Nella sequenza iniziale de La casa del bosco (2023) di Giovanni Benini e Luca Mantovani, una ragazza percorre una strada sopraelevata a passo deciso mentre una voce fuoricampo femminile racconta un sogno. La ragazza che cammina è un’ospite del centro di riabilitazione per tossicodipendenti “La Genovesa”; il sogno evocato dalla voce fuoricampo proviene da uno scritto di Anna Maria Ortese, Piccolo drago, da In sonno e in veglia (1987). Il doppio movimento – fisico, mentale – descritto da questa prima sequenza (e, in fondo, da tutto La casa del bosco) evoca distintamente i “doppi movimenti” di tutta la selezione del Laterale Film Festival del 2023: il viaggio e il sogno, l’esplorazione di sé e del mondo, lo spostamento di ciò che è percepibile e di ciò che non lo è.
L’incipit di La casa del bosco
Ne La casa del bosco queste due dimensioni sembrano essere contrapposte, ma il film le confonde, riscrivendo le gerarchie fra immagine e voce narrante, fra ciò che si vede e ciò che si sente. Nel sogno descritto da Anna Maria Ortese, la scrittrice si ritrova bambina in una stanza piena di figure silenti e ambigue; sua nonna esce dalla stanza accanto dichiarando che oltre la porta c’è un Drago e che quest’ultimo reclama una persona per motivi sconosciuti. Ne La casa del bosco, questo sogno viene evocato dalla voce fuoricampo per tre volte durante il film: le prime due volte viene interrotto in punti diversi senza rivelare la parte finale; la terza volta finalmente si arriva alla sua conclusione: la bambina affronta il Drago con una spada che le consegna l’Arcangelo Michele, ma il Drago, poco prima di morire, dichiara che non aveva cattive intenzioni, che avrebbe voluto, invece, farle un regalo. Tutto in linea con quanto scrive Ortese stessa nel testo: «è solo l’uomo che dà il dolore, non la Bestia». Mentre la voce fuori campo evoca questa storia, La casa del bosco ci mostra alcuni personaggi mentre si muovono in luoghi indefiniti, immersi nell’oscurità o in stanze senza tetto investite dalla luce del sole come dentro un paesaggio di Giorgio De Chirico, mentre in sottofondo rimbomba una musica elettronica in stile Kraftwerk.
Anche i costumi ricordano i Kraftwerk
L’incontro col Drago, che nel film viene rappresentato da un ragazzo a petto nudo pieno di tatuaggi fluorescenti, è il momento di massima sovrapposizione fra voce narrante e immagine; l’utilizzo però di luoghi reali e di attori non professionisti capovolge il senso della rappresentazione. Non sono tanto le immagini del film a illustrare il sogno; piuttosto, è la realtà che esercita una certa influenza sull’inconscio che sogna. Le due parti, insomma, si influenzano reciprocamente, lasciando che «il reale […] mostri un’inaspettata dimensione di sé, diventando tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto immaginare essere reale» (come viene detto nella didascalia finale tratta sempre da Ortese). La casa del bosco rappresenta dunque, come gli altri corti della selezione Laterale 2023, l’osmosi tra due dimensioni.
La morte del Drago
Si è parlato di doppio movimento: fisico e mentale. Ma cos’è il movimento al cinema? Sia che si tratti di un itinerario fisico o di un viaggio onirico, come può imbastire un dialogo con la percezione di uno spettatore? L’esperienza che lo spettatore fa di fronte a un film può trascendere la componente scopica? Secondo Anna Maria Ortese – sempre a partire dalle didascalie alla fine de La casa del bosco – la vita che «in fondo noi tutti viviamo» è «la vita dell’immaginazione»: forse tanta differenza fra questi due tipi di movimenti non c’è.
Tra i “sogni concreti” presenti al Laterale 2023 c’è altro un viaggio compiuto con gli strumenti dell’immaginazione: A Body, Outside (2023) di Nik Liguori, che già dal titolo incoraggia a riposizionarsi rispetto alla percezione di un corpo – del nostro stesso corpo, per guardarci da fuori, come dice Yoko Ono nelle istruzioni per Falling Piece nel 1964, «Go outside of yourself». Il film ha la definizione della VHS e sembra ripreso da un ulteriore dispositivo di riproduzione come in un volontario incremento della grana e del filtro analogico. I sottotitoli non sono un’aggiunta in post-produzione ma risultano proiettati sullo schermo ripreso; e la sorgente della proiezione non è fissa ma si muove, facendo oscillare gli stessi sottotitoli, addirittura tagliando alcune parole quando la scritta supera i confini del formato.
A Body, Outside
Le prime frasi recitano:
Lately, I think I might be nocturnal. In something like a daydream, you may find me.
mentre sullo schermo scorre l’immagine fissa di un uomo coricato. I sottotitoli sono il racconto di una coscienza che è uscita dal proprio corpo e apostrofano la visione di altri corpi dormienti come «performative scumbags». Poi, come dichiarato dagli stessi sottotitoli, la “coscienza” narrante prende con sé il proprio corpo e lo porta verso una capanna, cercando di resistere all’ipotermia.
Di che natura è il movimento in A Body, Outside? È un altro impossibile incontro fra onirico e materico, un viaggio mentale e fisico come in un sogno lucido. Nella selezione Laterale è possibile rintracciare altre opere che scelgono il filtro analogico per restituire l’idea di un “sogno materiale” – si pensi a Seven Images of Disappearance [id., 2023] di John Winn, o The End [id., 2022] di Richard Wiebe – e si possono incontrare anche opere che pur utilizzando il digitale emulano l’effetto flickering delle pellicole – come in Slowly [id., 2023] di Antoni Orlof. Il gesto artigianale del montaggio e la sua percettibilità diretta è la prima sede di questo impossibile incontro fra visibile e invisibile, e non bisogna mai dimenticare che questo incontro implica un movimento di per sé ambiguo, che non è detto si sappia dove porti.
The End
Il viaggio del misteriosissimo corto Baki Tadu É [id., 2021] di Kate Saraçao-Gomes, per esempio, rimanda non solo allo spettro della civilizzazione colonizzatrice che riduce (quasi a volerla “incapsulare”) la libertà naturale, ma anche a un riposizionamento dei ruoli di audio e video all’interno della narrazione cinematografica. Il protagonista percorre una foresta tropicale ma il film, come fosse esso stesso un personaggio o un’entità invisibile, costringe il protagonista a perdersi, disgregando le immagini e riscrivendo le coordinate visivo-geografiche, chiudendo tutto improvvisamente dentro una stanza. Se la qualità analogica e la fissità delle immagini della stanza ricordano Skinamarink [id., 2022] di Kyle Edward Bell, la presenza di una bottiglia d’acqua sul tavolo accompagnata dal rumore del mare rimanda al già citato “incapsulamento” da parte di uno sguardo colonizzatore; il tutto enfatizzato dalla sparizione del personaggio protagonista, che svanisce tramite dissolvenza incrociata mentre si trova su un ponte nella foresta. Un altro viaggio fisico e onirico al contempo, ma non è possibile essere sicuri su dove abbia portato lo spettatore o quale fosse la sua destinazione.
Baki Tadu É: la comparsa improvvisa della stanza e, in basso a sinistra, la bottiglia d’acqua
Il continuo interscambio fra parola scritta e immagine è una delle soluzioni che alcuni corti della selezione adottano per creare il cortocircuito fra materiale e trascendente: si pensi a Bleared Eyes of Blue Glass [id., 2023] di Park Kyu-jae, in cui sembra di assistere al viaggio della luce che arriva sulle cose per meglio definirle e renderle tangibili. Le frasi riportate in sovrimpressione sono sempre descrizioni del percorso della luce su dei luoghi («Meanwhile the shadows lengthened on the beach; the blackness deepened»; «Gradually the dark bar of the horizon became clear») o più raramente illustrano la natura dei suoni che non si percepiscono data l’assoluta mutezza del film. Una delle immagini finali del corto mostra però un libro, tenuto aperto da due mani illuminante da una luce rifratta da acqua o da qualche altro liquido: il senso di sospensione del corto potrebbe a buon diritto essere definito “subacqueo”.
Bleared Eyes of Blue Glass
E ancora si fa affidamento a un libro, e dunque alla parola stampata come elemento eterogeneo, in Slowly di Antoni Orlof, in cui il ricordo del padre del regista che legge un libro si accompagna a un montaggio ipercinetico di immagini di esterni e di interni, ritmato da alcuni movimenti ricorrenti – il padre che sfoglia una pagina, un bicchiere d’acqua in cui il liquido ondeggia come se fosse stato appena smosso da qualcuno. Non solo la presenza dell’acqua ma anche l’assoluta mutezza del film accomunano Slowly a Bleared Eyes of Blue Glass, ma ancora più che la parola stampata è proprio il libro (ovvero, il suo supporto fisico) a creare la scorciatoia che unisce il mondo reale e il mondo dell’immaginazione: la percezione fisica del taglio di montaggio, come se si adducesse un effetto sinestetico, come se a ogni dissolvenza in nero si potesse sentire una brezza di vento.
Slowly
Il movimento del vento è protagonista di Ijen, London [id., 2022] di Ben Rivers: tramite riprese in 16 mm che sembrano il prodotto dei vulcanologi Krafft già mostrato in The Fire Within – A Requiem for Katia and Maurice Krafft [id., 2022] di Werner Herzog e in Fire of Love [id., 2003] di Sara Dosa, Rivers utilizza le espulsioni di gas provenienti dal “ventre della terra” per descrivere la transitorietà delle cose terrestri, totalmente subordinate alle “acque eterne del mare” o ai “venti freddi delle regioni tropicali”. Nel caso di Ijen, London il movimento descritto dalla voice over – contrastato dalla fissità implacabile delle immagini – è un elemento di minaccia per l’uomo, ma è allo stesso tempo la riscoperta di forze ctonie e anche un accesso diretto a una maggiore coscienza di sé e del proprio posto nel mondo. È sempre il movimento della natura a irrompere nelle immagini dei corti del Laterale 2023, con l’energia che solo un sogno può trasmettere all’uomo. Come in Up From The Dark Womb Of The Earth [id., 2023] di Brandon Wilson, in cui ogni immagine si specchia e si confonde nell’altra come attraversata da onde che rimescolano e confondono tutto. Le stesse onde che in The End di Richard Wiebe sono inquadrate da tutte le possibili angolazioni finché smettono di sembrare vibrazioni d’acqua e ridisegnano qualcosa che forse non si era mai visto.
Ijen / London
Questi due movimenti, quello fisico e quello onirico, che si incontrano per far sperimentare un cortocircuito alla fallibile percezione umana come unica chance di comprendere l’energia intrinseca delle cose e della natura, ritornano in Intonazione di uno spazio [Entonação de um espaço, 2022] di Fabiano Teixeira Mota – in cui le immagini rallentate di un busto nudo di uomo interrogano la percezione dello spettatore con modalità che rimandano al cinema di Philippe Grandrieux – e in Boywhood (2022) di Emanuele Motti ed Enrico Motti, film d’animazione che adotta il punto di vista di un uomo alcolizzato rimasto solo con il suo cane in un bosco e in preda a deliri e visioni allucinatorie.
Boywhood: il punto di vista del protagonista mentre è intento a bere alcol da una bottiglia
Nei corti più ottimisti di questa selezione, l’uomo è in grado con la sola forza dell’immaginazione di attingere alla forza dell’arte per unire il proprio corpo e il proprio inconscio, per intraprendere questo doppio viaggio fisico e alterato. Ripercorrendo per esempio il viaggio delle cose e degli eventi. Due in particolare sono i film che richiamano questa possibilità: Ritratto temporale II – Emanuele (2022) di Ilaria Pezone e L’estate è finita – Appunti su Furio (2023) di Laura Samani.
In Ritratto temporale II – Emanuele, Pezone intervista il pittore Emanuele Sartori sulla sua storia, sulle sue esperienze e su come vive l’arte. Nel tentativo di dialogare con gli esperimenti di Sartori col collage, Pezone intralcia programmaticamente quasi ogni immagine del suo film con dei pezzi di carta, delle lenti o degli altri oggetti indefiniti e fuori fuoco che disturbano la visione del profilmico. Il montaggio spezzato che interrompe gli interventi di Sartori, penetrando nei dettagli tecnici e artigianali delle sue realizzazioni, acuisce la sensazione di un piano ben preciso, da parte di Pezone, di farci penetrare le intuizioni del pittore come da una posizione preferenziale, fra la componente fisica e la componente immaginativa delle sue pitture. Tanto che alla fine il film non è né un ritratto dell’artista né un commento critico sulla sua arte, quanto piuttosto la possibilità di sbirciare dentro le decisioni imperscrutabili di un’altra entità, l’Arte, che usa Emanuele per esprimersi autonomamente. «Devi vedere dove sta andando il quadro» o «La via che sto percorrendo non so dove mi porterà» sono frasi ripetute da Sartori e alludono a una chance ben cosciente di poter essere investiti dal viaggio di qualcos’altro, di trovarcisi dentro e di farsene trascinare. Come le immagini investite dalle onde di Up From The Dark Womb Of The Earth, le onde investite e travestite dalle immagini in The End o la deframmentazione cubista del treno di Train Again [id., 2021] di Peter Tscherkaasky.
Ritratto Temporale II – Emanuele
L’estate è finita – Appunti su Furio riporta una dimensione umana e meno metafisica al centro della sua idea di movimento fisico-onirico. Il film si struttura come un’indagine che, partendo da alcune immagini di repertorio, ruota attorno alla storia d’amore fra la voce narrante e Furio: l’infanzia insieme, i primi baci e i primi rapporti sessuali, la crisi di coppia del presente cronologico in cui la voice over racconta. La natura incomprensibile del tempo spinge la protagonista (voce narrante) a odiare qualcosa che aveva precedentemente amato, facendosi investire completamente da un destino beffardo: le immagini diventano proprio la manifestazione visibile della sorte della narratrice e sanciscono la sua condanna alla nostalgia. Ai viaggi fisici (le vacanze a mare in cui lei e Furio si incontravano di anno in anno) e ai viaggi onirici si aggiunge dunque la sostanza dei ricordi, che i materiali di repertorio evocano con straziante concretezza.
L’estate è finita – Appunti su Furio
Come ideale chiusura in grado di sintetizzare tutti questi movimenti (quello del corpo, quello del sogno, quello del ricordo, quello della natura e dell’arte che ingloba tutti quanti i precedenti, che diventano quasi una metafora proprio di quest’ultimo), As filhas do Fogo [id.] di Pedro Costa, già presentato a Cannes fuori concorso nel 2023, racconta la storia di tre donne di Capo Verde che scappano in Europa per sfuggire all’eruzione del vulcano Fogo. Costa realizza il breve film come un trittico musical, ovverosia un accostamento in split-screen di tre immagini: una donna che cammina a sinistra, una donna che, partendo dalla medesima posa coricata di Ingrid Bergman di Stromboli terra di Dio (Roberto Rossellini, 1950), si alza e guarda davanti a sé al centro, una donna che guarda in camera da dietro un muro in close-up a destra. Le tre.intonano canti lirici strazianti in cui si domandano il perché della loro sofferenza. La glacialità apocalittica degli sfondi, così come la materializzazione finale della minaccia fisica (i fumi del vulcano Fogo) illustrano chiaramente l’impotenza delle tre donne al cospetto di una natura distruttiva, in cui la distanza geografica che le separa sembra quasi un problema trascurabile se confrontato con il senso d’inadeguatezza che pervade l’intera condizione umana. Le donne, che hanno intrapreso il viaggio per l’Europa (il viaggio fisico) e ricordano la loro terra con le immagini finali di repertorio (l’itinerario della memoria) cantano la loro disperazione di vittime sommerse del fato e della natura (il percorso del destino e degli elementi). Il loro movimento congelato nel trittico di Pedro Costa è ridondante, atono e inutile: il cinema può raccontarlo e replicarlo nei contorni di un formato, ma al movimento, sembra dire Costa, non sfugge nessuno, che sia volontario o che sia subito passivamente per mano di realtà più oscure e imponderabili, che porti da qualche parte o che sia totalmente inutile.
Uno dei tre schermi de As Filhas do Fogo