Il Novecento, come si è più volte detto, è il secolo del cinema. E mai come in questo ultimo lustro il cinema ha cercato di fare i conti con il suo momento storico d’elezione: tanto per vagliarne il retaggio quanto per prenderne le distanze, tanto per cercare di restituirne un’immagine filtrata dallo scorrere del tempo quanto per individuarne i margini nudi e gli altari ancora scoperti. Un filone di pensiero non estraneo a diversi film presentati a questa edizione della Mostra del Cinema. Ma se Marcia su Roma (2022) di Mark Cousins parte come uno splendido critofilm che analizza l’infausto A noi! (1923) di Umberto Paradisi per poi limitarsi a impaginare una superficiale cronistoria dei totalitarismi novecenteschi e infine – un po’ cialtronescamente – individuarne le contemporanee recrudescenze, decisamente più meritevoli d’attenzione sono altri due film: il documentario The Kiev Trial [id., 2022] di Sergej Loznitsa (per comodità utilizziamo questa traslitterazione, la più comune ma non la più corretta) e il tragicomico post-beckettiano Gli spiriti dell’isola [The Banshees of Inisherin, 2022] di Martin McDonagh.
In entrambi i casi, il territorio d’indagine è per certi versi il medesimo del recentissimo Fairytale [id., 2022], l’ultimo capolavoro di Aleksandr Sokurov presentato a Locarno: il lascito del Novecento, infatti, si manifesta anzitutto attraverso un onnipervasivo senso di morte, da intendersi come tentativo di rielaborare il lutto (Loznitsa) o come paura per la sua imponderabilità (come succede al personaggio interpretato da Brendan Gleeson ne Gli spiriti dell’isola). Convocata sul banco dei testimoni, la Storia nel Novecento si svela per la prima volta come soggetto e non come oggetto, il rapporto tra individuo e mondo si ribalta, il primo sembra quasi emanazione di sconvolgimenti e paranoie del secondo. La “Norimberga di Kiev” di cui racconta Loznitsa – a controcanto ed espansione del precedente e monumentale Babi Yar. Context – restituisce a immagini d’epoca girate da anonimi (e straordinari) cineoperatori il ruolo inedito di convogliare il senso di orrore per una realtà dove la morte sembra porsi come unico strumento d’interpretazione della vita; il conflitto che vede opposti il Candide interpretato da Colin Farrell e il compositore interpretato da Brendan Gleeson ne Gli spiriti dell’isola, che pesca tanto dal teatro dell’assurdo quanto da un certo post-pirandellismo riletto alla luce di Alfred Jarry, diventa incarnazione fin schematica della guerra civile irlandese, secondo un’idea di lotta fratricida che può concludersi necessariamente con l’alterazione definitiva dello status quo. Senza dimenticare che in Saint Omer [id., 2022] di Alice Diop l’eredità postcolonialista rifulge nella vicenda di una madre che ha ucciso la propria figlia per motivi del tutto incomprensibili.
Ripercorrendo il Novecento, di fatto, il cinema sembra volerlo mettere da parte senza mai riuscirvi pienamente, come se il secolo breve fosse ancora il punto di riferimento attraverso cui filtrare e analizzare ogni cambio di paradigma della civiltà delle immagini e ogni tentativo d’interpretazione della Storia. In un momento in cui – come abbiamo scritto su queste pagine – la morte sembra essere diventata il denominatore comune della stragrande maggioranza della produzione audiovisiva, ecco che il cinema si volge nuovamente indietro al Novecento per celebrare una sorta di rito di espiazione. Come se volesse nuovamente guardare in faccia la morte stessa dopo averla per decenni mitizzata e ritualizzata, trasformata in limes, in rito di passaggio e non riprodotta come incarnazione assurda e terribile della fine.