Maybe it’s better not to know

Jacques Tourneur s’infervorò per gli studi di psicologia setacciando tra i volumi dell’ampia biblioteca del padre Maurice, anch’egli grande regista1.
Ben presto, all’interesse per lo scandaglio scientifico dei processi mentali e comportamentali, l’autore de Le catene della colpa [Out of the Past, 1947] ha affiancato una passione insaziabile per il paranormale e per il sovrannaturale. Questa predilezione per tutte quelle forze invisibili e inconoscibili («maybe it’s better not to know» è la celebre battuta posta proprio in chiusura de La notte del demonio [Night of the Demon, 1957]2) che disintegrano i segni del reale attraversa, come un fiume carsico, tutta la produzione del regista, fino a condizionarne il piano dell’espressione e le strategie discorsive. Come, infatti, ha magnificamente sintetizzato Martin Scorsese:«È decisamente appropriato che molti dei film di Jacques Tourneur si confrontino con il sovrannaturale e il paranormale, perché il suo stesso tocco d’autore è contemporaneamente elusivo e tangibile, come la presenza di un fantasma»3.

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La celebre scena in piscina de Il bacio della pantera, ripresa da tanti registi tra cui il Dario Argento di Suspiria [1977].

Punto d’arrivo di questa progressiva messa in discussione della coincidenza positivistica tra categorie della ragione e categorie della realtà è proprio La notte del demonio.
Basato sul romanzo Casting the Runes di M.R. James, il film è tratto da una sceneggiatura di Charles Bennett (sodale di Alfred Hitchcock4 e detentore dei diritti del romanzo), il quale la vendette poi al produttore indipendente Hal E. Chester. Quest’ultimo, a propria volta, la rimaneggiò ulteriormente, suscitando inevitabilmente il malcontento di Bennett. Grazie all’intercessione di Ted Richmond – produttore del precedente (e bellissimo) film di Tourneur, L’alibi sotto la neve [Nightfall, 1956] – lo script passò infine nelle mani del regista de Il grande gaucho [Way of a Gaucho, 1952] che, in questa misteriosa e inquietante storia di antichi rituali celtici e magia nera sospesa tra paganesimo, esoterismo gnostico (e ricordiamo che il villain Karswell è vagamente ispirato alla figura di Aleister Crowley) e letteratura visionaria cristiana, ha trovato una sorta di concretizzazione sincretica delle proprie ossessioni.

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Un bellissimo fotogramma tratto da L’alibi sotto la neve

Protagonista del film è lo psicologo statunitense John Holden (interpretato da uno straordinario Dana Andrews, ancora in rehab per i suoi annosi problemi d’alcolismo), invitato in Inghilterra per partecipare ad un convegno di parapsicologia. Razionalista e scettico, Holden entra in contatto con la setta di adoratori del demonio guidata dal mago Julian Karswell (a cui Niall MacGinnis, contemporaneamente terrificante e fragile, dona una maschera indimenticabile), il quale si presume in possesso del potere di uccidere chiunque entri in possesso di un frammento di pergamena istoriato da simboli runici in grado di evocare un gigantesco diavolo alato. Deciso a smascherare Karswell come impostore, Holden scopre che il negromante potrebbe però essere il responsabile della morte dello stimato collega Henry Harrington (Maurice Denham), dalla cui figlia, Joanna (Peggy Cummings), Holden stesso comincia ad essere attratto. Una serie d’incidenti inspiegabili, però, porteranno lo scienziato a mettere in gioco le proprie certezze.

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La notte del demonio è probabilmente il film più personale di Jacques Tourneur.
Prima di addentrarci nella riflessione su questo straordinario horror, però, è necessario inquadrare molto brevemente la figura del regista all’interno della macchina produttiva hollwyoodiana, per comprendere, assai sinteticamente, attraverso quali piani è possibile ricostruire la sua identità d’autore.

Il “caso” Jacques Tourneur

«Ho sempre fatto quello che ho voluto. Non ho mai rifiutato una sceneggiatura»5, ha dichiarato Tourneur. Non è completamente vero, e, curiosamente, i pochi copioni da lui rifiutati sono quasi sempre diventati grandi film: Stasera ho vinto anch’io [The Set-Up, Robert Wise, 1949], Hai sempre mentito [A Woman’s Secret, Nicholas Ray, 1949] – il più debole del mazzo – e Il passo del diavolo [Devil’s Doorway, Anthony Mann, 1950].
Eppure, questa frase, se da una parte ci aiuta a sgombrare il campo da qualche equivoco autorialista, dall’altra ci consente anche di sottolineare l’unicità di un film come La notte del demonio all’interno di una produzione così stratificata e disomogenea. Riporta Chris Fujiwara, nella sua completissima monografia dedicata al regista, come circolasse nell’ambiente questa boutade:«Avete una cattiva sceneggiatura? Datela a Jacques Tourneur, ne caverà fuori qualcosa»6. Se si eccettua Stars in my Crown [id., 1950] – per inciso, uno dei western più belli della storia del cinema – raramente, prima di Night of the Demon, Tourner ha lavorato su di uno script che sentisse particolarmente suo. Persino la fondamentale trilogia orrifica diretta da Tourneur sotto l’egida di Val Lewton7 e composta da Il bacio della pantera [Cat People, 1942], Ho camminato con uno zombie [I Walked with a Zombie, 1943] e L’uomo leopardo [The Leopard Man, 1943] si attesta come «caso esemplare di film senza autore […] sorta di compromesso tra le ambizioni artistico-autoriali di Lewton e le finalità commerciali degli studios RKO» (Baldassari).

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Due fotogrammi tratti da Il bacio della pantera

Nonostante ciò, però, è possibile tratteggiare, anche all’interno di una filmografia così onnivora e complessa, che attraversa i generi (il noir, il western, l’horror, lo spy-movie, il melodramma) da prospettive e angolazioni diverse, alcune linee di forza di quella che potremmo definire una “poetica”.
Com’è possibile?
Certo, non è semplicemente questione della materia di partenza, di concetti e argomenti, nonostante p.e. il solerte Mike Grost (sul portale mikegrost.com) abbia stilato un lunghissimo e fin troppo meticoloso elenco dei temi-chiave che informano la filmografia del regista8. Piuttosto, i film di Tourneur sono interconnessi e risuonano gli uni negli altri come se fossero accomunati da una sorta di codice visuale. Interni illuminati da molteplici fonti di luce che creano un mondo alternativo (l’illuminazione, per Tourneur, è il massimo momento creativo della messa in scena) finendo talvolta per lasciare in secondo piano il fattore umano (assai acutamente, Fujiwara parla di «libertà dall’antropocentrismo»9), décor opprimenti saturi di elementi, composizione pittorica del quadro, ricorso al grandangolo e al panfocus che lascia una completa libertà di sguardo allo spettatore, predilezione per i campi medi e totali rispetto al primo piano o al dettaglio.

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Come avevamo scritto a proposito di un altro grande europeo emigrato a Hollwyood, il magiaro André de Toth10, ogni inquadratura di Tourneur nasconde tensioni e definisce rapporti di forza. Mette in relazione corpi e spazi, si raccorda in un montaggio che guida le prospettive di sguardo di spettatori e personaggi. Sovente, dalla concertazione del visivo emerge un profondo senso di precarietà (non a caso, il regista trova una misura perfetta nel fatalismo che permea un genere come il noir), dove paure, angosce e inquietudini sono rese palpabili e messe a nudo. Ricorrendo sistematicamente, come si è detto, al grandangolo e al panfocus, Tourneur porta in campo una sorta di sguardo incorporeo che ammanta l’immagine di una temporalità incerta. L’esperienza del tempo si trasforma attraverso il racconto: spesso e volentieri, i suoi personaggi (che Jacques Lourcelles, con espressione bellissima, ha definito «ombre attive»11) sono contemporaneamente prigionieri di meccanismi narrativi costruiti come veri e propri countdown verso il regolamento di conti conclusivo (si pensi a L’alibi sotto la neve o allo stesso La notte del demonio) e di un’architettura visiva che, non di rado, li esilia sullo sfondo o ai bordi dell’immagine (ritorniamo ancora alla «libertà dall’antropocentrismo» di cui parlava Fujiwara) per raccontarne la fallibilità, la coscienza offuscata, lo spirito disorientato.

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Questione, insomma, di “contenitore” prima ancora che di “contenuto”. Per questo, accordandoci a tale prospettiva, belli o brutti che siano, film “minori” come La piovra nera [The Fearmakers, 1958] o Il gigante di New York [Easy Livin’, 1949] non sono meno personali (o impersonali) di capolavori come Il bacio della pantera o Ho camminato con uno zombie.
«Tourneur n’existe pas» ha scritto Louis Skarecki su Caméra/Stylo12. Tourneur non esiste. O, meglio, ancora, si nasconde all’interno delle relazioni prospettiche e del congegno visivo che reggono i suoi film.

ho camminato con uno zombie demonio

Vero e proprio maestro di bottega, come un artigiano delle grandi corporazioni di mestiere del Medioevo, Tourneur è in grado di piegare il sapere tecnico per creare un cinema capace di cristallizzare le pulsioni di un pubblico tutt’altro che omogeneo.
La notte del demonio, per certi versi, rappresenta la sublimazione di tutte le caratteristiche che abbiamo qui sopra brevemente elencato.

Educazione allo sguardo

The real horror is to show that we all live unconsciously in fear13
– Jacques Tourneur 

Ha scritto il solito Chris Fujiwara:«la undermostrativness [termine che, per evitare di lasciare per strada qualche sfumatura semantica, preferiamo non tradurre, NdA] è tipica dello stile di regia di Tourneur.»14
Può sorprendere, in effetti, che nelle prime battute de La notte del demonio si verifichi, all’opposto, un eccesso di mostrazione. Pur anticipato da tutto l’armamentario di fumi lattescenti e presagi numinosi, il colossale mostro del titolo fa la sua comparsa nelle prime scene, recidendo qualunque dubbio sulla sua esistenza e proiettando lo spettatore in uno specifico orizzonte di credenza della non-realtà. Questa scelta, infatti, è contraria alla volontà di Tourneur (il quale avrebbe preferito che il demone non vi comparisse mai) ed è frutto di un’interpolazione del produttore Hal E. Chester. Una simile risoluzione, di fatto, spoglia il film di qualunque ambiguità sullo statuto di realtà della minaccia (non bisogna dimenticare che il protagonista Holden appare per la prima volta addormentato) e lo distanzia, per esempio, da un film come Ho camminato con uno zombie, dove una spiegazione scientifica degli eventi e una fantastica sono invece contemporaneamente possibili.
Allo stesso tempo, però, finisce per porre al centro del racconto il percorso di progressiva educazione all’irrazionale dello scettico Holden, personaggio «che, impegnato in una missione per ridimensionare tutte le forme di credenza nel soprannaturale, finisce per trasformarsi in un credente […] [rappresenta] l’incarnazione meglio sviluppata del tipo di eroe tourneuriano che entra in una sorta di “mondo parallelo” (per citare una delle tematiche predilette dal regista) e ne esce più umile.»15

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Se riprendiamo la celebre tripartizione proposta da Tzvetan Todorov, possiamo perciò sostenere che La notte del demonio non è un film fantastico (in cui, come appunto in Ho camminato con uno zombie, il racconto rimane in un limbo d’incertezza tra naturale e sovrannaturale) né perturbante (in cui si supera la discrasia scientifico/sovrannaturale in nome di una prevalenza delle forze della ragione e della natura) bensì un’opera avvolta dai crismi del meraviglioso (ovvero dove il binomio naturale/sovrannaturale si risolve in una spiegazione che certifica l’esistenza del secondo termine). Al di là dell’eccesso semplificatorio della teoria di Todorov (riconosciuto in seguito anche dal filosofo stesso), è interessante, ad ogni modo, parlare della progressiva presa di coscienza di Holden come di una sorta di processo di educazione alla meraviglia. Centro focale della produzione horror di Tourneur, infatti, è lo stupore per l’inatteso, per la possibilità di entrare in contatto con il rovescio (anche simbolico: non è difficile, infatti, rivedere suggestioni freudiane in film come Il bacio della pantera o L’uomo leopardo) delle consuetudini razionali. «Detesto l’espressione film horror .– ha dichiarato assai significativamente, il regista – Faccio film sul tema del soprannaturale e li faccio perché ci credo.»16

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A Tourneur, perciò, non interessa la rappresentazione dell’orrore come specchio rovesciato del mondo. Lo attrae invece la possibilità di raccontare la paura («we all live unconsciously in fear»), l’angoscia e l’inquietudine che emergono dalla messa in discussione delle leggi che regolano l’esistente. Centrale, nei grandi horror di Tourneur, è lo sgomento che si prova di fronte all’allargamento degli orizzonti del possibile.
Sotto questo versante, il percorso di Holden diventa davvero una sorta di confessione d’intenti: il protagonista compie un cammino che è lo stesso al quale il regista vorrebbe sottoporre il proprio spettatore. Un tragitto che, all’interno del film, si configura come una sorta di detective story condotta attraverso l’interpretazione di tutta una serie di tracce, indizi, avvisaglie perturbanti e circostanze misteriose. Un misterioso manoscritto contenente un’invocazione al maligno (la cui unica copia è nelle mani dell’enigmatico e vanesio Karswell), l’incontro con una comunità di misteriosi abitanti di un villaggio agricolo, una seduta spiritica, la decifrazione di alcune iscrizioni nascoste tra i massi di Stonehenge: come, curiosamente, avverrà sedici anni dopo ne L’esorcista [The Exorcist, William Friedkin, 1973], le certezze di paglia della civiltà urbano-borghese si stemperano al contatto con un universo via via sempre più misterico e occulto, intriso di un paganesimo arcano di tradizione rurale.

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Allo stesso modo, il sovvertimento dei principi logici passa attraverso il confronto con una serie di eventi implausibili: la scomparsa dell’inchiostro su di un biglietto da visita, l’improvviso cambiamento delle condizioni climatiche ad una festa organizzata da Karswell per alcuni bambini, la trasformazione imprevista di un gatto in un felino predatore che aggredisce Holden, infiltratosi nottetempo nella magione di Karswell, il trapelare di misteriosi rumori oscuri nei pressi di un ascensore ecc.

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A Tourneur, in particolare, interessa oggettivare questa progressiva erosione dei nessi razionali (esperita, val la pena ricordarlo, contemporaneamente dal protagonista e dagli spettatori) accendendo tutta una serie di spie che incrinano la superficie del visibile. L’inquadratura si riempie di elementi inesplicabili che, pure, hanno diritto di cittadinanza nel mondo possibile messo in scena.
L’esempio più eclatante è quello della mano che compare, stringendo la ringhiera di una scala in muratura a doppia rampa, durante l’effrazione notturna compiuta da Holden nell’abitazione di Karswell allo scopo di cercare l’unica copia del testo On the True Discoveries of Witches and Demons. Una mano che non appartiene a nessuno dei personaggi (non é né di Karswell né di sua madre) e scompare o ricompare nelle inquadrature successive alla sua apparizione senza ossequiare alcuna logica spaziotemporale. «Ho impiegato molto tempo a scegliere questa mano e alla fine ho preso quella di un uomo anziano molto vicino alla morte.», ha dichiarato il regista. Lo scopo era semplicemente quello di «inserire all’improvviso dettagli inspiegabili all’interno dell’inquadratura.»17

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Inevitabile, comunque, che questo percorso di educazione al meraviglioso, all’implausibile, a ciò che eccede le normali traiettorie del pensiero positivistico/scientista, si tramuti anzitutto in un’educazione allo sguardo.
Come già ribadito, uno dei primi gesti compiuti da Holden, sull’aereo che lo trasporta dagli Usa all’Inghilterra, è, simbolicamente, quello di chiudere gli occhi.

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Una cecità metaforica che Tourneur sottolinea anche dopo il primo incontro tra Holden e Karswell.
Il primo, dopo aver ricevuto dal secondo un’inquietante biglietto da visita dove, vergato da una strano inchiostro steso a mano, è contenuto un riferimento alla morte del collega Harrington, incredulo per la strana coincidenza, compie il gesto di serrarsi gli occhi tra pollice e indice.

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Non di rado, Tourneur costruisce le sequenze come se fossero potenzialmente scandite dallo sguardo di Holden, raccordando la successione delle inquadrature sulla base proprio della direzione dello sguardo dello scienziato. In questo modo, il film si trasforma in una sorta di messa in scena, in semisoggettiva, del campo visivo e dell’orizzonte percettivo del protagonista che finisce, sovente, per coincidere con quello dello spettatore.

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Curiosamente, il primo accenno di dubbio, destinato a scardinare il rigido schematismo intellettuale di Holden e legato ad alcune pagine misteriosamente strappate dal suo quaderno di appunti, è esibito in una scena che si conclude invece con un metaforico sbarrar d’occhi.

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La notte del demonio, insomma, diviene anche il racconto di un’ideale palingenesi dello sguardo.
Da essa, non è certamente escluso lo spettatore, il quale, anzi, viene attivamente coinvolto in un percorso di dispersione scopico/percettiva. Aiutato anche dalle straordinarie scenografie di Ken Adam (futuro architetto della saga di 007 e di Stanley Kubrick), tra pavimenti a scacchi, ampie vetrate e spazi sovraccarichi al cui interno l’occhio è libero di vagare senza alcun centro focale, Tourneur rende lo spettatore compartecipe dello sbandamento visivo e sensoriale del suo protagonista.
In particolare, possiamo rilevare tre modalità di interrogazione del visibile che mettono direttamente in gioco lo sguardo dello spettatore.

1) una sorta di soggettiva “irreale” che rappresenta il campo svisato e allucinato di un personaggio in campo.
Succede, ad esempio, proprio dopo che Holden ha ricevuto il minaccioso biglietto da visita di Karswell.

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2) il ricorso ad un campo medio o campo lungo in cui lo sguardo dello spettatore è attratto da un elemento che non occupa il centro del quadro.
Durante una telefonata tra Holden e Karswell p.e. vediamo quest’ultimo posto al centro del fotogramma, impegnato nella conversazione: l’attenzione dello spettatore, però, è invariabilmente richiamata da un quadro con due teschi collocato nel margine sinistro del frame.

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3) l’impiego della carrellata frontale che permette di avere perfetta contezza di posizioni, sguardi, paure e desideri dei personaggi in campo.
La ritroviamo in un breve dialogo tra Holden e Karswell, durante una festa organizzata nella villa di quest’ultimo, in cui i due manifestano le proprie posizioni antitetiche in materia di forze misteriose e sovrannaturali.

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Le prime due modalità identificano una visualità indecifrabile e/o sovraccarica d’informazioni, al cui interno lo sguardo dello spettatore, come scosso da una lieve vertigine, si perde, incapace di trovare un preciso punto di focalizzazione. La terza, per contro, non mette più in gioco la percezione immaginativa dello spettatore ma riproduce un orizzonte visuale perfettamente nitido e armonioso. Il film, infatti, oscilla tra questi due poli: la rappresentazione dei “segnacoli oscuri” (riprendendo un’espressione utilizzata da Umberto Eco nel prologo de Il nome della rosa) di cui è intessuta la realtà e la loro progressiva messa a fuoco.

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Tutto il film, di fatto, è informato dal tema del doppio. Una duplicità insanabile che trasforma il mondo rappresentato in un labirinto inestricabile e trova il suo massimo compendio nel rapporto tra i due personaggi principali.
Se con, fin troppa evidenza, il magnetico Karswell rappresenta hitchockianamente il doppio oscuro di Holden, è pur vero che, il primo, afflitto da un irrisolto complesso di Edipo, luciferino, narcisista e, allo stesso tempo, dotato di una certa mitezza di carattere e di modi gentili (ricordiamo che lo sceneggiatore Charles Bennett è autore del soggetto della prima versione de L’uomo che sapeva troppo [The Man Who Knew Too Much, Alfred Hitchcock, 1934], il cui villain Abbott – interpretato da Peter Lorre – anticipa per certi versi alcune caratteristiche di Karswell) incarna meravigliosamente quel «rapporto tra conoscenza e morte»18 che è vero e proprio filo rosso de La notte del demonio. Erede ideale di Amleto e Achab e precursore dell’impenetrabile Blicero, il perverso e ambiguo ufficiale delle SS de L’arcobaleno della gravità, Karswell rinsalda sulla propria figura il mito romantico della ricerca dell’assoluto, delle forze nascoste dietro la ragione e, allo stesso tempo, ribadisce la maledizione di Frankenstein e dei pericoli connessi al voler eccedere i limiti della conoscenza.

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Più romantico che gotico, Night of the Demon mette in guardia contro i rischi del voler guardare troppo a lungo e troppo in fondo. «Maybe, it’s better not to know»: educare lo sguardo significa poterne controllare la misura, lasciare a se stessi la libertà di non vedere.
Il discorso non è contraddittorio con quanto espresso in precedenza: superato il proprio scetticismo e raggiunta una nuova consapevolezza, Holden finisce per distinguersi da Karswell perché, contrariamente a quest’ultimo, comprende come, talvolta, sia preferibile chiudere gli occhi.

 

NOTE

1. Maurice Tourneur fu uno dei grandi protagonisti della stagione del muto. Tra i suoi film sonori possiamo ricordare La mano del diavolo [Le main du diable, 1942], fascinoso horror venato d’atmosfere gotico/fantastiche che, per certi versi, anticipa proprio La notte del demonio.
Il giovane Jacques, inoltre, compì il proprio apprendistato come montatore di alcuni film del padre, girati dopo il ritorno in Europa di quest’ultimo. 

Per un approfondimento si consiglia la lettura del testo di Fujiwara più volte citato in questa sede (per i riferimenti si rimanda alle note successive)

2. Negli Stati Uniti, il film è conosciuto anche con il titolo alternativo Curse of the Demon 

3. Prefazione a C. Fujiwara, Jacques Tourneur. The Cinema of Nightfall, McFarland & Company Inc., Jefferson (North Carolina) e Londra, 1998, p. 11 

4. Nel film, in fondo, sono ravvisabili diversi temi hitchcockiani: dal travagliato processo iniziatico di formazione della coppia all’interno di una situazione di pericolo al complesso rapporto edipico tra il villain Karswell e la madre, che dona al personaggio una statura ancora più ambigua e moderna. 

5. C. Fujiwara, Op. cit., p. 16 

6. Vedi nota precedente 

7. Per approfondire si legga l’articolo dedicato a Il bacio della pantera su queste pagine 

8. Consultabile qui: http://mikegrost.com/tourneur.htm 

9. C. Fujiwara, Op. cit., p. 24 

10. Si confronti con il nostro articolo monografico dedicato ad André de Toth   

11. L. Skarecki, Caméra/Stylo n°6, maggio 1985, p. 5 cit. nel volume Jacques Tourneur edito in occasione della personale del regista presentata al Festival di Locarno del 2017 

12. C. Fujiwara, Op. cit., p. 19 

13. cit. in C. Fujiwara, Op. cit., p. 338 

14Ibidem, p. 15 

15Ivi, p. 21 

16. cit. in C. Fujiwara, Op. cit., p. 330 

17. Ibidem, p. 342 

18Ivi, p. 348