Carrère a doppio taglio
Oltre a maturare mutue corrispondenze con arti puramente figurative, come la pittura o l’architettura, il cinema tesse un dialogo serrato anche con la letteratura: sono innumerevoli infatti le trasposizioni cinematografiche di opere letterarie.
Ma assieme ad una manifestazione così pragmatica, questa contaminazione viene inpersonificata da figure «a doppio taglio»: cineasti come David Cronenberg, Takeshi Kitano o Marguerite Duras oltre a produrre film, hanno anche coltivato la scrittura. Con un passaggio inverso, c’è poi chi dalla letteratura è approdato al cinema: si veda Emmanuel Carrère, tra i più importanti scrittori del panorama europeo contemporaneo, nella cui costellazione di fonti d’ispirazione compaiono Montaigne e Laurence Sterne1, Dostoevskij, Gogol, Nabokov e, soprattutto, Philip K. Dick, a cui ha dedicato nel 2016 il suo ultimo romanzo, Io sono vivo, voi siete morti. Al contempo è anche cinefilo e cineasta, appassionato soprattutto del genere fantasy e del b-movie, amante di registi come Alain Resnais, Stanley Kubrick, Francis Ford Coppola; in aggiunta, ha prodotto recensioni critiche per la rivista Positif (150 tra il ’77 e l’86, tra cui quelle dedicate a Roman Polanski, Wim Wenders, Jerzy Skolimowski, Werner Herzog e Terence Fisher), cui ha affiancato la stesura di numerosi testi come quello su Andrej Tarkovskij.
La coalescenza di queste due facies, cinematografica e letteraria, è vividamente rappresentata da una specifica pellicola carreriana: L’amore sospetto [La moustache, 2005], adattamento per schermo dell’opera letteraria dello stesso Carrère Baffi (1986), radicalmente influenzata dalla penna di Theodore Sturgeon, Richard Matheson, Philip K. Dick e anche da serie TV come Ai confini della realtà [The Twilight Zone, creata da Rod Serling, 1959-1964].
Innanzitutto, dell’operazione di traslazione da parola ad immagine, da libro a film, e dei problemi di «distorsione percettiva»2 che essa avrebbe comportato, parla profusamente Carrère in un’intervista a cura di Isabella Mattazzi, non dissimulando l’insoddisfazione provata a film concluso, pur apprezzandone dopotutto la rigorosità delle inquadrature e l’assenza di eccessi tecnici: «[…]L’immagine necessariamente “autentifica” le cose. Al cinema ci sono momenti in cui siamo obbligati a mostrare, a fare vedere la realtà. Cosa che per quanto riguarda una storia come quella di Baffi, in cui ogni cosa può essere anche il suo contrario, si è rivelata estremamente complessa da realizzare cinematograficamente.»3
Tra le due versioni, filmica e cartacea, intercorre uno scarto differenziale che risiede nel finale: mentre il film si conclude con il ripristino di un ordine che sottrae il protagonista Marc Thiriez (Vincent Lindon) alla sua alienazione – la seconda volta che Marc si rade i baffi su suggerimento della moglie Agnès (Emmanuelle Devos), lei se ne accorge –, nel Baffi cartaceo Marc si suicida durante la rasatura come ne La grande rasatura [The Big Shave, 1967] di Martin Scorsese.
Spiega Carrère in merito: «La questione del finale cambiato riguarda due diversi fattori. Il primo di ordine pratico. Letteralmente non sapevo come poter filmare il suicidio del protagonista senza che venisse fuori una sorta di ridicola scena splatter. E neppure si poteva realizzare il suicidio attraverso un’ellissi, qualcosa di allusivo. […] C’è un’altra ragione però, più profonda. Rispetto alla stesura del libro, quando ho girato il film avevo vent’anni di più. Passati vent’anni mi sono accorto che in realtà non avevo più voglia di raccontare una spirale di follia e di disperazione, ma mi interessava rappresentare la storia di una coppia e il modo in cui, malgrado tutto, una coppia arriva a uscire da una crisi, da un disaccordo assoluto sulla realtà.»4
Nonostante la discrasia tra i due diversi modi di rendicontazione del finale – quelli competenti rispettivamente all’immagine e alla parola –, c’è un fil rouge che le accomuna: la duplicazione della realtà, scissa tra la “norma” e l’assurdo.
«Ho sempre pensato che dovresti raderti i baffi»
«Mi piacerebbe vederti senza, un giorno»
«L’hai fatto»
«Stai bene»
Finali a confronto
Nel libro, parallelamente, si legge: «[…] tornò al punto dove si erano trovati i baffi. Ne aveva individuato abbastanza bene i rilievi, adesso, per essere capace di appoggiare la lama esattamente perpendicolare alla pelle e si sforzò di non chiudere gli occhi quando, sotto la pressione, senza che avesse spostato il rasoio di lato, la pelle cedette, si aprì. Accentuò la pressione, vide il sangue colare […] il rasoio, ora attaccava l’osso. […] Il suo cervello…continuava a funzionare, a chiedersi fino a quando avrebbe funzionato, se sarebbe riuscito ad arrivare…a tagliare al di là dell’osso…fino in fondo al palato pieno di sangue, e, quando capì che si sarebbe necessariamente soffocato…strappò il rasoio»5
Sogno o son desto?
Il tessuto narrativo di La moustache, insignito del Label Europa Cinemas come miglior film a La Quinzaine des Realizateurs del Festival di Cannes 2005, è pilotata da due essenziali modalità, l’assurdo e la normalità della realtà, che seppur dicotomiche, si suturano insieme mediante l’elemento dello specchio. Sulla base di un excursus etimologico del termine «specchio», è interessante notare come accanto ad una più convenzionale tassonomia di definizioni, includenti «ciò che serve a guardare» (dal latino «speculum», stessa radice di spècio/spìcio = io guardo) – e «provare meraviglia» (derivato dal verbo «mirari»), compaia la meno nota specificazione di limite (dal cinese «Jìng»). Il limite indica qualcosa di ideale, di duttile, che può pertanto subire modificazioni aprendo ad un vasto spettro di possibilità. Difatti, nella pellicola del regista di Ritorno a Kotelnitch [Retour à Kotelnitch, 2003], la realtà ordinaria viene edulcorata dall’assurdo, riformulandosi in un assetto altro che, prendendo in prestito la nomenclatura di Jonny Costantino, si può identificare come «realismo allucinato»: «l’incubo non prende corpo attraverso deformazioni surreali o sconfinamenti nel paranormale, ma spiffera da una falla che pian piano s’ingigantisce fino a sovrapporsi alla cosiddetta realtà allucinandola.»6
Questo assurdo gogoliano (p.e. Il naso), infatti, è strettamente raccordato al processo di simulazione che investe il film, processo che ha natura fondamentalmente antropocentrica: l’immagine filmica, e al pari anche quella speculare – senza un corpo riflettente, infatti, non potrebbe esistere –, si sviluppa attorno al corpo di figure umane, di attori, esercitando un processo di ri-figurazione, iconizzato anche in film come Zelig [id., 1983] di Woody Allen, Dans ma peau (id., 2002) di Marina De Van o Time [Shi Gan, 2006] di Kim Ki-duk. Quindi l’immagine filmica, in odor di simulazione, comporta uno sdoppiamento – denotato appunto dalla presenza dello specchio – dell’immagine dell’attore e anche della realtà medesima.
Segni
In ragione di quel carattere antropomorfico di cui sopra, ne La moustache l’assurdo si materializza proprio a partire da un’anomalia corporale di Marc: egli si taglia i baffi ma né la moglie Agnès né gli amici e i colleghi di lavoro se ne accorgono, trascinando Marc nella paranoia e nel sospetto – come meglio suggerisce anche la traduzione italiana del titolo «L’amore sospetto»7. Marc è così spinto a ricercare altrove la dimostrazione che un tempo aveva i baffi, in altre tracce simulacrali quali vecchie fotografie, come quelle della vacanza a Bali, e nelle foto-tessere appena scattate che mette a confronto con una vecchia foto in cui ha i baffi, mostrandole poi ad una donna estranea per aver la certezza che anche lei veda ciò che vede lui.
«Vedi le differenze qui?»
Marc mostra all’agente di polizia le foto fatte in quel momento, in cui non ha i baffi, e una vecchia foto in cui invece li ha. Anche la donna nota la differenza tra le fotografie: i baffi.
Queste immagini fotografiche diventano allora veri e propri segni che demarcano il confine tra l’assurdo e la normalità. Pare, infatti, che l’etimo latino signum contenga un rimando al verbo secare, tagliare: infatti, all’interno del testo carreriano, le fotografie “incidono” l’assurdo che fagocita Marc, al fine di determinare una ferita, un’apertura, che mostri a chi guarda dall’esterno (Agnès e gli amici) ciò che altrimenti non sarebbe loro visibile. Questi segni mostrano e sostituiscono l’invisibile-per-gli-altri, ovvero la certezza che Marc ha i baffi.
Dunque, tali semi consentono un breve ritorno a quella presupposta consuetudinarietà che in origine, cioè prima della manifestazione dell’assurdo caso dei baffi, caratterizzava la vita di Marc e che quest’ultimo cerca di ricostituire: tant’è vero che nel greco semeion/sema si rinvengono residui del termine seme con valore di principio, origine.
Oltre ad intenzionare il reale rendendolo visibilmente accessibile, essi arginano temporaneamente quel processo di contraffazione attuato nei confronti della realtà in cui il protagonista vive e la cui esistenza crede essere autentica.
«E se mi radessi i baffi?»
Tuttavia tale processo, dopo questa breve “pausa”, si manifesta nuovamente generando un parallelo universo enigmatico, il cui limite è proprio lo specchio: il profilmico subisce un radicale cambiamento, assumendo «la configurazione della stilizzazione artificiale, della rielaborazione figurativa e differente rispetto ai fenomeni e della rinuncia a qualsiasi originale nel mondo»8, come scrive Paolo Bertetto ne Lo specchio e il simulacro.
La rasatura determina, quindi, un progressivo disfacimento del rapporto che Marc intrattiene col mondo, tanto che abbandona tutto e fugge in Cina, dove spera di trovare stabilità: Marc la ricerca nella forsennata ripetizione della quotidiana abitudine di prendere il traghetto da Hong Kong a Kowloon e viceversa.
Queste inquadrature, accompagnate – come tutto il film – dal commento musicale di Philip Glass, inscenano il circolo vizioso in cui Marc si rifugia per ritrovare la perduta serenità.
La relazione conflittuale col mondo circostante raggiunge l’acme in due sequenze in particolare. La prima è rappresentata dalla chiamata di Marc all’amico Bruno, in cui il sospetto di una cospirazione nei suoi confronti si amplifica esponenzialmente: gli chiede se Àgnés lo abbia chiamato per dirgli di non badare ai suoi baffi ma Bruno risponde di no e che lui, negli ultimi quindici anni, non ha mai portato i baffi. La seconda sequenza è quella in cui Marc cerca di raggiungere in taxi la casa dei suoi genitori ma la pioggia torrenziale oscura i vetri dei finestrini.
Dice Bruno: «Esattamente. Tu non li hai mai avuto negli ultimi 15 anni.»
«Non posso vedere»
La pioggia torrenziale ammanta i finestrini e non permette a Marc di vedere: le coordinate d’orientamento nel mondo vengono annullate.
Ma la mise-en-scène di questo incombente inverosimile mette in luce soprattutto l’affrancamento di Marc dal proprio corpo e dalla identità stessa, che trova esemplificazione anche nel gesto del protagonista di ignorare la sua immagine riflessa.
Qui continua ad ignorare la sua immagine riflessa.
Perché Marc possa tornare a percepirsi come parte costitutiva del mondo, è spinto a guardarsi frequentemente allo specchio. Questa azione lungamente reiterata è dovuta al fatto che dalle dinamiche percettive tra sguardo e corpo è escluso un elemento in particolare: il volto, visto dagli altri ma assente alla prensione visiva del soggetto stesso. E solo l’atto dello specchiarsi, pertanto, consente a Marc di identificarsi come corpo inglobato allo spazio circostante: lo specchio ripristina l’ordine della quotidianità.
Dunque, l’importanza di La moustache trova denotazione proprio nella valorizzazione della potenzialità riflessiva dell’immagine filmica: quest’ultima rappresenta «il luogo in cui l’individuo vede se stesso inserito nel mondo, come corpo attante e insieme percipiente»9. E questo si coglie soprattutto nella seconda parte della pellicola, in particolare nella sequenza che si svolge nel ristorante della nave, in cui Marc torna a guardarsi a quello specchio che fino ad ora aveva trascurato. L’immagine di Marc riflessa nella superficie specchiante non ha natura monologica, ma è, per costituzione, relazionale: il soggetto riflettente, infatti, non si percepisce come un’entità avulsa dal mondo, ma come parte integrante di esso.
In questa sequenza dal primo piano sul profilo di Marc si passa all’inquadratura della sola immagine speculare, in cui oltre a cogliere se stesso nello specchio, il protagonista coglie anche lo spazio circostante e il riflesso della moglie Àgnes.
NOTE
1. “I like very much that kind of writer,” he says. “A man whose mind is liberated and not caged in a genre, free from censorship.” – https://www.theguardian.com/books/2014/sep/21/emmanuel-carrere-most-important-french-writer-youve-never-heard-of
3. Ibidem
4. Ivi
5. Emmanuel Carrère, Baffi, Roma-Napoli: Edizioni Theoria (1997), pp. 171-172
6. Carlo Chatrian, Daniela Persico, EMMANUEL CARRÈRE. Tra cinema e letteratura. Bietti Heterotopia (17): Milano (2015), pag.37
7. Per render più evidenti i segni della cospirazione e del sospetto che Marc avverte, e che sono i sintomi premonitori di quella dimensione assurda che va profilandosi, tornano utili i seguenti stralci tratti dal romanzo e incentrati soprattutto sul rapporto di coppia tra Marc e Agnès:
«Qualcosa, quella sera, aveva smesso di funzionare, costringendolo a provare l’evidenza; ma le sue prove non erano probanti, Agnès le aveva falsate. Adesso non si fidava del telefono, avendo il presentimento, senza poterne immaginare le modalità, di una cospirazione dove doveva avere un ruolo, in un gigantesca beffa niente affatto divertente.»
«(ndr: Marc) Sapeva bene che c’erano due Agnès: una socievole, brillante, sempre alla ribalta, i capricci e il comportamento imprevedibile della quale finivano col sedurre a forza di naturalezza e, anche se non lo confessava, lo rendevano fierissimo di lei; l’altra, nota a lui solo, fragile e inquieta, persino gelosa, capace di scoppiare in lacrime per un niente, di rannicchiarsi tra le sue braccia, e che lui consolava. […] per la prima volta, Agnès aveva introdotto uno dei numeri della sua rappresentazione mondana all’interno della loro sfera protetta. Peggio ancora, per darvi più peso aveva sfruttato per questo numero tutto il registro delle voci, delle intonazioni, degli atteggiamenti, riservato alla zona tabù, dove, per principio, ogni recitazione cessava. Violando una convenzione ma formulata a parole, lo aveva trattato come un estraneo […]»
8.Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Bompiani, Milano, 2007/2008, pag.27
9. Ibidem