La trama (falsa) del matrimonio
“Non c’è felicità nell’amore, tranne che alla fine di un romanzo inglese.”
– Jeffrey Eugenides, La trama del matrimonio1
Ancora la società dello spettacolo sul banco degli imputati, ancora un film che mette in discussione lo statuto ontologico della realtà delle immagini. Il tutto attraverso il sabotaggio della istituzione simbolo dell’american dream ovvero il matrimonio. David Fincher agisce sulla apparente linearità di una trama “noir” di sicuro appeal (il romanzo Gone Girl di Gillian Flynn ha venduto oltre 2 milioni di copie negli Stati Uniti e per 20 settimane è stato in classifica tra le migliori vendite) per inserire ad ogni fotogramma un sotto-testo che ribalta la veridicità di azioni e comportamenti. Il modello è quello del concetto hitchcockiano di suspense secondo due principi: prima la manipolazione dello spettatore portato fuori strada da continui falsi flashback e successivamente la decisione di regalargli la soluzione dell’enigma per situarlo in una posizione di dominanza e godersi l’abecedario illustrato di bugie. La messa in scena di una messa in scena contenute una dentro l’altra nella matrioska di David Fincher. È dai tempi di Fight Club [id., 1999] e Zodiac [id., 2007] che il regista americano pone un parallelo tra l’indecifrabilità del codice del visibile e un angosciante senso di spaesamento e depersonalizzazione dei personaggi principali. L’estetica di Fincher è di matrice pubblicitaria, caratterizzata da una ampia cultura fotografica (Robert Frank, Joel Peter Witkin), dal montaggio rapido sul modello del videoclip e dal senso feticistico dell’immagine2.
Le prime stupende immagini de L’amore bugiardo – Gone Girl [Gone Girl, 2014] rimandano a questa dicotomia tra la realtà e alla sua rappresentazione. Prima l’inquadratura della testa di Amy accarezzata dal marito in fuori campo con una voce narrante inquietante, a suggerire un atto criminoso imminente.
Poi una rapida successione dei luoghi del Missouri con lo slittamento tra le immagini ad alta definizione della 6K RED EPIC DRAGON (9 volte superiore a una normale telecamera HD)3 e la musica cripto-elettronica di Trent Reznor e Atticus Ros che conduce lo spettatore dentro le zone più oscure della psiche. Non si può non pensare alla sigla di House of Cards4 con i cieli e i monumenti di Washington attraversati da rapide ombre e luci al neon: anche qui dietro la patinatura delle immagini, si nascondono i presagi del sottobosco (Underwood: nomen-omen) di intrighi e delitti che porteranno Kevin Spacey alla Casa Bianca.
I titoli di testa di Gone Girl.
I titoli di testa di House of Cards.
La famiglia nevrotica degli anni ’60 di Revolutionary Road di Richard Yates subisce una involuzione psicotica determinata dal crollo delle certezza e degli ideali dell’impero americano. Il processo autodistruttivo si è innescato nel 2001, dopo l’attentato alle Twin Towers e ha comportato una dissoluzione della identità nazionale e personale: gli ultimi film di Cronenberg (Maps To The Stars [id., 2014]), Schradrer (The Canyons [id., 2013]), Paul Thomas Anderson (The Master [id., 2012], Vizio di forma [Inherent Vice, 2014]) non sono che un canto funebre al potere rappresentativo dell’immagine cinematografica con conseguente dissoluzione di significante e significato. Incapacità a riconoscere bene e male, nemici e amici, il vero dal falso. Persino il proprio riflesso allo specchio è estraneo. Tutto è possibile, niente è veramente reale. Amy e Nick sembrano disegnare la cartografia di una postmodernità che riflette la paranoia di una nazione pronta all’agguato ma con una impotenza gnoseologica che impedisce di identificare il bersaglio: gli sguardi allucinati e minacciosi richiamano alla memoria il famoso quadro di Grant Wood, American Gothic.
Grant Wood, American Gothic, 1930, Art Institute Chicago.
Questa impossibilità alla convivenza pacifica frutto di una crisi identitaria è colta magistralmente da Adriano De Grandis5: «È plateale il bisogno di Fincher di scavare nelle personalità sregolate dei suoi personaggi, cogliere in un senso più intimo, se possibile, la solitudine devastante di un’umanità incapace di convivere, se non attraverso la falsità, la violenza, la sfida, il dolore. Ecco perché il suo cinema è così nero, un buio che cattura e ingloba ogni colore, una frattura insanabile, mirabilmente qui catturata dalla fotografia densa e contrastata di Jeff Cronenweth. Gone Girl è un fight club continuo, è una lotta spiazzante, dove le regole del gioco non esistono e se esistono vengono continuamente modificate a proprio piacimento…».
Nella prima parte del film è palese l’inganno del regista che letteralmente si inventa la visione di un matrimonio grondante melassa prelevandolo dal diario falsamente postumo della “mitica” Amy (una portentosa Rosamund Pike sul modello della Nicole Kidman di Da morire [To Die For, Gus Van Sant, 1995] e della Sharon Stone di Basic Instinct [id., Paul Verhoeven, 1992]). Questa operazione accoppiata al progressivo svelamento di imbrogli e tradimenti pone Nick (Ben Affleck assolutamente in parte nel ruolo di “cazzone” modello Nick-Michael Douglas in Basic Instinct) ad essere il maggiore indiziato nella scomparsa della moglie tanto che l’opinione pubblica, pilotata dalla gloriosa macchina da guerra di stampa e televisione, lo ha già condannato alla pena capitale (il Missouri è uno degli stati in cui vige ancora la pena di morte). Ricordando Seven [id., 1995], quando Nick scopre nel garage della sorella tutti gli acquisti fatti con la sua carta di credito ed anche una grossa scatola con vistoso fiocco regalo, un brivido corre nella schiena perché pensiamo immediatamente al ripetersi di un macabro rituale.
Sopra Gone Girl, sotto Seven.
In realtà da questo momento inizia il secondo film di Fincher quello dello svelamento della trama noir e della famosa domanda che si pone lo spettatore: che cosa farà adesso Nick per togliersi di dosso questo ingombrante cappio al collo? Si sorride amaramente guardando i talk show del dolore con le domande costruite a tavolino: la società dello spettacolo vuole il martire e il carnefice, la lacrima e la condanna, il sesso e la violenza domestica. Proprio in questa seconda parte giganteggia il personaggio di Rosamund Pilke che spogliatasi dei panni stretti della “mitica Amy” prova a scomparire nell’anonimato, indossando i vestiti sciatti e abbondanti di una casalinga della working class. Ma ecco il colpo di genio di David Fincher: nella società dello spettacolo senza i nostri quindici minuti di celebrità, non siamo nulla, non esistiamo, implodiamo. Più volte la televisione rimanda i filmati della “amazing Amy” e del giovane marito prima vittima e poi carnefice per la sua avventura extraconiugale. Ma quando Amy vede Nick, all’apice della messa in scena, implorare il perdono scatta un meccanismo di complicità inconscio: “tutti e due sappiamo essere quello che la gente vuole che rappresentiamo”.
Ben sottolinea questa personalità schizoide Marzia Gandolfi6: «Con Amy, corpo rigido e insensibile, la donna si fa mistero angosciante, pronta a ottenere il suo potere a ogni costo e con ogni mezzo, compreso quello di invischiare la preda in una tela di ragno camuffata da felicità coniugale. Assenza mai così presente e rivelazione bionda dentro un valzer di mostri di cui segna il passo, Rosamund Pike è la perfetta antagonista di Ben Affleck, abbagliante e (im)perturbabile, che trova l’epifania in un sorriso e l’attore dentro il riscatto di un personaggio assimilabile al suo. Trasposizione del bel romanzo di Gillian Flynn, che sceneggia il film, Gone Girl è testimone e giudice di quello che siamo veramente, al di là di tutte le apparenze e della capacità di costruire e abitare un teatro della mente. Teatro in cui si mettono in scena Amy e Nick, fatti davvero l’uno per l’altra, sovrani effimeri e officianti radiosi di una cerimonia barbara, dove i ‘fedeli’ scattano selfie e contemplano soddisfatti la propria immagine sul telefonino. Dopo aver compreso che in fondo anche per gli altri la felicità è una bufala.»
Nel momento in cui Amy è catturata nella casa iper-tecnologica dell’ex-spasimante Desi (Neil Patrick Harris), cambiano i rapporti di forze: da soggetto manipolatorio, la giovane sposa si trasforma in oggetto di ripresa delle videocamere di sorveglianza, passivo corpo sessuale alla mercé di un’ altra personalità borderline. Amy non può che mettere in atto l’assassinio di Desi proprio per mera sopravvivenza a dispetto del maschio prevaricatore, che la possiede come una cosa e la mette in mostra come una merce. Il suo trionfo avviene in un lago di sangue con un gesto improvviso quanto brutale, che fa coincidere orgasmo e morte, dopo una rigorosa e maniacale messa in scena.
Osserva acutamente Giancarlo Mancini7 «Mentre la macchina del thriller procede spedita, Fincher continua a mostrarci questo corpo e questo volto perfetto e a farci rifettere su qualcosa di misterioso e indicibile, su una paura che attraversa Amy come impercettibile tentazione di cedere e diventare una donna come tutte le altre. È uno spavento profondo proveniente da zone remote, imparentato con quello di Zuckenberg quando si trova davanti una ragazza che vorrebbe conquistare senza avere gli strumenti. Come lui Amy vorrebbe uscire dalla sua condizione asfittica ma non può, l’importante è quello che pensano gli altri non ciò che si è fatto davvero, cioè tradire. Continuare a reiterare il proprio personaggio letterario, è questa in fondo l’unica cosa che è stata in grado di essere e desiderare.»
Anche Luca Pacilio8 insiste su questa spettacolarizzazione della realtà «per una generazione che, dopo la televisione e il cinema, è cresciuta con internet, una generazione che fa capo allo stesso copione, un generatore pubblico di frasi e atteggiamenti che consente a chiunque sia un po’ scaltro di sapere cosa dire e come comportarsi: è questa capacità opaca, non la trasparenza, a garantire la vittoria.» Il paradosso fincheriano consiste nella bugia eretta a sistema di auto governo e della sua frammentazione nel mare dell’oggettività. Marco Grosoli tratteggia con finezza questo buco nero che assorbe tutto, paure e desideri, pensieri e intenzioni e rilancia allo spettatore il meccanismo proiettivo: «Possono mentire le persone ma l’apparenza non mente mai. Non mente mai, proprio perché non dice nulla. Non dicendoci nulla ci costringe a vedere, in essa, quello che noi vogliamo vedere nostro malgrado. O detto altrimenti, e più hithcockianamente, ci costringe a vedere ciò che lo sguardo dell’Altro vuole che noi vediamo».9
Dopo l’uscita del film sono state rivolte molte critiche (tra tutte ricordiamo quella della scrittrice Daria Maraini: «un film profondamente arcaico e misogino che nuoce alle donne»10) proprio per la descrizione feroce di una patologia psichiatrica che sfocia nell’assassinio e per la descrizione di una figura femminile pericolosa e incontrollabile. A confutare questo assunto vengono in aiuto le considerazioni di Luca Malavasi11: «La filosofia che vince non è certo quella di una donna mantide religiosa o dea che schiaccia e umilia e asservisce il maschio (a vedere il film dentro questa miopia interpretativa si finisce giocoforza per accusarlo di misoginia) ma quella perfetta e scintillante della più recente traduzione del colonialismo statunitense: fai della realtà ciò che desideri. Dille che faccia fare.»
Nell’immaginario collettivo una moglie tradita diventa una icona pop da venerare e idolatrare, in un reality show populista in cui tra un hot dog e una birretta entriamo nel privato altrui con la morbosa curiosità del voyeur sbavante. E le famose domande delle coppie sposate (Cosa pensi? Come ti senti? Cosa ci siamo fatti? Cosa ci faremo?) presuppongono verità che nessuno vuole o osa sentirsi dire. Quindi che lo spettacolo continui, la trama del matrimonio è finita nel cul-de-sac di una fiction post-televisiva, in cui uomini e donne fanno di tutto per sembrare speciali, ma purtroppo si scoprono mediocri.
David Fincher chiude il film con l’amara costatazione che il matrimonio è nient’altro che una bugia eretta a sistema di auto-mantenimento: evviva l’ipocrisia dei falsi sorrisi e delle false pose fotografiche, in fondo in fondo bisogna pure passare il tempo, bisogna pure che il corpo esulti. E c’è voluto del talento per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti12.
NOTE
1. J. Eugenides, La trama del matrimonio, Oscar Mondadori, Milano, 2012.
2. A. Camon, Grandi e piccoli: Hollywood e (forse) domani, in G.P. Brunetta (a cura di), Il cinema americano, Einaudi, Torino, 2006, pp. 1784-1785.
3. Sentieri Selvaggi, Gone Girl, http://www.sentieriselvaggi.it/le-verita-nascoste-di-david-fincher-lamore-bugiardo-gone-girl/
4. House of cards. Serie Tv prodotta da David Fincher. 2013-in produzione.
5. A. De Grandis, L’amore bugiardo – Gone Girl, SegnoCinema 192, Marzo-Aprile 2015, pp 29-30.
6. M. Gandolfi, Gone Girl, http://www.mymovies.it/film/2014/gonegirl
7. G. Mancini, L’amore bugiardo – Gone Girl.Vita segreta del cinema di genere, Cineforum 541, Gennaio Febbraio 2015, pp 25-27.
8. L. Pacilio. Gone Girl, http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5438
9. M. Grosoli, Gone Girl, http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5438
10. D. Maraini, «Corriere della Sera» del 30/12/2014.
11. L. Malavasi, Che faccia fare? Gone Girl – L’Amore Bugiardo, Marla n 4, gennaio-febbraio 2015, pp 9-11.
12. J. Brel. La canzone dei vecchi amanti dall’album Jacques Brel 67. 1967.