Con la sua ultima opera, già assurta agli onori della cronaca per il puntuale strascico di reazioni polemiche e scandalizzate, Lars von Trier dà nuovamente prova dell’innata propensione del suo cinema provocatorio ed urtante a muoversi lungo una duplice direttrice di destinazione: l’io e gli altri, con dicitura che mutuiamo da un celebre studio di Ronald Laing sulla psicopatologia delle interazioni sociali1. Da un lato dunque l’urgenza impellente di scandagliare le proprie ossessioni autobiografiche, di mettere a nudo debolezze ed angosce a scopo terapeutico in un dialogo costante con sé stessi; dall’altro la volontà di inquadrare tali sfoghi nichilistici all’interno di meccanismi ben oliati e pianificati a tavolino, di esporre ad un uditorio che si vuole inorridito la propria desolante concezione della realtà con l’ausilio di una forma comunicativa che non esiteremmo a paragonare al trattato, o al limite ad un romanzo a tesi. Anche nell’efferato grandguignol di La casa di Jack [The House That Jack Built, 2018] convivono questi due momenti all’apparenza contraddittori, l’uno tutto rivolto all’esplorazione ripiegata della propria privata interiorità, l’altro votato invece all’ottenimento di una corrosiva decostruzione dei luoghi comuni della morale corrente con una perseveranza che rischia di passare per semplice gusto di épater le bourgeois. Potremmo anzi affermare che mai come in questo caso entrambe le istanze che hanno animato le più recenti realizzazioni del cinema trieriano si sono imposte con una tale evidenza da ripercuotersi sulla materia filmica stessa e renderla quasi succube dei loro fini.

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Jack e alcune delle sue vittime, di sesso per lo più femminile.

Se è infatti vero che il momento autobiografico costituisce la spinta da cui il regista danese ha tratto il nucleo germinale della sua trilogia della depressione, non era mai accaduto che egli si trasponesse in maniera tanto immediata e palese nel protagonista di un suo film. Caso più unico che raro nel cinema di von Trier, l’eponimo e onnipresente Jack (Matt Dillon) è innanzitutto un uomo e in quanto tale viene a interrompere la funzione di perno prospettico che l’intera trilogia assegnava all’elemento del femminino2 – e con essa l’ambiguità di approccio che ha sempre alimentato con compiacenza il mito della presunta misoginia dell’autore – per dotare il tutto di un punto di vista esclusivamente maschile, dove la donna diventa puro materiale da rimodellare e plasmare in cerca dell’opera d’arte definitiva. Il serial killer americano di cui ci vengono narrate le turpi prodezze intraprese nell’arco di poco più di un decennio tra gli anni 70 ed 80 è per l’appunto anche convinto fautore di un articolato pensiero estetico che vede nella putrefazione e nel disfacimento dei corpi l’ideale processo degenerativo su cui innestare il potenziale liberatorio di un gesto artistico concepito come rivoluzionario. Ingegnere con ambizioni creative in campo architettonico, Jack non colleziona nel corso del film soltanto una serie di brutali e raccapriccianti delitti ma vere e proprie performances non dissimili negli intenti da quelle praticate da noti esponenti delle frange più estreme dell’arte del Novecento come Hermann Nitsch e Otto Mühl. La sua carriera di artista criminale risulta in questo senso una chiara metafora del percorso compiuto dallo stesso von Trier, che a un certo punto si premura peraltro di sciogliere ogni dubbio inserendo a commento delle disquisizioni teoriche del pluriomicida una selezione di scene estrapolate dalla propria filmografia.

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Da sinistra a destra, gli estratti coprono la quasi totalità delle regie di von Trier: Europa [id., 1991], Medea [id., 1988], Nymphomaniac [id., 2013], L’elemento del crimine [Forbrydelsens element, 1984], Dogville [id., 2003], Le onde del destino [Breaking the Waves, 1996], The Kingdom [Riget, 1994], Antichrist [id., 2009].

Appurata dunque la centralità che ne La casa di Jack rivestono l’esigenza autoanalitica e l’esibizione del sé, bisogna ora sottolineare come per altro verso vi si rilanci con rinnovato vigore l’impostazione enciclopedico-didascalica già sperimentata nei due tortuosi volumi di Nymphomaniac [id., 2013]. Al pari di quanto accadeva nel confronto serrato tra i personaggi antitetici di Joe e Seligman, che intessevano il loro dialogo con una fittissima trama di analogie e digressioni di varia natura, nel racconto di Jack assistiamo ad un sovrabbondante proliferare di incisi esemplificativi sugli argomenti più disparati e divagazioni che prendono le mosse dai fatti descritti per comprovare la validità di concetti e teorie. Le vicende – organizzate secondo la consueta struttura in capitoli che caratterizza il narrare episodico e discontinuo tipico del regista – vengono così inframmezzate a notazioni didattiche sulla caccia al cervo e le tecniche vitivinicole con tanto di terminologia settoriale, citazioni iconografiche e letterarie all’opera di William Blake3 e insistenti richiami alla figura di Glenn Gould, ragionamenti condotti in forma di dimostrazione logico-matematica, riflessioni sull’importanza delle icone al di là del bene e del male nella società contemporanea che parrebbero fare il verso alle Mythologies di Roland Barthes o agli scritti di Susan Sontag sulla rappresentazione della violenza nei media. In corrispondenza di queste pause il girato lascia volentieri spazio ad immagini di repertorio ricavate da filmati d’epoca in bianco e nero e documentari, oppure si contamina e imbastardisce tramite innesti ex abrupto di fotografie, riproduzioni di dipinti e disegni, cartelli illustrativi e persino sequenze animate.

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Alcuni esempi dell’enciclopedismo polimorfo manifestato di continuo dal film: in alto, un cartello illustra la statica delle volte a botte per evidenziare il lato ingegneristico dell’omicidio; più sotto, la dinamica delle ombre proiettate nello spazio tra due lampioni è accostata al moto ondivago di piacere e dolore che induce a cercare sempre nuove prede da uccidere; in basso, le teorie artistiche di Jack espresse da un filmato d’archivio sugli Stuka nazisti e uno split screen riassuntivo delle principali tecniche di decomposizione degli zuccheri in uso nell’industria vinicola.

Anche qui le dissertazioni in voice over scaturiscono da un orizzonte dialogico di impianto quasi platonico, che vede rapportarsi due concezioni opposte del mondo incarnate in altrettanti personaggi emblematici. A fare da contrappeso alla megalomania nichilista e all’estetica destrutturante del serial killer interviene infatti la voce di un misterioso interlocutore di nome Verge (Bruno Ganz), che si fa portatore dei principi di un umanesimo fiducioso nelle capacità della ragione e dell’uomo: non a caso, dato che nell’epilogo egli si rivelerà essere il poeta latino Virgilio incaricato di scortare l’anima di Jack all’inferno in un viaggio oltremondano ricalcato sul modello della Commedia dantesca. Alla visione cinica e disincantata della maschera trieriana questi risponde bollandola come frutto di un patetico tentativo di nobilitare le sue miserevoli malefatte e ponendo invece l’accento sui valori etico-estetici caratteristici della classicità – pietas, equilibrio, misura, armonia, valori invisi alle irregolari deformità sopraggiunte con la crisi novecentesca. Se Verge si richiama a teorici del neoclassicismo come il Goethe della Weimarer Klassik, i referenti artistici di Jack-von Trier sono le avanguardie storiche e i suoi precursori romantici e ad attestarlo troviamo in apertura una lunga dissolvenza che opera un montaggio formale tra il volto sfigurato della sua prima vittima e opera d’arte (Uma Thurman) e un quadro cubista di Juan Gris.

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Il film sembra perciò declinare la medesima ossatura di Nymphomaniac virando dall’eros al thanatos e dal femminile al maschile, ma saltano all’occhio alcune macroscopiche differenze concernenti le modalità con cui tale strategia di discorso si attua. In primo luogo non è qui l’interlocutore ma proprio il protagonista alteregoico a farsi carico della funzione digressiva di cui abbiamo detto: Verge non è Seligman, il suo contributo alla discussione si limita a porre un argine4 e ad invalidare le affermazioni di Jack, mentre tutti gli esempi e le spiegazioni sono portati appunto da quest’ultimo. Ciò che ne consegue è un’accentuazione della dimensione enunciativo-dimostrativa alla base del cinema di von Trier, atta a veicolarne il pensiero o quello che l’autore si diverte a farci credere che esso sia, sebbene subisca al contempo un impulso anche l’azione di autosvalutazione denigratoria affidata alle critiche impietose di Verge. Va inoltre notato il fatto che malgrado la temporalità dei due film sia ugualmente circolare, con una cornice che racchiude una catena di flashbacks, la messinscena si ostina qui a negare fino alla fine la rappresentazione dei personaggi al livello diegetico primario, relegandoli al ruolo di voci fuori campo per tutta la durata dei cinque episodi: il film si apre su di uno sfondo nero, con il solo rumore acusmatico dell’acqua di falda a definire l’ambiente ctonio in cui avverrà lo scambio di battute, e fino all’epilogo non ci è dato conoscere se non grazie a pochi indizi sonori e verbali la situazione e lo scenario di riferimento5.

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Sopra, La barca di Dante di Eugène Delacroix; sotto, Jack e Verge attraversano lo Stige.

Per quanto riguarda il piano stilistico l’impressione generale è quella di trovarsi ancora una volta di fronte ad un oggetto cinematografico dall’inafferrabile e scabro metamorfismo, le cui opzioni registiche sterzano bruscamente da un polo all’altro dell’ampia gamma di possibilità che il medium offre senza curarsi di smussare i violenti scarti generati da una tale eterogeneità. La casa di Jack si inserisce a pieno titolo entro le coordinate formali di quella convergenza dissonante delle molteplici e discordi sperimentazioni linguistiche rintracciabili nel corso della carriera del regista, innescatasi come sottolineato da Nicolò Vigna6 a partire da Antichrist [id., 2009] e ben presente anche nei successivi capitoli della trilogia della depressione. Impossibile infatti non rilevare lo spessore del divario estetico che viene a stabilirsi tra le sequenze dedicate alle cruente uccisioni di donne e bambini, in cui predomina lo stile realistico e convulso messo a punto ai tempi di Dogma 95 e del suo decalogo mimetico, e la raggelata staticità dei tableaux vivants pittorici che compongono la catabasi infernale descritta nell’epilogo – in posizione simmetrica rispetto a quelli che introducevano Antichrist e Melancholia [id., 2011]. Qui scompaiono le riprese barcollanti effettuate con la camera a mano, le grossolane zoomate sui volti degli attori, il montaggio frammentario e discontinuo dato dagli scavalcamenti di campo e dai repentini jump cuts, il profilmico depurato dagli oggetti di scena e tutto quanto ancora potrebbe contribuire alla resa spontanea e naturalistica perseguita nel famigerato manifesto novantesco. Ecco invece un montaggio per blocchi che vede susseguirsi inquadrature dalle linee pulite assemblate con cura e manipolate in postproduzione, punti di vista fissi o sospinti in avanti da lente carrellate a seguire, assi ortogonali che danno luogo a plongées e a quadri frontali talvolta persino in profondità di campo, nonché gli ormai tipici ralenti presi in prestito dalla videoarte che sulla scorta di Bill Viola ripropongono nel dettaglio celebri dipinti come La barca di Dante di Eugène Delacroix.

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Allo stesso modo l’illuminazione naturale cede il passo in extremis ad una fotografia espressionista in cui divampano cromatismi attinenti allo spettro del rosso e viraggi dorati reminiscenti dell’effetto seppia de L’elemento del crimine, come nella scena ambientata nei Campi Elisi. C’è da dire però che la mescolanza stilistica travalica la suddivisione di comodo che abbiamo postulato tra la metafisica manierata della discesa infernale e il crudo realismo degli “incidenti” narrati da Jack, trapiantando nelle maglie della messinscena tronconi alieni dal contesto che producono un’ulteriore ibridazione di forme e linguaggi. Pensiamo al vistoso attrito che creano da un lato l’inserimento di riprese a mano di fattura artigianale a mo’ di found footage nel bel mezzo del cumulo finale di piani iperstilizzati e dall’altro le soluzioni più controllate e studiate che fanno capolino con una certa insistenza in funzione di raccordo o addirittura come parte integrante di sequenze girate altrimenti secondo le tecniche Dogma. Così gli spasmi frenetici della camera a mano sono spesso contrappuntati da carrellate laterali fluide e altri movimenti di macchina centellinati, mentre al racconto degli omicidi si alternano campi medi statici e simmetrici che raffigurano Jack intento alla costruzione della casa dei suoi sogni7 e non mancano neppure momenti che ricordano lo sguardo entomologico e lo scarno minimalismo di film come Dogville [id., 2003] e Manderlay [id., 2005].

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In alto, la fredda simmetria di alcune inquadrature contrasta con la nevrosi ipercinetica e il non-finito di gran parte del film; al centro, riprese a mano introdotte da una carrellata laterale fortemente impostata; in basso, plongées e quadri frontali dal sapore minimalista: nel secondo esempio l’accelerazione del personaggio mima le comiche slapstick con effetto straniante.

Se aggiungiamo a tutto ciò il già menzionato profluvio di espedienti formali che spezza di continuo il materiale girato e vi instaura relazioni di senso tramite un montaggio che fa largo uso dell’accostamento analogico, risulta chiaro che l’autore danese ha voluto dispiegare in questo film tutte le risorse in suo possesso che fossero funzionali volta per volta ad esprimere al meglio la propria torbida Weltanschauung. Una visione intrisa di nichilismo, che si interroga sulla presenza del male nel mondo e sembra suggerire una risposta di stampo misoteista ai secolari quesiti della teodicea: le azioni di Jack godono in più di un’occasione della protezione di fortuite concomitanze ricondotte dal serial killer stesso alla volontà di una qualche intelligenza malvagia (la pioggia lava la scia di sangue tracciata dal cadavere legato al furgone, il primo incidente avviene per puro caso in una zona di confine su cui la polizia non ha giurisdizione e così via). Ciò che pare regnare sui destini dell’umanità non è più il caos ma una provvidenza malefica, la stessa demoniaca realtà smascherata dai negativi fotografici usati da Jack per immortalare le sue macabre creazioni, che convertono la luce in buio rivelandone l’intima oscurità. Lars von Trier indirizza il discorso direttamente allo spettatore col proposito di scuoterne la coscienza attraverso lo shock e adotta a tal fine strategie di interpellazione come il refrain di mezze figure in cui Jack ammicca beffardo alla mdp mostrando al pubblico cartelli tematici relativi agli argomenti trattati nelle sequenze adiacenti. È lecito chiedersi però se la necessità di veicolare ad ogni costo un messaggio non finisca qui per subordinare a sé tutto il resto compromettendo l’indipendenza dell’atto creativo e piegandola ad istanze eteronome senza nulla aggiungere a quanto già detto altrove con maggior convinzione e credibilità.

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NOTE

1. R. D. Laing, The Self and Others, Tavistock Publications, Londra, 1961. L’accostamento, di per sé arbitrario, acquista consistenza se si pone mente al fatto che nel nostro film il regista si rappresenta nei panni di un individuo psicotico.

2. Cfr. S. Lombardo, https://specchioscuro.it/madri-dissennate-lars-von-trier-e-larchetipo-del-femminile/

3. Nel discorso di Jack risulta centrale la dicotomia tra la tigre e l’agnello, l’aggressività predatoria e amorale dell’assassino e l’inerme passività delle sue vittime, con esplicito riferimento ai poemetti di Blake The Lamb e The Tyger contenuti nella doppia raccolta Songs of Innocence and of Experience.

4. Il nome stesso del personaggio ne denuncia il ruolo di freno morale: verge in inglese significa bordo.

5. Si vedano per contrasto le considerazioni di Stefano Caselli sul dominio del teatrale stabilito nell’incipit nella cornice di Nymphomaniac in S. Caselli, https://specchioscuro.it/nymphomaniac/

6. Cfr. N. Vigna, https://specchioscuro.it/antichrist/

7 . Il titolo del film è una citazione del primo verso di una nota filastrocca britannica che procede seguendo uno schema ricorsivo. Non diversamente Jack accumulerà sempre più corpi nella sua cella frigorifera e potrà infine erigere con gli opportuni mattoni la sua vagheggiata dimora.

 

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