Tra i lavori più interessanti dell’odierno panorama underground italiano spiccano, indubbiamente, quelli di Ilaria Pezone, artista visuale e filmmaker lecchese. Caratterizzato da un mutuo dialogo tra cinema e video-arte, la peculiarità del percorso artistico dell’autrice consiste principalmente nella ricerca di un senso di prossimità nei confronti di ciò che filma – come ben si evince dai suoi documentari più maturi, Indagine su sei brani di vita rumorosa dispersi in un’estate afosa e France – quasi un autoritratto –, di cui non è solo spettatrice ma soprattutto protagonista: «Perché filmare dovrebbe essere un’interruzione del mio modo di esistere?».
La ballata del vecchio marinaio è un video che hai realizzato al liceo, connotato già da una certa sperimentazione visiva. Come nasce il tuo interesse per il cinema? Da quali influenze cinematografiche è scaturito?
Ilaria Pezone: Ho iniziato ad andare al cinema quando ero alle scuole medie. Seguivo regolarmente un cineforum ed ero molto interessata soprattutto agli aspetti tecnici. Non sono mai stata particolarmente attratta dagli aspetti teorici del fare cinema ( i discorsi sui film, le teorie del cinema…), ma piuttosto l’ho vissuto come un’esperienza pratica da subito. Direi proprio un’esigenza espressiva. Sono introversa, ma non timida, e questo alle medie, nell’età dello sviluppo, mi creava disagio, perché desideravo comunicare con le persone che per me erano importanti. I miei insegnanti, ad esempio, lo sono sempre stati, per me, e spiazzarli con tesine e film extrascolastici (dei video ingenuamente bruttini che facevo, con molta convinzione, insieme a una compagna di classe, mia vicina di casa, tra garage e scale della palazzina in cui abitavo) mi divertiva molto, permettendomi di sorprenderli e di sorprendere me stessa per ciò che stavo scoprendo di poter maneggiare autonomamente, in qualche modo. Senza ombra di dubbio è un interesse che ho avuto modo di coltivare per sopravvivere e allontanare la noia e la solitudine di quegli anni. Poi ho comunque scelto di studiare nell’ambito artistico, trovando nell’arte, più che nel cinema in senso stretto, la mia dimensione. Negli anni del liceo artistico ho iniziato a girare dei brevi video non narrativi, che per me assolvevano un ruolo poetico, intimo, più che altro, parallelo alla poesia scritta, che da sempre mi accompagna. E in effetti li vedevo solo io, i miei famigliari, pochi amici. A volte ho partecipato a concorsi video, con la scuola: d’altronde, a differenza di oggi, pochissimi studenti del liceo coltivavano questa passione. È stato un periodo di studio, di sperimentazione individuale molto importante. La storia dell’arte, degli artisti, è stata per me determinante per continuare a “fare”, raddrizzando il percorso per bilanciare volontà di creazione, noia, personalità e caratteristiche formali a cui aspirare. Non ho visto moltissimi film in quel periodo, almeno fino alla quarta superiore, quando, grazie a un cineforum organizzato durante l’orario di lezione, ho scoperto il cinema di Jon Jost, che mi ha folgorata, intravedendo in esso la possibilità di un’espressione autentica, e non meramente industriale, che invece non mi è mai interessata realmente. Ero attratta, inoltre, dalle forme di videoarte, che iniziavo a conoscere proprio in quegli anni. Per questa ragione poi ho frequentato l’Accademia di Brera: ho poi voluto provare a formarmi da un punto di vista tecnico, con il Centro Sperimentale di Cinematografia ma, superate le selezioni, ho fatto un passo indietro, e sono tornata nell’ambito dell’arte, trovando opprimente, per mio modo di essere, un corso di studi incentrato solo e unicamente sul cinema (e quindi su un’astrazione sconnessa dal quotidiano). Ho avuto modo di approfondire una minima formazione tecnica per necessità pratiche. In generale, concepisco il cinema come una forma d’arte ibrida e sensuale, per questo, spesso, mi viene naturale inserire collage e matericità cartacea, oppure affidarmi quasi totalmente al macro o al teleobiettivo.
Trovo interessante un aspetto che caratterizza due dei tuoi lavori, a mio parere, più significativi, Indagine su sei brani di vita rumorosa dispersi in un’estate afosa e France – quasi un autoritratto: il senso di prossimità che ricerchi nel tuo cinema, la tua manifesta intenzione di essere presente in quello che filmi – i capelli davanti all’obbiettivo ne sono esemplificativi. Tutto ciò porta ad una rivalutazione dello stesso status di regista che nel tuo caso non assolve solo a funzioni tecniche di ripresa e registrazione ma diventa egli stesso attore non invasivo. Vuoi parlarcene?
Credo che in realtà sia un aspetto presente in quasi tutti i miei lavori. Sicuramente in quelli che tu hai citato lo esplicito, perché ne sono più consapevole, perché inizio a capire da dove arriva il mio modo di fare “cinema”. France… è forse un punto di arrivo, perché credo di non ostentarlo troppo esplicitamente. Infatti non credo sia un film facile da vedere non superficialmente: spesso non ammiccare allo spettatore che guarda con sovrastrutture di pensiero, più che esperire il film, lo fa perdere, concretizzando di fronte a lui la possibilità di essere al cospetto di uno sguardo registico non pienamente consapevole.
Mi è servito vedere del cinema, per decifrare il mio desiderio di fare cinema. Penso ai lavori di Johan Van der Keuken, di Alain Cavalier, di Michelangelo Buffa… al New American Cinema, all’Underground italiano, a Piero Bargellini,… cinema di prossimità, di cui ho scritto nella mia tesi di laurea, ai tempi di Andare tornando a rilievi domestici. Prossimità per me necessaria, perché permette di rifuggire l’astrazione onanistica in cui ripiega il cinema, per tornare sensorialmente connesso col mondo, con la quotidianità, affrontando, senza fuggirla, quella noia terribile e creativa allo stesso tempo. Prossimità interattiva, anche: mi affascina l’idea di vivere più intensamente attraverso un dispositivo di registrazione (era quello che cercavo di fare alle medie, del resto); la possibilità di cambiare il corso degli eventi attraverso il filmare, e filmare il corso degli eventi; usare il video come strumento di conoscenza; costruire e strutturare situazioni, cercare di prevederle con costante vigilanza, accogliere gli imprevisti e vedere che reazione mi provocano, viversi da spettatori e registi allo stesso tempo: non è poi a questo che si riduce vivere? Perché filmare dovrebbe essere un’interruzione del mio modo di esistere?
Cerco costantemente di svicolare da me stessa, dalle mie gabbie, dal mio ego iperespresso, attraverso il mio cinema, che forse potrebbe sembrare egotico: del resto io sono l’unico filtro possibile. Per come lo concepisco, è il mio modo (autistico?) di entrare in relazione con l’altro e con ciò che è diverso da me, a partire dalle affinità che posso cogliere, sondando le paure che derivano dall’estraneità. Vorrei che fosse inteso come gesto d’amore e gratitudine verso ciò che mi circonda e chi mi attraversa: altrimenti non avrei motivo per farlo.
Fotogramma da Masse nella geometria rivelata dello spazio-tempo
«…egli è tu e riempie la volta del cielo»
Apprezzo molto la vena documentaristica sui generis che innerva i tuoi lavori cinematografici: non è meramente informazione (dalla radice latina docēre), ma viene edulcorata dal tuo sguardo soggettivo – sempre in virtù di questo tuo “cinema della prossimità” di cui sopra. A questo proposito, trovo interessante l’uso che fai della macchina da presa: non è solo un dispositivo finalizzato alla registrazione di una storia ma diventa un modus videndi, un modo di vedere, un filtro ottico assolutamente personale. Infatti, penso sia agibile una equivalenza di pensiero tra il tuo modo di approcciarti all’oggetto ripreso e la relazione autentica di cui parla Martin Buber, filosofo israeliano, nei suoi scritti di filosofia dialogica: non è un processo di reificazione quello che si attiva tra il “cine-occhio” e l’oggetto, bensì una relazione gnoseologica in cui c’è una sincera predisposizione alla conoscenza dell’“altro”. C’è un passaggio interessante nell’opera buberiana Io e tu: «Si dice che l’uomo fa esperienza del mondo. Che cosa vuol dire? L’uomo percorre la superficie delle cose e ne fa esperienza. […] Fa esperienza di ciò che concerne le cose.»1 Quando Buber usa il termine esperienza, non lo usa nella sua accezione di esperienza oggettivante bensì di evento esistenziale in cui il soggetto si pone nei confronti della realtà e dell’altro in veste di partecipante attivo e non di semplice oggetto. Vorrei sapere se il tuo cinema ha ricevuto degli stimoli da parte della filosofia o anche di altre discipline umanistiche…
Credo di aver anticipato la risposta a questa tua domanda precedentemente. La filosofia, così come per certi versi le teorie della fisica, mi hanno sempre ispirata e accesa. Masse… è proprio un film che nasce sulla base della teoria della relatività, dal titolo lo si intuisce. Non tanto come speculazione teorica sulla relatività, fine a se stessa, quanto piuttosto come tentativo, assolutamente personale, di concettualizzazione ascrivibile a un modello teorico scientifico di un fatto banale come può essere quello di incontrare persone e situazioni che deformano l’andamento del nostro percorso terreno. È da ricondurre alla mia ossessione per l’ordinare il caos, trovare costanti e variabili. Amo molto filosofia e fisica perché in modo diverso creano modelli ordinati per descrivere e conoscere il reale – se così possiamo chiamarlo, visto che ci addentriamo in discorsi filosofici di cui non sono all’altezza. Non ho una vasta cultura né filosofica, né scientifica: ho studiato queste cose solo a livello liceale, e mi piace il fatto stesso che l’uomo cerchi disperatamente di ridurre tutto alla sua portata, per comprenderlo. Tuttavia quando leggo qualcosa che è nelle mie corde non mi piace rimanere in superficie, voglio approfondire fino allo sfinimento. A Wittgenstein avevo dedicato una videoinstallazione, progettata il primo anno di università, a cui poi era seguita un’altra installazione video e pittorica che non c’entrava nulla con Wittgenstein, ma avevo fatto mio il metodo di analisi della realtà.
«Sono già stanca di guardare l’involucro, l’inevitabile presenza. La telecamera coglie l’essenza e il tempo nella materia, privandola delle sue estensioni. Permette di essere senza esserci. Il profumo senza naso, il tatto senza mani, il respiro senza polmoni. Vorrei mostrare la profondità che questa naturale mediazione comporta. La carica di energia nel campo che si magnetizza impregnandosi della personalità di chi riprende e si ricarica diversamente in chi lo guarda.» – fotogramma e testo tratti da GREISTTMO
Un fattore costitutivo dei tuoi lavori, parecchio rilevante, è il montaggio. Vorrei a questo proposito citare quanto scritto da Serge Daney in IL CINEMA, E OLTRE. Diari 1988-1991: «Bella formula di Rohmer: il cinema non è immagini, ma inquadrature. Formula che esprime che cosa sia per lui (e per me) il cinema. […] L’inquadratura è un blocco indivisibile di immagine e tempo. È il tempo che mi è necessario per abitare (e anche per abituarmi a) un’immagine che altrimenti mi farebbe paura»2 E poi prosegue: «l’inquadratura è musicale. Respirazione, ritmo. C’è del cinema quando, inspiegabilmente, un respiro aleggia tra le immagini.»3 – per altro, Indagine su sei brani di vita rumorosa dispersi in un’estate afosa e Masse nella geometria rivelata dello spazio-tempo sono focalizzati proprio sulla musica. Quanto è importante per te l’operazione di montaggio? C’è una qualche relazione tra questo processo e il tuo interesse per la musica?
Ti ringrazio (anche) per questa domanda e per la puntuale citazione che mi suggerisci.
Procedendo per gradi: il montaggio per me è sempre stato un problema etico ben più grave della ripresa. Perché la ripresa implica delle scelte etiche su “che cosa riprendere e che cosa non riprendere”, ma spesso precipita nell’indecisione dovuta a volte alla scarsità di tempo da dedicare alla riflessione nella successione degli eventi da filmare, posticipando la decisione vera al momento del montaggio. Per questo motivo, credo di utilizzare il montaggio in maniera diversa, nei vari film. Riguardando i miei vecchi film amatoriali, sono molto felice che non mi sia mai venuto in mente di montarli, se non in camera. Perché in essi permane qualcosa di vero, ingenuo, che sfugge all’atteggiamento registico vigile di cui scrivevo prima. Sono documenti indagabili alla stregua dei ricordi; i film montati sono una falsificazione consapevole. Tuttavia fare film, per me, è anche trovare un compromesso tra il preservare e il “falsificare”, per poter raccontare l’indagine. Il film privato, a differenza dell’amatoriale, è proprio questo: l’intervento mirato e narrativo del montaggio per mostrare a un pubblico il percorso dell’analisi del materiale amatoriale.
In linea generale, concepisco il film nei termini del montaggio che mi immagino preventivamente. Rendo cosciente un’azione incosciente o comunque mai pienamente cosciente (quella del filmare) nel momento in cui la scrivo con il montaggio, che diventa un lavoro di analisi, un’elaborazione teorica e coerente per organizzare il disordine. Non sto dicendo che prima mi muovo a caso, ma che si tratta di una fase determinante per capire e valutare criticamente quello che ho fatto. Per questo mi ritrovo nella definizione di “strutturalismo sensibile” che è stata data al mio modo di fare cinema.
Parlando del montaggio come questione formale, mi rendo conto che per me è un fondamentale strumento di riassemblaggio contenutistico oltre che estetico, che permette al fruitore di interpretare un’intuizione. Non a caso è l’aspetto tecnico che più ho approfondito nel mio percorso di studi. A livello ritmico sicuramente il montaggio a cui mi rifaccio ha in qualche modo a che fare con il cinema comico (sono cresciuta con i film di Jerry Lewis, Totò, Stanlio e Ollio, Buster Keaton… e gli sketch televisivi del genio di Troisi o il Trio Lopez-Solenghi-Marchesini… amo smisuratamente il comico e in generale l’ironia). Uno dei miei primi film, montatissimo, si intitola GREISTTMO (commistione tra “Gesto” – il contenuto del film, e “Ritmo” – il significante del film). Nelle ultime scene al cambio di inquadratura si rendeva visibile e udibile il respiro. È anche l’unicità che caratterizza l’audiovisivo, rispetto alle immagini statiche, riportando le immagini a una dimensione temporale, molto vicina alla musica. Penso, come molti illustri defunti, che la musica sia la massima aspirazione per l’arte. È la forma a cui ogni arte aspira, più o meno dichiaratamente. Il montaggio permette di creare un ritmo, anche di pensiero, che quindi non è mai costante, ma passa dalla frenesia delle immagini che si accavallano tra di loro, ai momenti di immobile contemplazione od osservazione ossessiva del particolare. Per rifarmi alla domanda precedente, ad esempio, qui sto pensando alle neuroscienze: mi viene in mente Antonio Damasio che descrive il flusso dei pensieri a livello neurale proprio come una successione ritmica di immagini. Magari, a livello inconscio, mi rifaccio anche a lui? Non ci ho mai riflettuto.
Penso che in effetti la cosa più auspicabile, per il fruitore di uno dei miei film, sia quella di riuscire ad agganciare il ritmo mentale (non solo visivo) che propongo. Se questo non avviene, è molto difficile vedere davvero il film.
Il mio interesse per la musica è essenzialmente legato a questo. Ma c’e anche un aspetto relativo alla libertà, all’apertura, all’elasticità mentale del musicista (parlo di minoranze, ovviamente, che però quando si incontrano sono intensamente espresse), che molto raramente si trovano in altro campi “creativi”. Forse perché riescono a unire il concreto virtuosismo tecnico, la scienza numerica, la memoria, le ossessioni, all’aspetto più filosofico e astratto del fare arte, lasciandoci assaporare di cosa è fatta l’umanità.
Soffermiamoci per un attimo sulla relazione tra cinema e videoarte, a partire dal titolo che Jean-Paul Fargier diede sia ad una mostra organizzata nel 1986 all’interno del Festival di Avignone sia ad un numero speciale dei Cahiers du Cinema: Où va le video?, ovvero Dove va il video? Fargier intendeva con questo dar mostra delle diverse “desinenze artistiche” in cui il video poteva essere coniugato – ad esempio la video poeme, la video performance, il video théâtre – e soprattutto di un processo d’ibridazione di generi che rifuggisse da quello che Fargier definisce “feticismo cinematografico”, ovvero l’abitudine a ridurre un’immagine-in-movimento esclusivamente al cinema che diviene così l’unico modello di riferimento. Quali sono le potenzialità del video e quali le possibilità d’espressione che esso riserva a tuo parere?
Io credo che il video abbia aperto enormi possibilità creative a cui il cinema poteva ambire. Naturalmente si tratta di un’arma a doppio taglio, come ogni innovazione tecnico/linguistica riserva. Le possibilità economiche del video, per forza di cose, lo rendono uno strumento popolare, abusatissimo. Ma la competenza linguistica resta ancora nelle mani dei pochi che lo sentono mezzo espressivo. Non so se oggi, parlare di videoarte, abbia ancora un senso. Il linguaggio stesso del video è elastico e ibridante, per cui le commistioni di genere divengono inevitabili. È una possibilità in più, rispetto alla pellicola. Ha la proprietà di poter contenere anche il cinema, vedi gli esempi di cinema privato che rielaborano, attraverso il video, le pellicole amatoriali, il found footage… è un supporto particolarmente adatto al collage.
Personalmente non avrei mai potuto iniziare seriamente un percorso verso il cinema, se non avessi avuto accesso al video. Il cinema, grazie al video, acquista forse più valore, perché acquisisce senso in virtù dello sguardo che lo produce. Il cinema è da sempre una questione di sguardo; il video intensifica, a mio avviso, questo aspetto, ci obbliga a porvi maggiore attenzione.. Non è un surrogato del cinema e non è in quest’ottica che va vissuto. La pellicola resta un fatto tecnico, legato alla matericità dell’immagine, attraverso la quale passare: è un supporto, come la tela per il pittore, piuttosto che la carta (entrambe sono pittura: allo stesso modo il cinema).
Rendendo più complesso discernere tra cosa è cinema e che cosa non lo è, il video offre possibilità in più, per certi versi, rispetto alla pellicola. Se pensiamo agli strumenti di registrazione video, oggi sempre più minuscoli (vedi gli smartphone), ci rendiamo conto che possiamo arrivare là dove il cinema poteva solo sognare di addentrarsi: il territorio dell’intimo, che già Brakhage esplora con la sua 8mm, è ciò dentro il quale, con il video, possiamo muoverci. Il video, soprattutto attraverso questa miniaturizzazione che ci fa esperire l’immagine non come riflessione linguistica, quanto piuttosto come incarnazione sensibile con cui interagiamo dinamicamente, muovendo le dita, toccando lo schermo e impugnando intimamente lo strumento che ci permette di vedere l’immagine, accentua l’aspetto tattile del vedere: il corpo del cinema, la sua carne, si rende esperienza tangibile in modo più coerente, linguisticamente, rispetto alla pellicola. Le neuroscienze oggi studiano e dimostrano l’embodied condition di cui esperiamo nel fruire film.
E l’esperienza tattile insita nel vedere ci riporta alla condizione inconscia e infantile, priva di sovrastrutture di pensiero, attraverso la quale conosciamo ciò che ci attornia, l’altro. È il primo senso a svilupparsi, e quello attraverso il quale interagiamo con le cose animate e inanimate del mondo, configurando una comunicazione non verbale, ma piuttosto affettiva, relazionale. Il nostro stesso corpo, il nostro limite fisico. Il video, quindi, riporta l’attenzione alla soggettività e all’individualità del fare filmico. Come il cinema, permette di esaltare le qualità della trama fisico/ materiale dell’immagine, la sua tessitura, ma si compie in qualche modo, attraverso un gesto che appare naturale al dispositivo di registrazione stesso. Il problema che si pone è di natura attentiva e di durata: l’immersione, soprattutto a livello di fruizione, sicuramente diminuisce. Ma questo va affrontato, a mio avviso, come problema registico: non è un aspetto sottovalutabile, bisogna ancora lavorarci.
Io con il video mi trovo a mio agio. Credo che primo piano e particolare siano parte della sua specifica grammatica, che va a risignificare quella che caratterizza la pellicola. Vedo quindi nella prossimità e nel cinema di prossimità una possibilità implicita nell’atto stesso del filmare attraverso strumenti video digitali.
NOTE
1. Martin Buber, Il principio dialogico e altri saggi, Milano: Edizioni San Paolo (1993)
2. Serge Daney, IL CINEMA, E OLTRE. Diari 1988-1991, Milano: Editrice Il Castoro (1997), pag.21
3. ibidem