«Mi chiamo Kantemir Balagov e sono cabardo. Sono nato nella città di Nalchik, Caucaso settentrionale, Russia. Questa storia è accaduta a Nalchik nel 1998.»
Si presenta al pubblico così Kantemir Balagov nel suo sorprendente lungometraggio d’esordio Tesnota [id., 2017]. Nel fissare le coordinate spaziali e temporali del film, il regista ci introduce al contesto e al clima nei quali si svolgono i fatti, cercando di farci avvicinare ad un luogo infinitamente distante dalla nostra realtà, ed al tempo stesso dichiara la propria volontà di indagare se stesso attraverso una storia che mescola esperienza personale e racconto orale.

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La dangereuse liaison dal sapore shakespeariano tra la ribelle ragazza ebrea Ila ed il cabardo musulmano Zalim, ispirata da una vera relazione avuta in passato dallo stesso regista, si intreccia con la storia del rapimento del fratello di Ila e della sua promessa sposa, basata sul racconto che Balagov apprese dal padre durante la sua adolescenza, per diventare analisi di una realtà complessa che il regista necessita di comprendere attraverso uno strumento profondamente espressivo qual è il cinema.
«Dando vita a un’opera, io esprimo un dubbio. Se cerco di esprimere qualcosa è perché esprimo un dubbio. Se ne ho una comprensione assoluta, non costruirò questa casa e non farò crescere quest’albero. Ma se dentro di me ho delle domande – allora sì. Allora vale la pena di cominciare», scrive Aleksandr Sokurov1. Ed è proprio grazie al maestro russo ed al suo corso di cinema tenuto una decina di anni fa presso l’università della capitale della Repubblica Cabardino-Balcaria, se Balagov è riuscito a capire in che modo analizzare, comporre e tradurre in immagini le domande che inevitabilmente nascono dalla propria esperienza in quanto individuo e in quanto appartenente ad una comunità, dubbi che sarebbero altrimenti rimasti inesplorati.
Balagov cerca di capire gli esseri umani a partire da se stesso, esplora la sua infanzia, elabora i ricordi di un tempo trascorso per la maggior parte con la madre e la sorella, sviluppando sentimenti di estrema vicinanza e affetto verso le figure femminili, risultando naturale vedere, nei suoi primi due film, ritratti di donne forti e particolari, consumate da cicatrici fisiche e morali, perennemente in lotta contro l’umana reticenza a lasciarsi sottomettere e conquistare.

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Balagov è, prima che regista, spettatore; il cinema è per lui un’esperienza visiva che suscita nuovi livelli di coscienza, i film sono come tesori da scoprire; non sorprende che egli abbia trovato una speciale affinità elettiva con Sokurov e da questi abbia appreso una profondità di sguardo tale da aver dimostrato sin da subito un’incredibile padronanza del mezzo cinematografico.

Tesnota, educazione alla vita 

Il regista comincia dunque là dove nascono i suoi primi interrogativi, nella sua terra sventurata, avara di soddisfazioni per un giovane in cerca di prospettive favorevoli ed anzi campo di battaglia di numerosi gruppi etnici e religiosi, dove le minoranze continuano ancora oggi a vivere in condizioni ostili e discriminatorie, come la famiglia ebrea di Tesnota, che, in un paese a maggioranza islamica, tenta di trovare il proprio spazio, affidandosi a un sistema di relazioni sociali governato da regole ancestrali piuttosto che da leggi istituzionali. In questo ordinamento di tipo tribale, fondato sul rispetto per le persone più anziane e sulla necessità del sacrificio quando richiesto, una giovane donna mette in dubbio il destino già segnato, rifiutando di anteporre l’interesse della comunità a quello individuale. Una ribellione che comincia dal suo aspetto esteriore, con gli abiti maschili che nascondono la propria femminilità, e dal suo lavoro di meccanico nell’officina del padre, dal quale spera di ottenere attenzione ed ammirazione, lontano da una madre che tenta di sminuirla ed umiliarla.

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«Relazioni familiari, relazioni tra tribù, relazioni tra donne e uomini di diversa nazionalità»2, oggetto del cinema di Balagov sono sempre le relazioni interpersonali e il termine scelto come titolo del suo primo film, Tesnota (che letteralmente si traduce in vicinanza ma anche ristrettezza, costrizione, angoscia), denota l’esigenza di analizzare queste relazioni in rapporto allo spazio condiviso dagli individui, al loro bisogno di creare legami emotivi capaci di sostenere il proprio essere e al tempo stesso liberarsi dall’oppressione di una vicinanza che limita il respiro e inibisce la propria libertà. Esemplare in questo senso è la messa in quadro di Balagov che sceglie per Tesnota il formato 4:3 e la predilezione per i primi piani, dove la protagonista viene spesso ritratta tra due fuochi, oscurata da altre figure, come se dovesse costantemente guadagnarsi un spazio, una possibilità per far sentire la propria voce.

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È una lotta feroce con la madre, ancora legata a quelle antiche forme di gerarchia parentale e di conservazione dei precetti biblici che la vedono come la più strenua protettrice della purità familiare e le assegnano il compito di educare i figli ai valori della tradizione ebraica. Al figlio David, che intende sposarsi e dunque assicurare la continuità della discendenza, ella riserva tutto il suo amore ed il suo sostegno. Quando David viene rapito, la responsabilità di salvare lui e la famiglia ricade su Ila, ancora troppo giovane per sopportarne il peso, ancora troppo inesperta della vita per conoscere la crudeltà di cui può essere capace l’essere umano. Una crudeltà che il popolo russo conosce bene e che Balagov ha sperimentato proprio per essere nato in quello stesso luogo. Il ricordo del regista si fa memoria storica, le sue esperienze di adolescente vengono replicate nella finzione cinematografica anche utilizzando vero materiale documentario.

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Per un giovane, il primo incontro con la morte è sempre un avvenimento che colpisce profondamente; Balagov ha voluto esorcizzare questa esperienza inserendo lo stesso video che gli fu mostrato appena adolescente, nel quale assistiamo alla brutale esecuzione di alcuni soldati russi da parte dei ribelli ceceni in un villaggio del Daghestan; una scelta contraria all’insegnamento di Sokurov, che durante il suo corso aveva invitato i suoi studenti a trattenersi dall’uso eccessivo di immagini violente e temi religiosi, ma irrinunciabile per Balagov, convinto dell’onestà della sua scelta. D’altre parte, la violenza in questo caso non è fine a se stessa, non serve per spettacolizzare il film; essa è parte integrante della vita del suo paese, non è possibile raccontare la sua storia senza necessariamente mostrare le tensioni che lo attraversano. La forza di Balagov è il modo in cui riesce a mettere in scena questi contrasti insanabili senza risultare morboso o eccessivo, come nella scena in cui Ila ha il suo primo rapporto sessuale con Zalim, un evento traumatico per la ragazza, dettato dalla necessità di opporsi a un destino già scritto, che viene ripreso dal regista in campo lungo, con i due giovani sullo sfondo, seminascosti, per lasciar loro l’intimità del gesto ma lasciando trasparire l’intensità del dramma.

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Un’intensità espressa da Balagov anche attraverso l’uso del colore; gli abiti, gli ambienti, le luci assumono sfumature diverse per indicare stati d’animo diversi. Il blu di Ila sintetizza il suo carattere ribelle e indipendente; il fratello David, che inizialmente indossa tonalità simili a quelle neutre dei genitori, nel momento in cui decide di abbandonarli per formare la sua nuova famiglia con la fidanzata, sancisce la sua scelta vestendo abiti di colore verde, lo stesso della sua promessa sposa. Esemplare in questo senso è anche la sequenza in discoteca. Dopo la liberazione del fratello e la decisione dei genitori di trasferirsi lontano da quel luogo nel quale sentono di non poter più essere accettati, Ila deve prendere una decisione, capire se restare, nonostante abbia intuito che la sua storia con Zalim non avrà futuro, o partire con i genitori, sapendo che adesso la madre pretenderà da lei l’amore e la lealtà che non è riuscita ad ottenere dal figlio maschio.

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Nel buio del locale la ragazza comincia a ballare disperatamente, esprimendo il suo animo combattuto, la luce cambia in maniera intermittente dal rosso al blu, il volto esprime ora il tormento per la sua condizione di prigionia ora la rabbia della giovane sfrontata, il suo corpo continua a muoversi nonostante la musica sia finita, desiderando rimanere in quel limbo di felicità artificiale. Qui, come in altre situazioni, la componente del sonoro gioca un ruolo fondamentale; quando nel locale la musica si ferma per un blackout, Ila continua incurante la sua danza; dapprima sentiamo le voci degli altri, poi lentamente il silenzio, l’isolamento, solo il battere furioso dei suoi passi sul pavimento. Un grido silenzioso contro l’incapacità di far sentire la propria voce, come quando le viene detto che dovrà sposare il figlio di una coppia disposta ad aiutarli economicamente e il rumore dell’asciugacapelli, acceso subito dopo dalla madre, le nega chiaramente la possibilità di ogni manifestazione di dissenso.
Altrettanto significativa è la scena in cui Ila si prende la sua rivincita confessando davanti a tutti che quel matrimonio non s’ha da fare poiché ha ormai perso la sua purezza; i genitori del promesso sposo lasciano al ragazzo il difficile compito di decidere se aiutare comunque la famiglia di Ila; nel silenzio di quel momento, udiamo solo il rumore della busta con i soldi portati per comprare la sposa che si accartoccia tra le mani del giovane disonorato, un suono atroce come atroce è il suo strazio interiore.

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Ila affronta un percorso disseminato di ostacoli, un’educazione alla vita che le chiede responsabilità e forza per svincolarsi da una prigione biologica che sacrifica il suo essere. Lei vorrebbe essere libera di andare incontro all’orizzonte infinito dell’azzurro cielo. Nel finale la vediamo partire con i genitori; nel mettersi alla guida dell’auto dice al padre “sarò prudente”, ma vuol condurre lei questa volta, ed escludere la madre dalla sua vita, così come la esclude dalla sua vista, sistemando lo specchietto retrovisore in modo da non dover incrociare il suo sguardo severo.

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Quest’ultima, che ha dovuto lasciar andare il figlio, vorrebbe invece che la figlia diventasse il suo nuovo David; la giacca, che tanto amorevolmente adagiava sulle spalle del figlio, adesso è pronta per essere indossata da Ila, nonostante la resistenza soffocata della ragazza che ancora una volta fatica a farsi ascoltare.

La ragazza d’autunno, ritorno alla vita

Nel ritrarre la vita di altre giovani segnate da un passato doloroso, Balagov torna ancora più indietro nel tempo, ai giorni oscuri nei quali la città di Leningrado dovette affrontare il dramma di una difficile ricostruzione dopo gli eventi bellici.
Lo spunto per La ragazza d’autunno [Dylda, 2019] è il libro scritto dalla vincitrice del premio Nobel Svetlana Aleksievic, La guerra non ha volto di donna, nel quale la scrittrice bielorussa ha raccolto le testimonianze delle donne sovietiche impegnate al fronte durante la seconda guerra mondiale. La storia ossessiona Balagov sin dalla prima lettura. Cosa hanno provato coloro che, naturalmente destinate a dare la vita, vengono costrette a portare la morte? Come confrontarsi con evento così traumatico nel quale l’individuo vive una condizione di estrema solitudine e abbandono?

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«…confesso che mi piace molto cercare di comprendere l’essenza e la natura dei caratteri umani…. per un essere umano l’incontro con un suo simile è un evento della massima importanza. In genere l’uomo ha bisogno soltanto di un altro uomo»3, scrive Aleksandr Sokurov. Balagov parimenti si interroga sulla questione, affermando chiaramente che la relazione tra le due protagoniste deve essere vista, al di là del genere, come un rapporto tra due esseri umani che cercano sollievo per i loro corpi malati, quiete per il loro animo ferito, nell’intento di ricostruire i luoghi dell’innocenza perduta, ritornare alla vita che sembra essersi dissolta, ai colori che la guerra ha implacabilmente cancellato.
Qui, ancora più che in Tesnota, il colore è determinante nello sviluppo drammatico del film; lasciandosi ispirare dai maestri della pittura olandese, Balagov costruisce inquadrature che ricordano dipinti di Vermeer o Rembrandt, nelle quali le gradazioni cromatiche aiutano a svelare la condizione emotiva dei protagonisti e il realismo dei dettagli è funzionale alla costruzione di un ambiente che assorbe gli umori dei suoi abitanti.

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I traumi che le due protagoniste hanno vissuto durante la guerra hanno lasciato segni impossibili da cancellare. Masha ha avuto un figlio al fronte, ha visto morirne il padre in battaglia, questo l’ha trattenuta dal tornare a casa per cercare vendetta. Ha affidato il figlio Pashka all’amica Iya, già congedata per disturbo da stress post traumatico, la spilungona del titolo originale, che nella sua postura goffa, nel suo sguardo di gelo, nel suo aspetto esangue, esprime l’estraneità da un mondo che non le appartiene più. Lei, ferita, aiuta i soldati tornati dal fronte in un ospedale militare, mutilati nel fisico, piegati nell’animo. “Non sento più niente”, dice uno di loro. È un bianco e nero che aspetta di essere dipinto, il grado zero dal quale imparare di nuovo a vivere, dare un nome alle cose, anche se certe cose sembrano essere scomparse o mai esistite per un bambino come Pashka, che nemmeno conosce il verso di un cane perché mai visto nella sua breve vita, dare un colore ai sentimenti, il rosso è il trauma, la paura, il verde è la nascita, la speranza.

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«Mi avevano regalato una camicetta rossa ma non l’indossavo perché era rossa. Non riuscivo più ad accettare questo colore»4, scrive il sergente della Guardia Tamara Stepanovna nel libro di Aleksievic.
Nel film è Masha ad indossare il rosso poiché per lei la guerra non è ancora finita, lei che non si fa piegare dalle sconfitte, che è viva grazie al suo spirito di sopravvivenza e di adattamento, contro il mondo che le ha portato via la sua unica ragione di vita, lei che pretende ancora l’amore, una famiglia, una casa che odori di bambini, il profumo della felicità che scacci il fetore del sangue e della morte.
Iya indossa il verde, la speranza di nuova vita, per lei possibile solo con la sua amata
Masha, la sola che riesca a completare la sua anima, l’unica in grado di abitare il suo universo, che altrimenti si congela e le impedisce di respirare. “L’orrore! l’orrore!” sussurrava Kurtz in Cuore di tenebra [Heart of Darkness, Joseph Conrad, 1899]. Iya convive con i mostri di un passato indicibile, una «sofferenza dell’anima che non si rimargina più»5, la stessa che traspare da una foto scattata a Mosca nel 1947 da Robert Capa6, alla quale Balagov dice di essersi ispirato.

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È il giorno dei festeggiamenti per gli 800 anni dalla fondazione della capitale sovietica, la città è affollata di gente venuta da tutto il paese per partecipare a questo evento, le strade illuminate come non si vedeva da molto tempo, esibizioni, parate, giochi, una fiera dell’abbondanza che celebra il lustro delle battaglie eroiche e tenta di oscurare gli incubi di un popolo allo stremo. Nell’immagine catturata da Capa, due ragazze ballano per strada, una di loro indossa un leggero vestito a fiori, lo sguardo perso verso un punto nell’infinito, l’altra, seminascosta da un abbigliamento invernale, guarda l’obiettivo senza sorridere. In quella danza non c’è la spensieratezza tipica della loro giovane età; i volti contratti, gli occhi stanchi, i corpi già vecchi, abituati alla divisa e agli scarponi militari, raccontano una storia diversa. «Come riabituarsi alla gonna? Ti sembra che le gambe vadano per conto loro»7, racconta una delle reduci del libro di Aleksievic; proprio quello che succede a Masha quando finalmente indossa un vero e proprio abito da donna in una sequenza fondamentale del film.

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Lei, che fino ad allora ha preferito vestire le tonalità del rosso, sembra voler davvero cambiare la sua vita, indossando un vestito di colore verde, il colore di Iya, e una nuova guerra, tutta interiore, la sconvolge. Per un momento, seppur breve, ella si lascia trasportare dal suo corpo e dal suo movimento, dimenticando la fredda terra dove poggiano i suoi piedi. Poi il tormento la inghiotte nuovamente; è difficile uscire da quel vortice, per aggrapparsi poi a cosa? Persino guardare il cielo fa paura, quel cielo al quale gli esseri umani si rivolgono per cercare perdono o salvezza ma dal quale è difficile ottenere risposta.

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Occorre stare coi piedi per terra, bisogna pur vivere. La soluzione per Masha è sposare un uomo che la ami e le garantisca di poter crescere il figlio tanto desiderato. Quello che trova è solo un ragazzo, che non conosce la vita e tanto meno la morte, l’intruso che vuol occupare il posto di Iya nella loro casa e nel cuore di Masha. Balagov mostra il divario tra chi la guerra l’ha veramente vissuta e chi l’ha solo immaginata. Come far capire ai giovani una simile barbarie? Come far capire che la guerra non finisce quando finiscono i combattimenti?
Non attraverso gli edifici crollati, i simboli patriottici, le icone agiografiche, ma attraverso i corpi di coloro che l’hanno abitata, quei corpi che hanno bisogno di essere toccati, abbracciati, sentiti, per capire di essere ancora vivi. Iya e Masha hanno bisogno di questo, sentire che c’è ancora qualcosa dentro di loro, tra di loro, un rapporto di mutua dipendenza che le aiuti a superare il trauma di un passato troppo doloroso, perché l’essere umano ha bisogno solo di un altro essere umano.

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NOTE

1. Aleksandr Sokurov, Nel centro dell’oceano,, trad. it. Alena Shumakova, Bompiani, ed. 2009, pag. 87.

2. Intervista rilasciata a Film Comment il 3 aprile 2018: https://www.filmcomment.com/blog/interview-kantemir-balagov/

3. Aleksandr Sokurov, op. cit., pag. 82.

4. Svetlana Aleksievic, La guerra non ha volto di donna, trad. it. Sergio Rapetti e Paolo Maria Bonora, Bompiani Overlook, ed. 2015, pag. 418.

5. Svetlana Aleksievic, op. cit., pag. 61.

6. La foto fu scattata da Robert Capa durante il viaggio in Unione Sovietica intrapreso dal fotografo con lo scrittore premio Nobel John Steinbeck nel 1947 e pubblicata nel libro Diario Russo.

7. Svetlana Aleksievic, op. cit., pag. 59.