La caduta della dinastia Romanov [Padenie dinastii Romanovykh, 1927] è il film più conosciuto e studiato di Esfir Shub, regista e montatrice sovietica, pioniera nel campo del compilation film1. L’obiettivo di Shub era realizzare una ricostruzione storica visiva accurata della Rivoluzione russa del 1917, che sarebbe stata resa pubblica in occasione del decennale dell’evento. Il film non rientra nel cinema di fiction, ma è, in pieno stile Shub, un mastodontico film di compilazione, ovvero fa largo uso di filmati d’archivio, opportunamente tagliati e riordinati secondo un preciso disegno.

Il risultato finale fu un successo, ma le difficoltà nel realizzarlo innumerevoli. La complicata ricerca dei materiali fu un primo scoglio da superare, vista soprattutto la situazione drammatica degli archivi sovietici all’epoca. Tuttavia, questo non fu l’unico ostacolo: Esfir Shub ebbe a che fare con filmati diversi nello stile, nel formato e nella qualità, e le sequenze erano perlopiù di breve o brevissima durata e solo raramente se ne rinvenivano di più lunghe.2 Questi problemi, però, si trasformarono nel punto di forza del film. Scene brevi sono montate una dopo l’altra oppure vengono interrotte da intertitoli per dar vita ad un montaggio potente e diretto.3

Nonostante La caduta della dinastia Romanov sia un compilation film composto da frammenti di cinegiornali d’attualità, l’intento di Shub non era creare un documentario neutrale e spoglio di connotati politico-ideologici, anzi, lo scopo era proprio usare il suo operato per trasmettere l’ideologia comunista alle masse.

Dunque, il film resta in bilico tra il racconto della verità storica e la propaganda politica. Da un lato, il materiale è di tipo documentario e gli intertitoli portano la firma di M. Z. Cejtlin4 (oltre che della stessa Shub), autorevole collaboratore scientifico del Museo della Rivoluzione e consulente per il film; l’opera dà fin da subito l’impressione di voler analizzare scientificamente gli eventi e i personaggi storici.5 Dall’altro lato il montaggio esprime il pensiero rivoluzionario e anti-zarista dell’autrice attraverso scelte ben precise e alcuni intertitoli addirittura ricalcano famosi slogan bolscevichi (mai ridondanti e usati sempre con parsimonia, forse per questo motivo ancora più incisivi).6

A tal proposito, Vlada Petric riporta due esempi presenti in La caduta della dinastia Romanov che aiutano a comprendere meglio la manipolazione che il materiale storico ha subito. Per quanto concerne il montaggio, Petric ricorda la giustapposizione tra l’inquadratura di un proprietario terriero che passeggia su un campo e quella di un contadino esausto colto nell’atto di lavorare: non c’è necessità di alcuna parola scritta per capire la critica di Shub al sistema zarista, perché le sue soluzioni di montaggio parlano per lei.7 Giustapposizioni di questo tipo ricorrono lungo tutto l’arco della pellicola. La seconda considerazione riguarda l’uso degli slogan bolscevichi negli intertitoli: ad un certo punto della pellicola, a una carrellata di simboli zaristi segue il commento «Abbasso lo Zar, la Borghesia, i Capitalisti e il Governo Provvisorio», uno slogan diffuso tra i rivoluzionari8 che qui diventa un documento storico esso stesso, ancora una volta senza lasciare spazio a fraintendimenti su quale fosse il pensiero di Shub.

I temi principali affrontati in La caduta della dinastia Romanov sono tre, come ebbe modo di dichiarare la stessa Shub nei suoi scritti,9 e riflettono una suddivisione del film in tre parti. La prima sezione si concentra sulla Russia zarista dei primi del ‘900, pervasa dal reazionarismo e dall’antisemitismo, entrambi accentuati dalle azioni antirivoluzionarie e filozariste di un’organizzazione conservatrice di stampo militarista nota come Centurie Nere.10 Il capitalismo fa da padrone e le ingiustizie sociali sono messe in risalto dal montaggio e dalle didascalie.

I toni si fanno più drammatici nella seconda sezione, incentrata sulla Seconda Guerra Mondiale, una carneficina che contribuì ad accentuare la già disastrosa situazione del popolo russo.

La terza e ultima parte, invece, è dedicata alla Rivoluzione di Febbraio, alla presa di potere delle masse insorte e alla conseguente caduta della famiglia Romanov.

Prima parte. «Tsarist Russia during the black reactionary years and capitalist Europe during the same period»11

L’incipit de La caduta della dinastia Romanov parte con una ripresa a camera fissa del Cremlino, che segue la didascalia esplicativa «Il Cremlino dei Romanov». Simmetriche e maestose, le tre torri che rappresentano il potere zarista svettano fino al cielo; quella al centro, la più alta, ha sulla cima l’aquila reale, simbolo dei Romanov.

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L’analisi proposta da Ilana Sharp offre un’interpretazione interessante di questi primi secondi del documentario: le tre punte rappresentano Chiesa, Corona e Stato e, più in generale, quanto in alto giunge il potere dello zar; in seguito, Shub sceglie di mostrare un cannone (collocato dentro le mura del Cremlino e davvero massiccio, occupa la fascia centrale dell’inquadratura se la dividiamo in tre sezioni dall’alto in basso), come a significare la supremazia militare dei Romanov; il loro dominio ora si estende sia in verticale sia in orizzontale.12

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Come notato acutamente da Sharp, le inquadrature successive ci forniscono, invece, la profondità del potere zarista: appaiono lunghi cortei di preti e poi di soldati, i cui abiti scuri sono in opposizione cromatica con le candide vesti ecclesiastiche.

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Afferma Sharp, «comunque, i soldati e i sacerdoti servono entrambi un fine comune. Non si tratta soltanto di supportare lo zar fisicamente e spiritualmente, ma, in modo ancor più significativo, di agire come strumenti di controllo».13

Segue la presentazione di poliziotti e membri della Duma di Stato, introdotti grazie a filmati d’archivio registrati durante una sessione a San Pietroburgo. Una didascalia spiega chi sono coloro che fanno parte della Duma: 241 proprietari terrieri, 78 esponenti della borghesia, 43 preti. L’intento autoriale è evidente: Shub vuole sottolineare l’assenza della classe operaia e contadina nell’apparato decisionale e mostrare su chi e su cosa si fondava la forza zarista.

È interessante soffermarsi sulla presenza del personaggio politico di Vladimir Mitrofanovič Puriškevič. La didascalia a lui dedicata recita «Puriškevič, leader dei monarchici, delle Centurie Nere, artefice dei pogrom». Qui Shub «enfatizza la complicità dello zar […] negli insensati omicidi degli ebrei durante i progrom»,14 infatti non manca di evidenziare come tutti gli uomini politici mostrati, Puriškevič compreso, siano stati messi dove sono dallo zar. Un’aggiunta sulla condizione degli ebrei in Russia viene fornita poco più avanti, quando compare sullo schermo un frammento di un quotidiano con un articolo antisemita. È significativo che al centro della pagina selezionata, circondata dal testo, sia collocata la fotografia di un’opera d’arte religiosa: è il segno che nell’impero c’era spazio per una sola fede. Si fa passare il messaggio che lo zar, che finanzia la stampa, giustifichi e promuova gli attacchi antisemiti.15

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Fin da subito il regime viene messo in cattiva luce. Shub giustappone immagini rasserenanti di sacerdoti in tranquilli monasteri, distese sconfinate di boschi, prati, case di proprietà dei signori a umili villaggi dove risiedono poveri contadini. Il montaggio di Shub procede per efficaci contrapposizioni: se le donne faticano per prendere acqua dalla pompa del villaggio, il governatore di Kaluga gode di un intero laghetto, uno specchio d’acqua ameno e abitato da cigni; se le contadine vengono immortalate nell’atto di raccogliere il grano, ricurve sui campi e vestite semplicemente, il governatore è in compagnia della moglie, china sul loro allegro cagnolino.

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La coppia sorseggia un tè seduta ad un tavolo all’aperto, non appena si alza ben due camerieri si precipitano a togliere piattini, tazzine e poco altro. In modo sottile e geniale, Shub, subito dopo questa scena, monta un breve frammento di video in cui due contadine alzano da sole delle pesanti balle di fieno.16 Così, qualche secondo è sufficiente per ridicolizzare le abitudini dei ricchi agiati fedeli allo zar e confrontarle con la situazione dei poveri nelle campagne.

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Lo schema ricorrente impiegato da Shub prevede l’inserimento di «un titolo prima del materiale, spesso in un’ironica giustapposizione».17 Un esempio è la scritta «in crociera» posta prima di una sequenza con una battaglia navale. «Sudando» è, invece, l’intertitolo collocato tra scene di ufficiali d’alto rango che ballano la mazurka e scene di lavoratori esausti.18

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Compaiono pian piano non solo campi, ma anche boschi, miniere, fabbriche, dove chi prova a ribellarsi viene represso dal regime zarista. Le immagini di un carcere rafforzano il concetto: lavori forzati e deportazione sono nel destino di chi prova a combattere le ingiustizie.

In seguito, compare il titolo «14-27 maggio 1913». È chiaro che poiché si tratta di un documentario che si propone di restituire la verità storica, le didascalie contengono spesso date e luoghi precisi. In questo caso, si fa riferimento alle maestose celebrazioni tenutesi in occasione del 300esimo anniversario della dinastia Romanov: nei filmati, una folla in festa, piazze gremite di persone e cortei fastosi rendono omaggio a Nicola II e ai suoi familiari. «Shub dà all’evento pathos e grandezza grazie alla lunghezza delle inquadrature»,19 modus operandi che ripeterà, non a caso, nell’ultima parte del film, quando dovrà raccontare un altro evento che ha affollato le strade, cioè la rivoluzione proletaria che annientò il regime.

La regista passa poi alla descrizione della situazione europea. Ciò che le interessa è fare un resoconto storico dal quale emerga tutta la follia del capitalismo europeo. Perciò di fronte agli occhi dello spettatore scorrono immagini di caveau blindati, di azionisti che corrono in borsa, di impiegati di banca che si ammucchiano negli uffici, di ricchi uomini d’affari ben vestiti. I generali degli eserciti sono presentati come esecutori dei piani dei capitalisti. Re e governanti dell’epoca sfilano sullo schermo, ed è impossibile non associare la loro ricchezza e il loro stile di vita a quelli dello zar, leggendo il tutto come una diretta critica dell’autrice alle logiche oppressive predominanti tra le classi agiate.

Seconda parte. «World bloodshet»20

Shub inizia a gettare le basi per raccontare lo spargimento di sangue avvenuto nella Prima Guerra Mondiale. Un titolo proclama «tutti paesi si stavano preparando alla guerra», poi viene mostrata la produzione di armamenti. Il film «forza lo spettatore a riflettere sull’insensata brutalità del conflitto»21 e sottolinea l’inutilità dello stesso: una didascalia rivela che l’unico al quale la guerra può far comodo è Vtorov, il proprietario delle più grosse fabbriche di armi in Russia. Al ritratto di Vtorov sorridente succedono filmati di operai al lavoro; qui, la didascalia è laconica: «le mani degli operai stavano preparando la morte per i loro fratelli». Nonostante l’intento storiografico e la massiccia componente ideologica, Shub non tralascia il lato emotivo e umano.

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Molteplici immagini d’archivio ripercorrono dettagliatamente i preparativi per la guerra, cosicché il montaggio induce a pensare alla guerra come nient’altro che un compromesso tra diplomatici.

Alcuni documenti datati 20 luglio 1914 mostrano l’enorme mobilitazione in Europa e in Russia: i soldati sono in posizione, i treni in partenza per il fronte. Shub, come al solito da materiali d’archivio, costruisce sapientemente un climax ascendente, abbandonando per un qualche minuto lo schema delle giustapposizioni. Dapprima fa vedere le parate cittadine, poi le trincee, infine le esplosioni delle mine sui campi di battaglia, le truppe, a piedi o a cavallo, che affrontano il nemico, i cannoni che sparano. I feriti vengono trasportati in barella dai compagni. Qua Shub preferisce cedere la parola alle immagini ed evita persino le sue didascalie sintetiche ed efficaci. «Uccisi, feriti, mutilati durante la Guerra Mondiale: 35 MILIONI DI PERSONE» è l’unico intertitolo che compare.

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Seguono ulteriori immagini della devastazione: trincee che traboccano di cadaveri, soldati costretti a camminare in mezzo ai corpi dei compagni caduti in battaglia. Shub si rivolge all’umanità dello spettatore. La scritta «I VOLTI DELLA GUERRA» introduce sequenze con città distrutte, edifici crollati, donne sedute sulle macerie.

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I superstiti sono: prigionieri, feriti, rifugiati. Gli eserciti in fuga bruciano i campi di grano. La regista riesce a creare un momento molto intenso e scioccante, reso ancor più d’impatto dall’uso di materiale documentario. Chi guarda è consapevole che quel che vede è realmente accaduto e non può restare indifferente a tanto orrore.

Una volta conquistato il pubblico, Shub può manipolarlo. Così, subito dopo i morti, mostra gli alti ufficiali dello zar, lontanissimi dal pericolo degli scontri e sempre pronti a inviare in guerra nuovi soldati, strappandoli al lavoro e lasciando le donne al loro posto. I nomi e i cognomi dei generali al comando dell’esercito russo compaiono sullo schermo. È chiaro che, nonostante non si possa negare di essere di fronte a fatti storicamente avvenuti, la scelta delle immagini, delle didascalie, delle soluzioni di montaggio non sono neutrali. Shub sta indicando chi sono i colpevoli della carneficina: lo zar, gli alti ranghi dell’esercito e, come si avrà modo di accertare a breve, la Chiesa e la borghesia.

L’impero russo è ormai in rovina, il popolo è affamato e non può sopportare di più. È il preludio della fine.

Terza parte. «February»22

Il terzo e ultimo capitolo di La caduta della dinastia Romanov ha inizio con la comparsa dell’intertitolo «1917», anno della Rivoluzione e della caduta della dinastia Romanov. La Russia è avvolta dal gelo invernale, ma la guerra prosegue.

Con tre sequenze poco articolate, Shub riesce a ridicolizzare nuovamente il ruolo di Chiesa, autorità militari e ceto borghese. Infatti, proprio come essi prendono in giro i soldati al fronte, la regista-montatrice si fa beffe di loro tramite il mezzo cinematografico. I sacerdoti che, impugnando crocifissi d’oro, dispensano preghiere ai soldati in trincea, gli ufficiali in alta uniforme che appuntano stellette sul petto dei sopravvissuti, i ricchi impellicciati che distribuiscono viveri all’esercito: sono tutti sottilmente messi in ridicolo dagli intertitoli.

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A questo punto, finalmente, capiamo che la drammatica situazione nazionale spinge le masse a insorgere. Shub sceglie di riportare il testo di un volantino stampato il 25 febbraio 1917 dal Comitato Centrale bolscevico; si tratta di un incitamento a porsi «sotto la bandiera rossa della rivoluzione», perché, a questo punto, «restare in silenzio è impossibile». Scrive Sharp, «Le immagini d’accompagnamento sono di uomini e animali morti, distesi congelati sulla neve spessa del fronte. Nel tipico stile costruttivista, Shub usa vero war footage combinato ad una citazione diretta proveniente da un documento storico».23

La sua opera di realismo storico procede anche di fronte allo scatenarsi dell’evento più emblematico per un difensore dell’ideologica bolscevica quale era Shub, vicinissima agli ambienti del partito. Qui immagini di repertorio mostrano la Piazza Rossa gremita di manifestanti in protesta e compare un nuovo documento, cioè un appello a rimanere in casa, lanciato dal Comando di Pietrogrado. Anche qui, Shub è puntigliosa, non omette mai le date: il 25 febbraio gli operai scendono in strada, il 27 i soldati si uniscono a loro, e così via.

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Inutile sottolineare come l’apice dell’intero film venga raggiunto in questo momento, che conduce all’effettiva caduta della dinastia Romanov. Su una durata complessiva di quasi un’ora e mezzo, è significativo che quasi 30 minuti ripercorrano le giornate della Rivoluzione di Febbraio. Qui, prevedibilmente, la ricostruzione degli eventi è meticolosa e intensa. Shub seleziona una serie di immagini indimenticabili (un ingente numero di filmati che, da angolazioni differenti, riprendono orde di manifestanti con striscioni) e le intervalla con qualche slogan rivoluzionario. Pian piano, le didascalie si fanno più frequenti, per descrivere con minuzia gli avvenimenti. Il picco narrativo è l’abdicazione dello zar, datata 4 marzo 1917, seguita dalla distruzione dei simboli imperiali, gli stessi che avevano aperto il film. L’aquila dello stemma dei Romanov appare di nuovo, ma stavolta non svetta in cima al Cremlino, anzi, è a terra, in un mucchio di macerie.

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Più avanti, anche la sfarzosa e potente Chiesa ortodossa viene ridotta a «piccole, indistinte e insignificanti figure»:24 quasi metaforicamente, la si vede un’ultima volta sotto forma di un lungo corteo di sacerdoti, inquadrato dall’alto, che si allontana dall’obiettivo.

Nei restanti minuti, Shub usa delle sequenze ricavate dal cinegiornale realizzato dal Comitato Skobelev ai funerali dei caduti per la libertà, che si tenne il 23 marzo.25 L’episodio è carico di pathos, è presentato come lutto collettivo (le bare vengono trasportate in mezzo alla folla) ma anche come dolore privato (la macchina indugia su alcune donne che, in lacrime, osservano la celebrazione).

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Forte dell’impatto che queste riprese hanno sul pubblico, Shub «usa la tragedia per attaccare il suo nuovo nemico politico, Kerenskji»,26 il quale viene rapidamente smascherato e additato come una copia dello zar (la guerra prosegue, Kerenskji la incoraggia, nel frattempo si limita a stringere mani ai soldati e a dare ordini).

Ma le cose sono cambiate e il popolo non si farà più ingannare: le proteste continuano al grido di «pane, pace e libertà», gli slogan bolscevichi ricompaiono (ora in maiuscolo). Nelle scene finali, Lenin in persona appare sullo schermo.

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L’inquadratura di chiusura ritrae proprio il leader dei rivoluzionari, che sorride trionfante e stringe la mano ad un sostenitore. La rivoluzione proletaria è compiuta e i Romanov sono già un lontano ricordo.

NOTE

1. A. Iacopozzi, Esfir Shub, pioniera dimenticata, https://specchioscuro.it/esfir-shub-pioniera-dimenticata/

2. R. Graham, Forward Soviet! History and Non-Fiction Film in the USSR, I.B. Tauris, Londra, 1999, p. 51

3. Ivi., pp. 51-52

4. Idem.

5. Idem.

6. V. Petric, Esther Shub: film as a historical discourse in Thomas Waugh (a cura di), Show Us Life: Toward a History and Aesthetics of the Committed Documentary, Scarecrow press, Metuchen (N.J.), 1984, p. 38

7. Idem.

8. Idem.

9. Esfir Shub, From my experience, in Liubov Dyshlyuk, Anastasia Kostina (a cura di), Esfir Shub. Selected Writings, in «Feminist Media Histories», Vol. 2, 1 luglio 2016, p. 18

10. https://www.britannica.com/place/Russia/The-last-years-of-tsardom#ref422092

11. Esfir Shub, Op. cit., p. 18

12. Ilana Sharp, The Fall of the Romanov Dynasty (1927): a constructivist paradigm for neigrovaia fil’ma, in «Historical Journal of Film, Radio & Television», Vol. 28, fasc. 2, giugno 2008, pp. 206-207

13. Idem.

14. Ivi., p. 201

15. Idem.

16. Ivi., pp. 212-213

17. R. Graham, Op. cit., p. 52

18. Idem.

19. Ivi., p. 53

20. Esfir Shub, Op. cit., p. 18

21. I. Sharp, Op. cit., p. 202

22. Esfir Shub, Op. cit., p. 18

23. I. Sharp, Op. cit., p. 204

24. I. Sharp, Op. cit., p. 208

25. R. Graham, Op. cit., p. 53

26. Ivi., p. 54