Con La terra promessa [Bastarden, 2023] Nikolaj Arcel realizza una sorta di doppio speculare del suo Royal Affair [En kongelig affære, 2012], anch’esso ambientato nella Danimarca del Settecento durante il regno di Cristiano VII: se nel film precedente Mads Mikkelsen interpretava un uomo di scienza, il medico Johann Friedrich Struensee, esponente di un sapere positivista profondamente avversato dalla fronda nobiliare, qui è invece il militare tedesco Ludvig Kahlen, giunto nella penisola dello Jutland per bonificare la brughiera e renderla coltivabile. Se in Royal Affair le leggi del progresso e della scienza soccombevano di fronte alla cecità di un potere orientato solo alla propria autoconservazione, qui il conflitto si sposta verso il confronto tra natura e tecnica. Lo sintetizza la prima conversazione che il protagonista conduce con il sadico nobile De Schinkel (Gustav Lindh): il sogno di sottrarre alla natura il dominio incontrastato sulla vita è destinato a sfociare inevitabilmente nel caos e nella distruzione. Una tesi forse semplicistica, in stretta assonanza però con uno dei temi che, espresso in maniera non sempre immediata, unisce diversi tra i primi film proiettati alla Mostra. Uno su tutti: El Conde [id., 2023] di Pablo Larraín.

Il film del regista cileno parte da una premessa paradossale: immaginare che Augusto Pinochet fosse in realtà un vampiro che ha inscenato la propria morte e ora trascina una non-esistenza sospesa tra l’istinto di sopravvivenza e il desiderio di porre realmente fine a questo surrogato di vita. Nato Claude Pinoche, contadino francese che assiste alla Rivoluzione francese prima come sanculotto e poi abiurandone i valori (un modo per mettere in parallelo il passaggio dai moti egualitaristico-progressisti all’assolutismo bonapartiano con quello tra Allende e lo stesso Pinochet?), il generale (interpretato da Jaime Vadell) deve qui fronteggiare sia una situazione famigliare assai complicata (con la moglie e i quattro figli – questi ultimi tra le figure più patetiche e miserabili viste al cinema di recente – che cercano in ogni modo di ereditarne le cospicue ricchezze nascoste) sia l’attrazione che prova per la misteriosa e affascinante Carmen (Paula Luchsinger), incaricata di scovare proprio il patrimonio accumulato durante la dittatura.

Quello che interessa maggiormente a Larraín non è costruire una nuova parabola sull’eterno ritorno del Male (ancora una volta, dopo Spencer [id., 2021], piomba il fantasma di Shining [id., Stanley Kubrick, 1980]) o seminare il dubbio che dietro il germe della rivoluzione si nascondano già i semi della sua distruzione, quanto usare il vampirismo per la sua fin troppo evidente componente metaforica. Certamente perché il “succhiasangue” Pinochet ha ridotto il Cile in uno stato di prostrazione anemica. Ma anche perché dietro l’immortalità di Pinochet riverbera da una parte il grido d’angoscia per l’impunità dei suoi crimini (il dittatore non fu mai processato e godette dell’immunità giuridica) e dall’altra la “cecità” di chi ancora oggi si rifiuta di ammettere e ricordare (nel 2021, l’Assemblea costituente ha dovuto riconoscere come crimine il negazionismo dei crimini di Pinochet). Eppure, dietro l’irrisolta commistione di satira e orrore, il bianconero piatto e gli effetti di split diopter di Ed Lachman (pegno inevitabilmente pagato alla committenza Netflix), si nasconde una riflessione in minore su una civiltà impossibile da redimere, dove su ogni forma di potere, spirituale e temporale, si avvolge una spirale di decadenza, corruzione e malvagità. La stessa che discende anche sui personaggi, ognuno portatore di un preciso ruolo simbolico.

Il rudimentale, perenne e insanabile dualismo tra ordine e caos, generazione e distruzione, in questi film, rimanda a una concezione della storia contemporaneamente deterministica e ateleologica: la perpetuazione del caos (ne La terra promessa) e del Male (nel Conde) sono quasi un dato genetico, non prevedibile e non eludibile. Con la differenza che nel film di Arcel rimane viva la possibilità, per i singoli, di riscrivere le coordinate del proprio destino malgrado tutto, mentre in Larraín l’inesauribile, hobbesiano agone per la sopraffazione si cela dietro quasi ogni rapporto. Eccezion fatta, in parte, per i legami… di sangue.