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Prendendo spunto da due uscite recenti, Mad God [id., Tippett, 2023] e Elden Ring [FromSoftware, 2022], un film d’animazione e un videogioco, in questo episodio parlerò di un tema particolarmente sentito a livello di immaginario popolare contemporaneo, ovvero quello dell’apocalisse. In particolare, farò seguito ad alcune mie riflessioni sul videogioco,1 sul multiverso e il concetto di mito,2 nonché a quelle di Dario Denta su Mad God.3 Riprenderò, come contrappunto teorico, anche L’apocalisse postmoderna tra letteratura e cinema di Mirko Lino (Le Lettere, 2014).

Elden Ring e Mad God, oltre a condividere come vedremo tantissimi rimandi e ‘ossessioni’ iconografiche, sono tasselli di un più ampio mosaico contemporaneo di rimediazioni e riflessioni sull’apocalisse. Dei testi che, per quanto particolarmente efficaci, non fanno differenza rispetto ad altri per quanto riguarda la loro narrazione dell’apocalisse – li userò quindi come esempi piuttosto recenti ed efficaci, ma tenendo presente che quello che rendono evidente circa la percezione, la visualizzazione, e l’immaginazione dell’apocalisse è presente anche altrove. Cercherò di volta in volta di fare riferimenti a casi precedenti o anche contemporanei, che rendano evidente il più possibile come le tematiche e questo modo di metterle in scena siano in realtà trasversali a un sentire apocalittico, o anzi post-apocalittico, comune a buona parte della narrativa e dell’audiovisivo contemporaneo.

Cosa ci dicono gli elementi che Elden Ring e Mad God hanno in comune sulla percezione dell’apocalisse e della post-apocalisse oggi?

Un primo elemento su cui possiamo soffermarci è quello espositivo. Entrambe le opere sono, sono, per usare un eufemismo, ‘criptiche’ nel modo in cui approcciano i rispettivi mondi narrativi. Questo è ben osservabile a partire dalla rarità con cui, in entrambi, si sente proferir parola: in Mad God c’è un solo momento in cui sentiamo una voce e delle parole, parte di un’oscura cantilena. In Elden Ring, su un complessivo medio di 100-200 ore di gioco sentiamo un totale di una manciata di dialoghi, per giunta a malapena comprensibili a meno che non si acquisisca una certa competenza sugli eventi di gioco. In entrambi i casi, la quasi totalità della narrazione è implicita, passa cioè per elementi di senso non di piana lettura. Elden Ring ripropone la consueta impalcatura narrativa del filone di riferimento, che porta alle estreme conseguenze la frammentazione del racconto nello spazio propria del videogioco: al di là di sporadici dialoghi, tutto quel che si viene a sapere del mondo di gioco passa dagli ‘indizi di senso’ che troviamo sparsi negli oggetti ed equipaggiamenti che raccogliamo, in forma di enigmatiche didascalie. Mad God è invece in bilico tra il simbolismo più criptico, il citazionismo più estremo e il nonsense più spietato e lascia lo spettatore in balia di quel che vede. Come in Elden Ring l’enorme mondo di gioco appare sulle prime letteralmente inesplorabile, tanto è pieno di elementi che attirano l’attenzione ma svuotato di indicatori che facilitino una ‘messa in ordine’ delle attività da fare, così durante la loro discesa gli Assassini di Mad God vedono le loro mappe, già confuse in partenza, andare letteralmente in pezzi passo dopo passo. La narrazione criptica, simbolica e implicita non fornisce rotte di interpretazione comode. Mira anzi a straniare chi guarda, che è in balia di una visione quasi imbizzarrita, fatta di luoghi impossibili e personaggi deliranti, di azioni bislacche e di strani marchingegni, così come poi mira a stordire chi gioca, lasciato in un mondo ostile senza alcuna linea-guida di interpretazione, senza la possibilità di scegliere con criterio cosa fare o cosa vedere.

Difficoltà di orientamento e di interpretazione: in Mad God, la mappa dell’Assassino non solo è particolarmente caotica, ma va anche in pezzi ogni volta che viene consultata.

A questo aspetto espositivo ne corrisponde un altro: entrambi i mondi sono frammentati. Mad God è frammentato a livello di spazio, con più piani sovrapposti in un patchwork di estetiche anche molto diverse tra loro, con l’unica costante della desolazione e del decadimento; Elden Ring si ambienta in un mondo frammentato per definizione, a posteriori di un evento – che porta il nome di shattering – che ha visto andare in frantumi un ordine (politico, religioso, ma anche metafisico) precostituito. Per quanto riguarda il tempo, Mad God è invece frammentato nella proposizione degli eventi, con uno sfaldamento della linearità temporale dato soprattutto da un lungo flashback centrale, e da una sezione finale difficile da collocare in sequenza rispetto a quanto visto prima. Elden Ring è frammentato per quanto riguarda invece il suo approccio alla narrazione: per comprendere il mondo di gioco fino in fondo si deve letteralmente rigiocare tutto, effettuando però scelte diverse – in modo che il quadro complessivo non possa che emergere da più partite, o da partite di giocatori diversi, ‘frantumando’ la verità del mondo a cavallo di più tempi e spazi.

Se inizi un secondo viaggio, non potrai più tornare al mondo del primo. Il new game plus in Elden Ring.

Questa centralità della frammentazione, in entrambi i casi sia del passato sconvolto dall’apocalisse sia del suo significato ultimo, è quintessenza di quell’approccio alle narrazioni che potremmo definire ‘postmoderno’. Ha senso in questo caso legare il progetto postmoderno stesso all’idea di apocalisse proprio tramite la frammentazione. Osserva Lino che tanto apocalisse quanto postmoderno mettono «allo scoperto le strutture più intime della psiche e della cultura»4, abbandonate a una fine irreversibile e trascinate allo «sradicamento delle nozioni tradizionali di storia, identità, spazio-tempo e causa-effetto». Se il postmoderno è la frantumazione dei progetti e dei sogni modernisti, in altre parole, non stupisce affatto che a livello di narrazioni quanto espositivo le opere postmoderne siano tanto ricche di frantumi, né che apocalisse e post-apocalisse siano tanto centrali nel nostro immaginario. Da questi frantumi è tutt’altro che facile trarre un senso. Non solo è difficile capire lo scopo di queste macerie prima che diventassero tali, ma è anche difficile capire cosa sta succedendo intorno a noi o sullo schermo. Il motivo stesso per cui il mondo è in macerie è difficile da capire (o forse non è proprio comprensibile). Anche questo ci dice molto sullo stato in cui versa la cultura contemporanea, o chi la produce: guardandoci attorno vediamo macerie di cui non capiamo nulla, guardandoci dietro vediamo una catastrofe incomprensibile – tanto da chiederci se sia mai avvenuta davvero, in fondo, o se le cose siano proprio nate così come sono.

In entrambi gli immaginari, proseguendo con una rassegna dei loro elementi comuni, la frammentazione del tempo sembra basarsi sul concetto di ripetizione: in Mad God sono innumerevoli gli Assassini che scendono nelle profondità della terra. In Elden Ring sono altrettanto innumerevoli i Senzaluce che tentano di raggiungere l’Anello Ancestrale. E sono innumerevoli le partite che uno stesso giocatore deve fare per riuscire a dare un senso al mondo di gioco, come già detto sopra. Il nesso tra frammentazione e ripetizione diventa esplicito anche a livello iconografico: in entrambe le opere i personaggi si imbattono in mucchi di corpi rinsecchiti o di oggetti appartenuti a chi non ce l’ha fatta ed è morto percorrendo il loro stesso cammino.

In Mad God, l’Assassino si ritrova in un ambiente fatto di cataste di valigette identiche alla sua.

È proprio nel concetto di ripetizione che quello contemporaneo si distingue da altri tradizionali discorsi apocalittici. Se il tempo apocalittico è un tempo lineare, quello dell’apocalisse contemporanea è sempre più spesso un tempo ciclico, e quindi un tempo mitico. Scrive Lino che «il Postmoderno ha radicato il tradizionale senso di fin du siécle nella gabbia temporale di un eterno tempo presente, trasformando quest’ultimo in un eterno tempo dell’Apocalisse» – e poco dopo: «la società postmoderna, dunque, nasce dall’orrore della storia e prosegue attraverso ulteriori apocalissi in modo da intensificare la costruzione della propria identità nella storia».

Implicitazione del senso, frammentazione spazio-temporale e senso di ripetizione si abbinano poi a mondi che, in entrambi i casi, sono evidentemente decadenti, o addirittura già decaduti. Questo diventa evidente nel modo in cui entrambe le opere insistono su ciò che normalmente viene isolato o tenuto ai margini delle narrazioni (o anche del nostro lessico) per farci soffermare il meno possibile sulla nostra caducità di esseri umani – ne parla anche Zapffe utilizzando il termine ‘tatto’.5 Mad God e Elden Ring sembrano disinteressarsi completamente al ‘tatto’. Entrambi sono pieni di corpi deformi, avvizziti, di ghiandole, vene che si gonfiano, interiora, vomito, ossa, dolore, torture, vecchiaia, mutilazione, feci. Sono universi ossessionati dal decadimento, sia architettonico e ambientale che, soprattutto, fisico. Questo si traduce in una messa in scena della morte abbastanza singolare: in entrambi, la morte è costantemente presente, tanto però da diventare un evento quasi insignificante. Entrambi, a livello diegetico, parlano di morte e raccontano della morte dall’inizio alla fine, al punto che però questa diventa quasi un evento da nulla.

In alto: la pervasività della morte in Elden Ring. In basso: torture e diarrea in Mad God.

Scrive Lino che

Il più grande rimosso culturale del Novecento, su cui ruota la retorica della superficie, del citazionismo e del pastiche di generi e stili narrativi tipico dalle narrazioni apocalittiche postmoderne, è la morte: raccontare e immaginare la morte sancisce la scaturigine di una temperie culturale in cui i tabù della rappresentazione cadono mostrando una forte attrazione verso le tematiche con cui costruire i discorsi dell’immanente, dello scatologico e anche dell’osceno, invece di riflettere sul trascendente, l’escatologico e ciò che è moralmente accettato.

Questa citazione sembra descrivere molto bene i due testi che ci interessano.

In Mad God vediamo esseri morire da inizio a fine, dagli gnomi schiacciati nei primissimi minuti agli ammassi di materia-operai uccisi nei modi più accidentali, fino alle ultimissime inquadrature – nell’universo del film sembra che non si possa proprio vivere senza uccidere o essere uccisi, in modi molto spesso brutali e sempre e comunque assurdi. Elden Ring seguita invece la tradizione del filone dei soulslike: le parole che si leggono più in assoluto a schermo sono “SEI MORTO”, visto che la difficoltà del gioco è tanto alta da portare a un continuo game over. A essere costante, in entrambi, è di conseguenza anche il senso di vulnerabilità: le entità che vediamo, quanto il nostro avatar nel gioco, da un momento all’altro potrebbero essere spazzate via e dilaniate – fatto che puntualmente si verifica. Questo senso di vulnerabilità, in entrambi, è anche rafforzato da scale di grandezza che contrappongono esseri piccoli ad ambienti giganteschi o esseri più grandi – in Mad God vediamo personaggi che supponiamo a dimensione umana schiacciati da scarponi, per esempio, o l’Assassino trovarsi al cospetto di enormi figure antropomorfe su delle sedie elettriche; in Elden Ring la sproporzione tra personaggio giocante e altre creature è evidente, e anche quella seguita il filone di riferimento, con enormi draghi, enormi spazi, ma anche personaggi umani sempre costantemente alti uno-due metri più del nostro avatar.

Man mano che si riesce a ottenere una visione d’insieme di entrambi gli universi, poi, essi non si attardano a svelarsi ‘escatologici’ (oltre che ‘scatologici’, tra Mangiasterco e esseri fatti di marciume). Entrambi cioè sembrano andare a parare in una metafora sul senso stesso della vita, o sulla logica ultima dell’universo. Su questo c’è da premettere che entrambe le opere verranno interpretate all’infinito, da qui ai prossimi anni; quindi, per ora non posso che limitarmi a una visione d’insieme quasi ‘letterale’ di quanto accade a schermo, senza scomodare letture più complesse. Tanto Elden Ring che Mad God si ambientano in mondi sconvolti della catastrofe e conducono infine a una catarsi, alla possibilità di reiterare quella catastrofe. Hanno in questo entrambi un andamento che potremmo dire ciclico: in Mad God di morte e rinascita, e di nuovo morte e rinascita; in Elden Ring nel passaggio da un ordine all’altro, o nella reiterazione di un ciclo di successione all’interno del medesimo ordine. In entrambi i casi, le pile di cadaveri di avventurieri precedenti che troviamo o vediamo in giro potrebbero essere quelle degli innumerevoli che ci hanno preceduto, non solo in questa stessa linea temporale, ma anche nelle precedenti.

La ripetizione si costruisce, come già accennato, sul decadimento di un ordine precedente. L’Ordine Aureo in frantumi, l’albero che ha perso il suo splendore dopo essere fiorito per un istante, le città divenute cumuli di rifiuti e poste a strati, l’una sull’altra. Di questi ordini non facciamo che trovare in giro le rovine, tanto che sia Elden Ring che Mad God sono pienamente ascrivibili al filone ‘post-apocalittico’, in quanto ambientati a posteriori di un evento che ha spazzato via un mondo precedente. Anzi, più ordini precedenti, ora accatastati l’uno sull’altro: in Mad God si scende all’infinito e sotto ogni città in rovina ce n’è un’altra ancora, un piano ancora; in Elden Ring, che recupera il world-building stratigrafico di altri videogiochi FromSoftware precedenti, sotto l’Interregno ci sono intere città eterne.

Sopra, l’incipit di Mad God vede l’Assassino discendere nelle profondità della terra, fino a raggiungere uno scenario urbano post-apocalittico. Sotto, in Elden Ring si utilizzano degli ascensori per raggiungere le Città Eterne, intere città abbandonate costruite nel sottosuolo.

La ripetizione passa poi per delle fissazioni procedurali all’interno di questi mondi decaduti: il perdersi, l’orientarsi difficilmente tra i frantumi, il non trovare un senso, il morire di continuo, l’uccidere di continuo – soprattutto in Elden Ring che, come molti altri videogiochi d’azione, mette la pratica dell’uccidere al primo posto tra le varie attività possibili per conoscere il mondo.

In ultima istanza la ripetizione passa per la possibilità, al termine del viaggio, di dare inizio a un nuovo ciclo – abdicare a una nuova divinità, ripristinare o ri-distruggere il mondo, succedere al trono di quella vigente. In Elden Ring questo avviene nei termini di un empowerment squisitamente videoludico: nel gioco l’utenza è agente, e per questo il protagonista controllato succede nella sua missione e compie la scelta che determinerà il nuovo ciclo. In Mad God c’è meno possibilità per l’utente: il ciclo viene attivato, ma non certo grazie a chissà quale scelta dell’Assassino, che anzi viene portato avanti nel suo viaggio anche e soprattutto dopo essere stato ucciso e vivisezionato.

Ecco, ora che abbiamo messo un po’ in prospettiva queste due opere così apparentemente diverse, al netto  di altri elementi che avrei potuto citare – prima su tutti la spiccata referenzialità di entrambe – non resta che riflettere su cosa queste ci dicano su come, almeno in parte, percepiamo la nostra realtà, il nostro tempo, e se vogliamo la Storia. Inevitabilmente, qui il discorso si aprirà a includere altri esempi simili che per brevità non ho trattato fino a ora.

Volendo dare una interpretazione socio-culturale, sembra evidente che le narrazioni apocalittiche contemporanee siano sempre più aperte verso la considerazione dell’apocalisse non come evento finale, come quella biblica, in cui spazio e tempo collassano per non tornare mai più come prima. L’apocalisse, oggi, è un evento che pone fine nel momento in cui dà un nuovo in inizio – come se sentissimo di aver già vissuto l’apocalisse, e la situassimo quindi in uno spazio-tempo passato. Ed è come se l’apocalisse fosse la ragione per cui il mondo, il senso, se vogliamo anche la verità, ci appaiono in frantumi. A muoverci è un morboso attaccamento a quell’evento apocalittico, che cerchiamo di capire e ricostruire di continuo tramite i frammenti, i simboli, i segni. In questo senso potremmo dire il postmoderno come post-apocalittico per definizione, proprio in quanto costruito su quel che resta delle rovine del processo modernista. Non solo: siamo talmente certi di vivere in una realtà post-apocalittica che iniziamo a concepire a fatica un mondo al di fuori di questo scenario. Quindi l’apocalisse c’è stata, ma ecco che ne arriva un’altra, e dopo se ne prospetta un’altra ancora, all’infinito. L’apocalisse è diventata un mito, e in quanto tale si abbatte ancora e ancora.

Questa mitizzazione dell’apocalisse è alla base di una serie di narrazioni, a cavallo tra vari media, che ruotano attorno al tentativo di fuoriuscire dal tempo mitico e dalla ciclicità di queste catastrofi. Il ciclo di morte e rinascita dalle rovine, e inevitabile ri-morte e così via, dà vita a racconti che disperatamente cercano di ‘spezzare’ il mito, e quindi far tornare il tempo a scorrere in modo lineare. Queste narrazioni sono se vogliamo nostalgiche, perché immaginano un ritorno a un ideale tempo pre-apocalittico, o paradossalmente utopistiche, in quanto sognano un domani in cui il decadimento possa essere arrestato oppure la fine (quella definitiva, di tutti i tempi) raggiunta. In questo senso, nostalgia e utopia si incontrano in un cortocircuito in cui a essere desiderata è l’uscita futura da un ‘tempo rotto’ ciclico, che è però anche ripristinazione di uno stadio iniziale di linearità temporale. Tra i racconti ‘nostalgici’, che sentono la mancanza di una fine definitiva, troviamo la tetralogia di Rebuild of Evangelion [Anno, 2007-2021], la terza stagione di Twin Peaks [id., Lynch, 2017]6 o il videogioco Death Stranding [Kojima Productions, 2019], tutte opere che non fanno che agitarsi nel tentativo di rompere il ciclo, arrestare l’eterno ritorno e trovare una soluzione al suo esterno, che poi possa mostrarsi o svelarsi impossibile. Elden Ring e Mad God in questo sembrano essere più pessimisti, in quanto non ammettono la possibilità di uscire dal ciclo di ripetizioni.

Un altro elemento interessante su cui vale la pena riflettere è la proliferazione di racconti incentrati sulla ciclicità e sull’eterno accadere dell’apocalisse in ambito videoludico. Il finale di Mad God, che vede l’universo ricostruirsi daccapo per poi di nuovo crollare, e tutto andare avanti per un secondo e un terzo giro, è in questo del tutto simile a quello che vediamo in giochi come Dark Souls [FromSoftware, 2011], Nier: Automata [PlatinumGames, 2017], Xenoblade Chronicles [Monolith Soft, 2010], Returnal [Housemarque, 2021],7 Outer Wilds (Mobius Digital, 2019) e così via – difficile compilare una lista esaustiva. Sono tutti titoli che diegetizzano apocalisse, morte, e ciclicità. A ben vedere, anche quelli che non hanno questi temi a livello diegetico sono interpretabili come cicli: il primo Silent Hill [Konami, 1999],8 è per esempio un incubo che ogni volta si ripete, e che ogni volta ha una verità diversa da raccontare. In generale, avviare un gioco dopo aver finito la prima partita, ancora più che guardare un film per la seconda volta, rende esperibile il tempo finzionale come ciclico, di fatto rendendo ri-abitabile il mondo del gioco in quanto campo dell’esperienza in senso fenomenologico. Questo spiega perché, nel videogioco, il farsi-mito dell’apocalisse sia più frequente che mai: la ragione è a ben vedere meta-testuale. Il videogioco è per definizione possibilità di ri-esperire, ri-accadere, ri-scegliere, tanto che la virtualità stessa è definibile come latenza di tutte queste possibilità.

E questo ci porta al punto con cui voglio chiudere questa riflessione. Se è vero che i racconti sull’apocalisse sono molto cambiati nel tempo, e a differenza dell’apocalisse come fine ultima adesso parliamo di apocalisse come distruzione/creazione che dà avvio a un nuovo ciclo è anche in virtù di fattori produttivi, economici, e tecnologici. È inevitabile che il videogioco arrivi a parlare di ciclicità, essendo la reversibilità e la ripetibilità di ogni suo stato insita nella sua natura di artefatto. Al tempo stesso, è inevitabile che si arrivi a parlare di ciclicità al cinema, anche e soprattutto quando si arriva a ritrattare immaginari passati. L’immaginario passato, che nel contemporaneo diventa punto di riferimento e scenario narrativo, è già accaduto ma è destinato a ripetersi nel presente. Remake, reboot e ‘rebuild’ sono, a ben vedere, processi di matrice autoriale, ma anche economica, e più in generale produttiva, che vanno a riflettere sempre più consapevolmente su un passato che si è trasformato in mito. L’apocalisse è spesso un passaggio tra un ciclo e l’altro. Il contemporaneo, allora, normalizzando la ripetizione normalizza anche l’apocalisse – anche e soprattutto a livello di percezione e consumo delle immagini.

Come sempre, il sentire contemporaneo è stratificato ed emerge da una convergenza di interessi di vario genere, che al tempo stesso sono effetto e causa del modo in cui percepiamo la realtà. In attesa quindi di vedere cosa accadrà alla nostra visione della fine imminente, non resta che crogiolarci tra queste rovine, per così dire, magari nel tentativo di costruirvi sopra qualcosa che non venga spazzato via a breve.

Mad God.

 

NOTE

1. S. Caselli, Dentro la catastrofe. Gli spazi post-apocalittici nel videogioco, 2018.

2. S. Caselli, Nuovi mondi possibili. Note su mito, determinismo e multiversi narrativi, 2020.

3. D. Denta, L’universo di Mad God. Alcune ipotesi, 2022.

4. Dall’introduzione del volume, consultabile al sito: https://www.leparoleelecose.it/?p=22952.

5. Vedi P. W. Zapffe, L’ultimo Messia, 1993, in particolare la sezione riguardante l’’isolamento’.

6. N. Vigna, A. Libera, M. Andronaco, M. Mele, Twin Peaks – il ritorno, Lo Specchio Scuro, 1, 2021.

7. S. Caselli, Returnal: ripetizione e trauma nel videogioco – Attraverso mondi virtuali #4, podcast.

8. S. Caselli, Silent Hill: il segno e la macchina – Attraverso mondi virtuali #1, podcast.