Da una parte c’è un’Italia che si è lasciata dolorosamente alle spalle la tragedia bellica, indirizzata verso la ricostruzione, sempre più urbanizzata e secolarizzata, dove il padronato aveva trovato una diversa libertà d’azione al termine della dominazione fascista.
Dall’altra c’è invece il cinema italiano entrato in una fase interlocutoria dopo la levata di scudi della prima fase neorealista e contemporaneamente alla ricerca di nuove chiavi d’accesso alla realtà e dello svecchiamento – se non proprio del rinnovamento – dei grandi miti della cultura nazionale (dal melodramma alla Commedia dell’Arte). 

Non bisogna dimenticarsi di questo contesto per tornare a riflettere, oggi, su La tratta delle bianche (1952) di Luigi Comencini. Parte di un dittico ideale con il precedente Persiane chiuse (1951) – dove Giulietta Masina interpretava il personaggio di una peripatetica prima di Lo sceicco bianco (1952, Federico Fellini) e Le notti di Cabiria (1957, Federico Fellini) –, il film non è certamente estraneo a modelli e tensioni del cinema neorealista ma le corde che vibrano al suo interno sono soprattutto quelle del mélo, dell’espressionismo langhiano e del noir americano. E va detto che – nel primo caso –  non si tratta del melodramma ottocentesco, verdiano o pucciniano, che ha portato risultati notevoli per via diretta (Matarazzo) o indiretta (Visconti), quanto di quello più sensazionalista e scabroso che spopolava oltreoceano. 

Sopra: un fotogramma di Le notti di Cabiria.
Sotto: una scena di M – Il mostro di Düsseldorf, evidente fonte d’ispirazione per il processo che chiude il film.

Uscito sei anni prima della promulgazione della Legge Merlin e la conseguente abolizione della prostituzione «regolamentata», La tratta delle bianche s’ambienta in una Genova brumosa e notturna dove il malvivente Machedi (Marc Lawrence) organizza estenuanti maratone di ballo attraverso le quali recluta per i suoi turpi commerci alcune ragazze (una di loro è interpretata da Sofia Lazzaro, non ancora Loren) che vivono in situazioni di estrema prostrazione o miseria. Coadiuvato dai suoi tirapiedi (tra cui figurano anche i giovani Vittorio Gassman ed Enrico Maria Salerno, quest’ultimo alla prima apparizione su grande schermo), Machedi assolda il giovane Carlo (Ettore Manni) come complice di un furto al proprietario (Franco Bologna) di uno sferodromo, salvo poi denunciarlo alle forze dell’ordine. Così, Alda (Eleonora Rossi Drago, già protagonista di Persiane chiuse) – fidanzata di Carlo – decide, pur essendo incinta, di partecipare proprio a una di queste maratone al fine di racimolare i soldi per il patrocinio legale dell’amato. 

Vittorio Gassman (sopra a destra) ed Enrico Maria Salerno (sotto)

Nel suo bel volume Con la rabbia agli occhi. Itinerari psicologici nel cinema criminale italiano, Fabrizio Fogliato ipotizza che per la stesura del soggetto (elaborato con Massimo Patrizi, Ivo Perilli, Antonio Pietrangeli e Luigi Giacosi) Comencini – al quarto film –  abbia tratto qualche giovamento dai suoi anni adolescenziali vissuti in Francia al seguito del padre. In fondo, lo straordinario romanzo Non si uccidono così anche i cavalli? di Horace McCoy, scritto nel 1935 e incentrato proprio su una logorante maratona di danza, venne tradotto per la prima volta oltralpe nel 1946 mentre in Italia era ancora inedito ai tempi della lavorazione del film. Improbabile, invece, che il regista avesse mai visto il purtroppo misconosciuto L’affare si complica [Hard to Handle, Mervyn LeRoy, 1933] con James Cagney, anch’esso incentrato su una delle cosiddette dance-a-thon. Di certo, l’opera del futuro regista di Tutti a casa (1960) precede di diciassette anni la trasposizione che Sydney Pollack fece del bellissimo romanzo di McCoy.

Sono molte le somiglianze tra La tratta delle bianche (a sinistra) e il film di Pollack (a destra) tratto dal romanzo di McCoy, come – curiosamente – la prossimità della sala da ballo all’orizzonte infinito del mare o dell’oceano.

E se il capolavoro di Pollack preconizzava la degenerazione della società dello spettacolo, sempre più orientata verso l’ossessione della performance (il talent show) e la frantumazione del tempo che fornisce l’illusione di una realtà in divenire (il reality), La tratta delle bianche fotografa il momento di passaggio di un Paese certamente strozzato tra povertà e crisi economica (i freschi ricordi della crisi della lira e della politica anti-inflazionistica di Einaudi) ma anche prossimo alla risalita del Boom (fuori dalla sala da ballo campeggia il manifesto pubblicitario della Coca Cola). Non è un caso, quindi, che gli spazi in cui si ambienta il film come «il porto di Genova, le baracche, lo sferisterio, la balera, il sotterraneo, il commissariato, il vagone del treno, rappresentano tutti luoghi di transito»1. 

Sperequazioni, sfruttamento, cupidigia, desideri incontrollati di denaro e potere, confini ambigui tra politica e malaffare, rapporti fondati sullo sfruttamento e il ricatto, tradimento e inganno, ambizioni e frustrazioni, bisogno di cambiare vita e beffardi ritorni al punto di partenza: tutti i contrasti e le inquietudini del film trovano espressione nella configurazione spaziale predisposta da Comencini e dal direttore della fotografia Luciano Trasatti. Lo sferisterio dove si gioca alla pelota, infatti, è uno spazio quasi metafisico dominato dai vuoti, la balera è un luogo inizialmente gremito di persone che si spopola progressivamente mentre il seminterrato dove Carlo presiede ex legis un processo sommario contro Machedi è un ambiente soffocante e sovraffollato. 

Lo sferisterio (figura 1) / La balera (figura 2) / Il seminterrato dove si officia il processo (figura 3)

Complementari e opposti per come lo spazio al loro interno venga occupato, tutti e tre questi luoghi-simbolo, però, sono strutturati secondo una precisa dialettica e costruiti su due livelli architettonici che materializzano precisi rapporti di potere: l’alto dove si osserva e si giudica e il basso che è invece teatro della performance per la quale si è osservati e giudicati.

Lo sferisterio (figura 1) / La balera (figura 2) / Il seminterrato dove si officia il processo (figura 3)
Performance che è a sua volta declinata nelle forme dell’agonismo rituale e un po’ astratto nel caso dello sport, dove il corpo sembra scomparire nell’istante del movimento; moto automatizzato e quasi robotico, pressoché privo di ogni espressività e ridotto alla pura esibizione angosciosa ed esacerbante (la maratona si protrae per 552 ore) nel caso della danza, espropriata per giunta di ogni impeto erotico e sensuale; simile a uno spettacolo gladiatorio con tanto di folla pronta a stabilire se l’imputato debba essere missus (risparmiato) o iugulatus (soppresso) in occasione del processo. Inoltre, ciascuno di questi tre luoghi incarna lo spirito di un genere di riferimento: lo sferisterio, con le sue penombre e la sua temporalità indeterminata, rimanda al noir; la sala da ballo, dove invece il tempo rallenta e il dramma irrompe in tutta la sua enfasi dolorosa, non può che evocare i fantasmi del mélo; il seminterrato, teatro del processo in una lunga sequenza chiaramente ispirata a M – Il mostro di Düsseldorf  [M – Eine Stadt sucht einen Mörder, Fritz Lang, 1931], cita i fasti dell’espressionismo tedesco. 

Sui titoli di testa scorrono le immagini di una partita di pelota allo sferodromo: i corpi degli atleti sembrano quasi annullarsi nell’estasi del movimento.

Il ballo come gesto automatizzato, robotico, ossessivo, alienante.

La folla e il processo sommario.

Analoga configurazione spaziale – seppur meno marcata – è adottata da Pollack nel suo Non si uccidono così anche i cavalli? [They Shoot Horses, Don’t They?, 1969]. Anche qui, gli osservatori posti sulle platee osservano i danzatori da una posizione soprelevata.

Insieme, questi spazi e questi generi raccontano un popolo in bilico tra individualismo e fatalismo2 (argomento tipicamente noirish), «con il suo carattere chiuso e concentrato, con la sua égalité de pauvres»3 (il finale espressionista) e, soprattutto, già prigioniero dei nuovi miti dello spettacolo (la lunga parentesi mélo). Il vero luogo-chiave della vicenda, il più importante e presente, è proprio la balera, dove le coppie ballano sfidando i limiti della resistenza fisica, tanto da dover ricorrere talvolta alla simpamina per poter continuare la gara, e l’evento viene «sensazionalizzato» quasi anticipando le future dirette televisive (le trasmissioni regolari della RAI sarebbe iniziate solamente nel 1954). Ambiente contemporaneamente gotico (l’ingresso a strapiombo sul Mar Ligure), barocco (l’ingresso) e sorprendentemente intimo tanto da essere un succedaneo del focolare domestico (le stanze e le camere da letto), dove si respirano «i miasmi del sudore, della fatica, della sofferenza di disperati che si massacrano le ossa inutilmente con il miraggio di un facile guadagno»4, il dancing è anzitutto una sorta di eterotopia che smaschera la vanità delle illusioni di chi la frequenta. Spasmodicamente atteso per giorni da molte delle giovani ballerine, attratte nella rete di Machedi grazie anche alla promessa di una futura carriera nello spettacolo, l’arrivo «dei produttori e dei registi del cinema» non dura che una manciata di secondi e si conclude con uno sprezzante commento («Sono pazzi!») rivolto ai presenti. 

Questa inedita mescolanza di generi e il loro specifico legame con gli spazi fanno di La tratta delle bianche uno dei film più sorprendenti del cinema italiano di quegli anni, soprattutto per la sua capacità di raccontare un presente incerto, ancore segnato dalle ferite dell’immediato dopoguerra, e allo stesso tempo di prefigurare le contraddizioni di un futuro solo apparentemente radioso. Con la stessa lucidità, spietata ma non cinica, spinta fino al paradosso ma non alla deformazione grottesca o caricaturale, di cui lo stesso Comencini avrebbe dato prova nei capolavori della maturità, da Lo scopone scientifico (1972) a Il gatto (1977), da Delitto d’amore (1974) a L’ingorgo (1979). Oggi e sempre tra i (tanti) titoli di gloria della nostra storia.

 

NOTE

1. F. Fogliato, Con la rabbia agli occhi. Itinerari psicologici nel cinema criminale italiano, Bietti, Milano, 2021

2. Le stesse caratteristiche che vi attribuisce Paul Ginsborg in P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi (1943-1988), Einaudi, Torino, 2006

3. Ibidem

4. F. Fogliato, Op. cit.