattere insieme passivo e attivo… Da un lato, l’accettazione di esporsi al dolore del cambiamento nel senso più esistenziale (ad es. la fine di un periodo della vita o la trasformazione radicale di un gruppo o di una cultura)… e dall’altro, il divenire agenti attivi di cambiamento in quel che resta di nostra responsabilità, ovvero la reinvenzione di etiche e politiche. Questo sguardo che si slancia sull’abisso del divenire delle identità singolari e dei gruppi sociali, molto forte in Deleuze come in altri pensatori, ritorna senza scampo in tutti i miei lavori mi sa… e cerco di renderlo il più nutriente, amorevole e immanente possibile.  

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Della mutevolezza di tutte le cose e della possibilità di cambiarne alcune (2011)

7) Vorrei che ci soffermassimo un momento sul valore che ha per te lo spazio del fuoricampo, che nei tuoi lavori mi sembra essere una componente di preponderante importanza…

Dal punto di vista visivo, non voglio fuorviare lo spettatore nell’incontro con le persone che partecipano al film. Le loro voci, i lori pensieri e i loro corpi sono rispettosi della loro complessità se presentati per frammenti. Non voglio costruire un quadro monolitico, esaustivo e frontale di una persona, di una situazione. Penso venga soprattutto da questa preoccupazione quello che tu individui come un’attenzione verso il fuori campo. È correlato a un rispetto verso chi partecipa al film e a una ricerca di autenticità verso l’ambiguità e la complessità dell’esistenza.
Eppoi mostrare il microfono in Al di là dell’uno, farmi chiamare per nome in Orizzonti è una fessura che viene offerta per non rendere il film anche qui monolitico, chiuso.
Dal punto di vista sonoro, è immenso quel che scatena il suono in termini di suggestioni, se l’immagine non gli fa muro.
Oltre al fatto che ad esempio in Variazioni ordinarie potrei solo auspicarmi che qualcuno lasci la sala per continuare a mettere in azione il film per la strade attorno a sé… lì il film intero è il fuoricampo del luogo in cui si è ed è un’incitazione ad avvicinarsi alle cose più vicine.

8) A mio avviso, il discorso della voce fuori campo prepara il terreno per una questione ad esso collaterale: il rapporto tra immagine e parola che, nel caso specifico di lavori come Variazioni ordinarie (2012) e Orizzonti Orizzonti! (2014), si esplica nello scarto tra il tempo dell’immagine e il tempo della parola. Ad esempio, in Variazioni ordinarie, da una parte l’inquadratura fissa dell’immagine coglie il momento presente, istantaneo,  dall’altra, nel fuoricampo, vengono narrate storie appartenenti al passato.

È un ulteriore strato, quello temporale, grazie…
In Variazioni ordinarie, la priorità che mi aveva spinta a creare questo dispositivo di immagini ampie e distaccate versus voci vicine e intime, era la speranza di rendere il film stesso uno spazio pubblico… una sorta di piazza che si aprisse tra la distanza delle immagini e la vicinanza delle voci e che in qualche modo permettesse a colui che guarda e ascolta… di andare all’incontro dell’altro, di muoversi in un’intersoggettività fluida.
In Orizzonti invece lo scarto forte avviene per me tra gli orizzonti dell’immaginario (filmati in pellicola) e l’apparizione dei corpi (in digitale).
Mi piace questa espressione del tempo dell’immagine e del tempo della parola.
Una persona incontrata al Fresnoy in sede di commissione, mi disse commentando la Mutevolezza, che le mie immagini erano da leggere e che i testi che avevo scelto erano invece delle immagini poetiche. L’ho trovato molto bello.

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Variazioni ordinarie (2012)

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Orizzonti Orizzonti! (2014)