Il cinema, atto d’amore, si fa con qualsiasi cosa e di qualsiasi cosa: un filo di ferro, una goccia d’acqua, un tuono lontano, il miagolio di un gatto. Tutto può essere punto di partenza o punto di arrivo. Il cinema non è necessariamente un’arte totale, come l’opera, ma è l’arte di far vedere la parte invisibile di ogni cosa fatta dal Creato.
– Raoul Ruiz

 

La vertigine dell’illusione: breve introduzione al cinema di Raoul Ruiz

Ha scritto Jean-Luc Godard che, se Fassbinder ha idealmente rappresentato il cinema negli anni Settanta, Raoul Ruiz è stato il regista che meglio ha interpretato quest’arte durante gli anni Ottanta.1 Al di là della tipica apoditticità degli aforismi godardiani, è interessante constatare che questo esaustivo giudizio provenga proprio da uno degli autori che più hanno lavorato, non solo nel cinema, quanto sul cinema: un autore, Godard, che condivide con Ruiz un approccio e un’interpretazione della settima arte come luogo – e “gioco” – linguistico.

le tre corone del marinaio - 1Un’immagine tratta dal film Il gioco dell’oca [Le Jeu de l’oie. Une fiction didactique à propos de la cartographie, 1979], opera che illustra bene il carattere ludico del cinema ruiziano.

Originario del Cile, Ruiz è autore di un cinema senza patria, apolide, eccentrico, inclassificabile; vero e proprio compositore di universi barocchi in cui, come nel cinema di Peter Greenaway, coesistono elementi eterogenei. Se, infatti, in Greenaway il cinema si fonde teoricamente con la pittura, in Ruiz esso si “confonde” con la letteratura di impronta filosofica. Entrambi i registi sono d’altronde autori di un cinema postmoderno che mischia fra loro ambiti culturali diversi. Nel cinema di Raoul Ruiz si respirano le pagine dei libri di Borges, di Bataille, di Potocki, di Stevenson, di Cortázar, di James, di Proust, evocate attraverso immagini che paiono sottratte a lungometraggi di registi quali Ophuls, Cocteau e Buñuel. Ma è soprattutto Orson Welles il nume tutelare di Ruiz. Con una sottile differenza: come ha individuato perfettamente Alessandro Cappabianca «Welles è capace di ricostruire una ferrea consequenzialità narrativa riassemblando spezzoni girati su set diversi, magari ai quattro angoli del mondo [Othello]; Ruiz non solo sembra più interessato a far passare per luoghi diversi (isole, terre esotiche) quello che è sempre lo stesso, ma, una volta radunate tutte le tessere del puzzle, gli piace rimetterle insieme in modo che non combacino mai perfettamente, in modo che qualcosa sempre non torni, per eccesso o per difetto».2 Un cinema, quello ruiziano, non solo esclusivamente metalinguistico, ma strutturalmente onirico, scomposto. E, perché no?, anche ludico. Tanto teorico quanto pronto a farsi trasportare dal piacere del racconto – tanto meglio se fantastico. Un’idea di cinema, dunque, come luogo di pura immaginazione (e narrazione), dove storie partoriscono incessantemente altre storie, costituendo in tal modo un universo di scatole cinesi e sentieri che si biforcano.

Ruiz è un autore incredibilmente prolifico. La sua filmografia conta più di un centinaio di titoli che, come i suoi film, costituiscono nel loro insieme un enciclopedico universo (borgesiano?) a se stante. Dopo i primi lavori in Cile, tra cui bisogna perlomeno ricordare Tre tristi tigri [Tres tristes tigres, 1968] e Nessuno disse niente [Nadie dijo nada, 1971] – film contrassegnati da un allontanamento dal realismo socialista nei confronti di un evidente interesse per il mezzo, e dai risolviti surreali e paradossali del plot –, intorno al 1977 Ruiz si trasferisce in Europa. Qui conosce il filosofo Pierre Klossowski, col quale collabora in alcuni film – oltre alla trasposizione de La vocazione sospesa [La Vocation suspendue, 1977] bisogna citare almeno il fondamentale L’ipotesi del quadro rubato [L’Hypothèse du tableau volé, 1978]. Ma è forse negli anni Ottanta che il talento visionario di Ruiz raggiunge probabilmente il suo vertice. Nell’arco di pochi anni dirige, infatti, alcuni dei film più impressionanti, visionari e avanguardistici che la settima arte abbia conosciuto in questo decennio. Dopo l’horror metafisico The Territory [id., 1981], gira, nello stesso anno (!), due dei suoi capolavori, Le tre corone del marinaio [Les Trois couronnes du matelot, 1983] e La città dei pirati [La Ville des pirates, 1983].3 Questi due film, seppur differenti nella trama, esprimono al meglio l’interesse per il fantastico del regista cileno. Le tre corone del marinaio, in particolare, è forse il film che meglio trasmette l'”idea cinematografica” di Ruiz, contenendo, in potenza, tutto il suo cinema precedente e venturo.
Si tratta di un film che, letteralmente, “esplode” per visionarietà, suggestione e atmosfera – nonché uno dei pochi (e discreti) successi del regista, come puntualizza Jonathan Rosenbaum.4 Un vertice di trucido, allegorico e ironico postmodernismo cinematografico, in cui viene fagocitato di tutto: La signora di Shanghai [The Lady from Shanghai, 1947] e Thomas Pynchon, Buñuel e Borges, Storia immortale [Une Histoire immortelle, 1968] e Il manoscritto trovato a Saragozza. Il regista cileno imbastisce, in questo film, un vero e proprio labirinto di specchi, di luci, grandangoli e lenti deformanti in cui lo spettatore si perde a poco a poco. La storia del giovane studente (interpretato da Philippe Deplanche) che, sfuggendo da un omicidio appena compiuto, si imbatte in un marinaio cantastorie (Jean-Bernard Guillard) – per tre corone, ovviamente – è solo un pretesto per costruire una rete inestricabile di racconti fantastici, per mare e per terra, in un regno immaginifico dominato da fantasmi.

 

Ruiz e il circolo vizioso: Le tre corone del marinaio

Un bicchiere; poi una mano che scrive un manoscritto. Il testo recita così: «Del tutto inutile perdersi in futili dettagli, fatemi solo dire che abbiamo attraversato la più infida delle tempeste prima di giungere nelle indie occidentali». E poi una musica epica, d’avventura5 – diretta, come di consuetudine, da Jorge Arriagada – sui titoli di testa. Un vascello sta solcando l’oceano. Così inizia Le tre corone del marinaio. L’atmosfera è quella di un racconto di Robert Louis Stevenson.

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Ma Ruiz ci sta in qualche modo ingannando. Perdersi (“in futili dettagli”, in racconti, in storie…) sarà, infatti, la principale prerogativa di questo film labirintico. Come scrive sempre Cappabianca «[…] le storielle, i raccontini, gli apologhi che i personaggi di Welles (ma anche di Buñuel) si divertono a raccontare non senza implicazioni più o meno evidenti […], i personaggi di Ruiz […] si ostinano a riesumare nei momenti meno opportuni.»6
Fin da subito, a condurre la narrazione – e lo spettatore – interviene una voce over: in questo caso, quella dello studente. La voce fuori campo è, d’altronde, uno degli espedienti narrativi prediletti dal regista cileno.7 Ma Ruiz, ne Le tre corone del marinaio, decide di “complicarne” l’uso attribuendo, di volta in volta, il ruolo di narratore ad un personaggio diverso. In particolare, è il marinaio incontrato dallo studente ad essere il vero nucleo su cui la storia, o per meglio dire le storie si intrecciano e si moltiplicano – Bérénice Reynaud definisce giustamente Le tre corone del marinaio un caso di «a self-generating fiction.»8
Dopo l’omicidio per denaro del proprio tutore (alla facoltà di teologia di Varsavia), Tadeusz, “lo studente che amava citarsi in terza persona”, incontra il marinaio senza nome per le vie notturne e nebbiose della città. L’atmosfera è quella di un noir degli anni Quaranta. La fotografia di Sacha Vierny, il grande direttore dei film di Alain Resnais e Peter Greenaway, asseconda Ruiz in quello che sarà un vero e proprio caleidoscopio di stili e di esperimenti visivi, passando dai viraggi con colori accesi, quali il violetto o l’arancione, fino a pastosi effetti flou. Ciò contribuisce a calare il film entro una cornice dichiaratamente onirica e sognante. Ruiz (e Vierny) contrappongono le sequenze al presente, girate in bianco e nero, al colore, sempre vivace e acceso, dei ricordi e dei racconti – un po’ come accadrà nel capolavoro di Edgar Reitz, Heimat [id., 1984]. Scrive a tale riguardo Hamish Ford, «The black-and-white sequences, mainly the framing story, look fantastical and mythic enough, but the film reaches its most striking and characteristic moments with the majority colour scenes, which often feature slightly washed out pink and orange hues […]».9

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le tre corone del marinaio - 6L’omicidio e l’incontro con il marinaio, girati in un bianco e nero retrò.

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le tre corone del marinaio - 10Alcuni esempi di viraggi del film, realizzati in post-produzione.

La hall dove si svolge la lunga notte di racconti tra lo studente – il quale vorrebbe imbarcarsi per sfuggire alle autorità – e il marinaio è il primo di quei luoghi “wellesiani” che incontreremo nel film. L’ambiente è reso labirintico da Ruiz attraverso un complesso gioco di specchi che moltiplica potenzialmente il locale all’infinito. Memore dunque del capolavoro di Alain Resnais, L’anno scorso a Marienbad [L’Année dernière à Marienbad, 1961], la cui fotografia, per altro, fu a cura proprio di Vierny, Raoul Ruiz costituisce un universo chiuso, barocco, sontuosamente elegante, fatto di specchi e di décor, dove proiettare conscio e inconscio, passato e futuro. Fino a perdersi tra gli arabeschi dell’immaginazione.

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Ed è a questo punto che ha inizio davvero il film – o per meglio dire la lunga serie di racconti che vedranno come protagonista il marinaio. Nel primo flashback, l’uomo, originario di Valparaiso, parte a bordo della Funchalanse, la mitica nave dai diversi nomi (è conosciuta anche come Vallon de Marseille e Socrate 4). Durante questa sequenza, che vede il marinaio camminare senza meta per il porto della propria città, assistiamo ad una messa in scena peculiare, che rivela tutto l’interesse teorico di Ruiz nell’uso della profondità di campo, del montaggio e delle angolature.

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Come spiega lo stesso Ruiz: «[…] la rottura costante dell’asse visuale, il fare errori di continuità, e il farlo sistematicamente, al principio viene percepito come un semplice errore, ma, dopo quattro, cinque, dieci volte, si crea un altro spazio: lo spazio discontinuo dove esistono solo cose che dobbiamo guardare due volte, per poterle metter in relazione con quello che arriva dopo.»10 Continua ancora Ruiz: «In questo spazio, come in Le tre corone del marinaio, c’è un sguardo “infantile”, perché nel montaggio le singole parti sono una accanto all’altra, ma non è evidente il passaggio dall’una all’altra. C’è bisogno di uno sforzo, prima per identificarle, poi per tradurle, perché lo spazio non è sempre evidente. A volte la cinepresa è collocata fra un piede enorme, una sigaretta, e in fondo a centro metri c’è il marinaio. Dunque hai bisogno di almeno cinque o dieci secondi per capire dove sei, e quando hai capito, tutto immediatamente cambia.»11 Viene in mente il radicale ripensamento (barocco; moderno) compiuto da Orson Welles nei confronti del classico découpage.12 Ma con una sottile differenza: «[…] a differenza degli spazi wellesiani dove oltre che a comprimere e ad allungare si cerca una tensione tra vero e falso […], in Ruiz l’allargare in profondità il campo avviene sempre in una tensione artificiale-naturale, avviene sovrestendendo e, in modo leggero, dispiegando linee di fuga e sprigionamenti, nel momento stesso in cui tutto viene raggrumato nel tocco falsamente tridimensionale del trompe-l’œil o nelle pieghe di tempo in movimento e di desiderio intensivo dello sguardo nell’anamorfosi.»13 Ecco allora che ci appare più chiaro lo scarto tra l’impiego moderno che Welles fa della profondità di campo in contrasto (o in rapporto) a quello, potremmo dire postmoderno, operato da Raoul Ruiz. Continua ancora Bruno Roberti: «Dubroux parla giustamente di un gioco di “falsa profondità, una profondità di campo in trompe-l’œil”, dove si piegano e si ripiegano le piste, in un broglio di linee di fuga dove il primo e l’ultimo piano, il vicinissimo e il lontanissimo si scambiano alternativamente la tensione […]».14 Dunque, fin dalle prime scelte di découpage che incontriamo ne Le tre corone del marinaio si evince già chiaramente un’idea di cinema come vertigine di illusione, in cui, come vedremo, il gioco di infiniti e di possibili è necessario per “aprire” il film al suo “eterno ritorno”.

Sulla nave, il marinaio ha l’occasione di conoscere un equipaggio composto essenzialmente da personaggi bizzarri, fantasmi, doppi. Uno di loro si fa chiamare addirittura “l’imitatore”. Costui svela al marinaio che tutti, sulla barca, sono uguali, e che hanno la stessa fidanzata, chiamata “la fidanzata d’America”. Inoltre, parla continuamente di un “altro”. Un morto? Un fantasma? Ruiz probabilmente si sta rifacendo alle teorizzazioni dell’autore di Nietzsche e il circolo vizioso, Pierre Klossowski. La Funchalanse è, infatti, un luogo di simulacri, di doppi, di revenant. Più avanti, nel corso del film, il marinaio racconterà allo studente un bizzarro sogno – tutto girato in soggettiva da Ruiz – in cui si trova a vivere nel corpo di un altro, e camminando per la nave incontra un altro se stesso. O ancora, temi quali la ripetizione e lo sdoppiamento sono evocati dallo studente quando ammette di aver già sentito le storie che gli racconta il marinaio (magari, con qualche variante). E ancora: lo sdoppiamento del protagonista continua durante un suo fugace ritorno alla patria, a Valparaiso. Qui scopre che la casa dove abitavano i suoi parenti è stata chiusa, e l’amante di sua sorella racconta di aver già incontrato il marinaio. 

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vlcsnap-2014-10-01-00h52m17s33Il marinaio osserva la propria casa, ormai chiusa. L’inquadratura ricorda fortemente Il processo [The Trial, 1962] di Orson Welles.

Associazioni fortuite, “proustiane”, possono essere l’occasione per far scaturire improvvisamente un ricordo, una storia, da cui intessere altri racconti. Una musica evoca, ad esempio, lo sbarco del marinaio a Buonaventura. Egli, giunto sul posto, visita un bordello che si affaccia sulla costa. Anche qui, che si tratti di esterni o di interni, la regia di Ruiz scandaglia l’ambiente con un montaggio veloce e scomposto, e attraverso prospettive bizzarre e ingannevoli trompe-l’œil.

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Lo sguardo del protagonista viene attirato da una figura di una donna in silhouette. Si tratta di una bellissima prostituta, “l’unica che egli non avrebbe scelto”, la quale racconta, a sua volta, la propria storia al marinaio. Come nel capolavoro noir Il segreto del medaglione [The Locket, John Brahm, 1946], anche Le tre corone del marinaio è articolato attraverso una struttura “in abisso” dove flashback si sommano ad altri flashback. La stanza della donna è, di per sé, un capolavoro nell’uso del décor barocco. A rendere ancor più inquietante l’ambiente15 contribuiscono le bambole, che riflettono dalle loro bocche e dai loro occhi una luce intensa – un espediente che verrà ripreso dallo stesso regista nel successivo Autopsia di un sogno [Shattered Image, 1998].

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le tre corone del marinaio - 30La luce rosa, irreale, proveniente dalla finestra era già presente nel precedente e sottostimato On Top of the Whale [Het Dak van de Walvis, 1981].

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Contrapposta a questa figura angelica di donna c’è Mathilde, definita dallo stesso marinaio la propria «femme fatale» – nuovamente, il legame (giocoso, ironico, postmoderno) con il noir si fa esplicito. La donna si esibisce in un locale, a Valparaiso. Gli uomini guardano con bramosità la donna che incarna il loro desiderio.

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Il marinaio la definisce «la nudità fatta arte». Eppure la donna, quando finalmente si incontra in privato con il marinaio, rivela all’uomo la propria natura asessuata. Confessa infatti di non possedere altri buchi se non quello della bocca («Il nulla è la nudità perfetta, non credi?». E ancora: «La pelle è superficiale, è il vestito dell’essere.»). L’uomo la vede spogliarsi – anche dei capezzoli! – incorniciata idealmente in un quadro. Come scrive giustamente Bérénice Reynaud nella sua interessante lettura lacaniana del film, «Mathilde undresses, and finally takes off the silver stars that cover her nipples. To his horror, the sailor discovers that Mathilde’s body is also a fiction [corsivo del redattore]».16 La donna, dunque, è “una finzione”: un altro inganno del film.

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Oltre alla bellezza di queste immagini, che traducono bene il mondo finzionale de Le tre corone del marinaio, anche i dialoghi si rivelano fondamentali nel costruire giochi di parole paradossali, e dai significati misteriosi. Oltre al divertente espediente delle lettere incise come tatuaggi sui corpi dei marinai della Funchalanse, vale la pena ricordare il poetico e assurdo discorso del nero sulle tre corone danesi che danno titolo al film.

«Se vuoi aiutarmi, portami, senza chiedere perché, tre corone danesi.»
«Perché non posso chiederti il motivo?»
«La spiegazione sarebbe troppo lunga perché ogni circostanza della mia vita è parte di questa spiegazione. E se per spiegare un minuto della mia vita avrei bisogno di un giorno intero, per spiegare la mia vita intera dovrei avere un’infinità di anni. E la cosa curiosa è che questa infinità di anni sarebbe compresa in un solo istante della mia vita. Un istante che noi vivremo insieme, se mi porterai tre corone danesi, oggi.»

Nel finale del film, il cerchio finalmente si chiude. Lo studente uccide il marinaio. Poco dopo, il suo fantasma lo chiama a salire finalmente sulla Funchalanse – come gli era stato spiegato, per salire sulla nave bisognava uccidere qualcuno. Una volta salito, le immagini che seguono sono a colori, e non più in bianco e nero. Il presente e il passato, il racconto e il ricordo diventano tutt’uno. D’altronde, come dice anche la voce over: «Sulla nave dei morti ci vuole sempre un marinaio vivo. Compresi che spettava a me questo umile compito.»

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NOTE

1. Cfr. A. Farassino, Rauol Ruiz, catalogo della rassegna dedicata a Raoul Ruiz a cura di Alessandro Visinoni, Roma, 1988, p.2.

2. E. Bruno (a cura di), Ruiz faber, Minimum Fax, Roma, 2007, p. 52.

3. I due film si citano con queste due inquadrature.

le tre corone del marinaio - 45Le tre corone del marinaio.

le tre corone del marinaio - 46…e La città dei pirati.

4. Cfr. J. Rosenbaum, Mapping the Territory of Râúl Ruiz, http://www.jonathanrosenbaum.net/1990/05/22378/

5. Lo stesso motivo musicale è ripreso anche in altri film di Ruiz, come ad esempio in Treasure Island [id., 1986] e Histoires de glace [id., 1987]

6. A. Cappabianca, Raoul Ruiz o il cinema come cadavre exquis, in E. Bruno (a cura di), Op. cit., p.52.

7. La voce over, in Ruiz, letteralmente “crea” le storie – d’altronde, egli è un regista che lavora tanto su ciò che vediamo, su ciò che è “in campo”, quando su quello che possiamo solo immaginare, e dunque sul fuori campo. Ruiz sembra davvero rendere concreto uno degli auspici di Béla Balasz: «Un grande avvenire attende il film narrato, in cui un invisibile narratore-autore ci racconta l’azione […]. In tal modo il film non sarà più costretto a mostrarci tutti i particolari che sono necessari per rendere comprensibile lo sviluppo dell’azione. Allo spettatore basta udire le parole del narratore mentre le immagini possono mostrare i fatti interiori del personaggio, mediante un’associazione di idee di tipo contrappuntistico; il film potrebbe così acquistare una terza dimensione.» [B. Balasz, Il film, Einaudi, Torino, 1975, p. 280.]

8. B. Reynaud, Three Crowns of the Sailor, http://www.rouge.com.au/2/crowns.html

9. H. Ford, Three Crowns of the Sailor, http://sensesofcinema.com/2012/cteq/three-crowns-of-the-sailor/

10. Conversazione a cura di Andrea Pastor, in «Filmcritica», nn. 536-537, giugno 2003; ora anche in E. Bruno (a cura di), Op. cit., p. 141.

11. Idem., pp. 141-142.

12. Cfr. André Bazin, Orson Welles, Il Formichiere, Milano, 1980.

13. B. Roberti, La retta piega, in E. Bruno (a cura di), Op. cit., pp. 86-87.

14. Idem.

15. Il film è innegabilmente anche un horror. Cfr. immagini dei vermi che fuoriescono dai corpi dei marinai, i quali non riescono più a defecare. L’immagine è tra le poche a turbare lo studente tanto da interrompere il racconto del marinaio.

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16. B. Reynaud, Op. cit.