Per Michel Foucault un luogo eterotopico è uno spazio reale (contrariamente alle deformazioni fantastico/immaginifiche del corrispettivo utopico) interconnesso a tutti gli altri spazi esistenti ma in grado di costituirsi come alterità specifica e fortemente connotata; un sistema aperto capace di mettere in crisi i normali codici del linguaggio e/o del pensiero. Parafrasando: un luogo fisico che, partendo dal suo statuto di eccezionalità, permette di comprendere meglio il tessuto materiale e sensibile del presente che lo ospita, indagandone i limiti, le criticità, le aporie.
La collana Heterotopia, promossa dalla casa editrice Bietti e diretta da Claudio Bartolini, Ilaria Floreano e Giulio Sangiorgio, sembra proseguire lungo il solco scavato proprio dalle intuizioni di Foucault. E lo fa attraverso la pubblicazione di saggi dedicati all’analisi di specifici autori o territori d’indagine marcatamente “eterotopici”, allo scopo di fornire strumenti-guida utili ad una rimeditazione del presente e del suo rapporto sempre più magmatico e stratificato con le immagini che lo informano. Un viaggio ideale (con tappe che comprendono, tra le tante, Wes Anderson e il videoclip dell’era digitale, il cinema di Hong Kong post-handover e lo studio Ghibli) che fa scalo anche da Béla Tarr per mezzo della meritoria traduzione del seminale saggio del filosofo Jacques Rancière (per chi scrive, uno dei massimi pensatori d’oggi) Il tempo del dopo [Béla Tarr, le temps d’àpres].
(Gli attori dei suoi film sono anzitutto «personalità»– sostiene lo stesso Tarr)
Pubblicato nel 2012 subito a ridosso dell’uscita de Il cavallo di Torino, [A torinói Ió, 2011], il testo di Rancière costituisce un primum teorico di straordinaria importanza, trattandosi infatti del primo saggio di spessore che analizza l’opera omnia di uno più grandi autori del cinema contemporaneo tout court.
Nel corso della lettura, pare evidente come Rancière, da una parte, si sia smarcato dalla stragrande maggioranza dei pregiudizi critici abitualmente applicati all’esegesi della filmografia tarriana mentre, dall’altra, abbia trovato, nell’incontro con il cineasta ungherese, terreno fertile per portare a definitivo compimento un percorso di riflessione condotto nel corso degli anni e attraverso decine di pubblicazioni.
Secondo la prospettiva di Rancière, nel cinema di Tarr categorie concettuali tradizionalmente opposte o contingenti trovano un substrato di convivenza e, talvolta, di coincidenza: materialismo e astrazione, aperture naturalistiche e tensioni metafisiche, narrazione e contemplazione, differenza e ripetizione, campo e fuoricampo, tempo e spazio, realtà storico/sociali e illusioni virtuali («c’è il reale degli inghippi coniguali e sociali e il reale di tutto ciò che lo eccede […] pura opposizione di due ordini sensibili», scrive il filosofo a proposito de Le armonie di Werckmeister [Werckmeister harmóniák, 2000]).
Già ne La favola cinematografica, Rancière affermava a chiare lettere: «Il cinema è, grazie al suo dispositivo materiale, l’incarnazione letterale di questa unità dei contrari, l’unione dell’occhio passivo e automatico della macchina da presa e dell’occhio cosciente del cineasta.»1
(«Eszter e Janos, i due sognatori – o i due idioti – di Le armonie di Werckmiester», scrive Rancière)
Non è un caso se un famoso (e bellissimo) saggio del filosofo francese ha per titolo Aesthetic Separation, Aesthetic Commnity. Ne Il tempo del dopo, persino la proverbiale bisecazione della’opera tarriana in due fasi distinte (quella dei drammi sociali che va da Nido familiare [Családi tüzfészek, 1979] a Rapporti prefabbricati [Panelkapcsolat, 1982] e quella segnatamente metafisico/cosmologica che, dopo la parentesi di Almanacco d’autunno [Öszi almanach, 1984], parte da Perdizione [Kárhorzat, 1988] e arriva a Il cavallo di Torino) viene superata: ancora una volta, queste dimensioni opposte si compenetrano. Per Rancière, il cinema di Tarr nasce geneticamente in un preciso spazio politico: quello dell’Ungheria del comunismo post-rivoluzionario poi faticosamente adattatasi a modelli neocapitalistici successivi alla caduta del muro di Berlino. In fondo, uno dei principali territori di speculazione storicamente battuti dal filosofo riguarda il rapporto tra la Politica e la sua rappresentazione (e rappresentabilità) per mezzo dell’Arte:«[…] quello che mi interessa – dice in un’intervista a Solange Guénoun raccolta nel volume Contemporary French and Francophone Studies – […] (è) il modo in cui le immagini compongono il mondo e come il mondo parla di per sé» 2
(Alessandro Baratti definisce Satantango [Sátántangó, 1994]«un diabolico girotondo di sette ore»)
Questo è il punto di partenza di un’indagine che si snoda di film in film, delineando figure (come quella dell’idiota che, curiosamente, Žižek ha identificato come asse portante del cinema di Robert Zemeckis), caratteristiche, tracciati speculativi e prassi ricorrenti che il lettore scoprirà con l’avvicendarsi delle pagine.
Non solo: qui il lettore non è semplicemente deputato al ruolo di ricettore passivo di una moltitudine di riflessioni, ma è chiamato ad una partecipazione proattiva, nello specifico ad interrogarsi su una delle tematiche cardinali della contemporaneità: se – come dice Tarr– tutte le tipologie di storia (nell’accezione più esclusiva di fabula) sono già state narrate nell’Antico Testamento, che cosa ci resta da raccontare? Che cosa, precisamente, può raccontare ancora il cinema?
(Ne Il cavallo di Torino«i corpi si immobilizzano e i visi si dissolvono», afferma Rancière)
Il prezioso volume curato da Bietti Heterotopia, però, non si limita alla traduzione del saggio di Rancière. Nella seconda parte, infatti, propone una rassegna di schede critiche – curate da Alessandro Baratti – che prendono in esame l’intero corpus tarriano, compresi i lavori sui quali Rancière sceglie di non soffermarsi.
NOTE
1. J. Rancière, La favola cinematografica in D. Angelucci, Rancière e la modernità cinematografica a sua volta in R. De Gaetano (a cura di) Politica delle immagini. Su Jacques Rancière
2. intervista dal titolo Cinematographic Images, Democracy and the “Splendor of the Insignificant”
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