Il processo [Le Procès, 1962] si apre con l’apologo “Davanti alla Legge”, raccontato da una serie di illustrazioni e dalla voce narrante di Orson Welles. Spostando il breve racconto dal IX capitolo del romanzo1 all’inizio del film, Welles non solo soddisfa il suo particolare gusto nel «cominciare col dire quello che succederà»2, ma mette in chiaro fin da subito («perché la gente […] prendesse nota e se lo tenesse bene a mente»3) la logica e la modalità con cui la storia verrà raccontata: «la logica di un sogno… di un incubo»4.

L’obiettivo di questo saggio è riflettere su come Orson Welles abbia utilizzato il linguaggio cinematografico per realizzare un film che segue la logica dei sogni. Quello che si cercherà di fare è mettere in luce non tanto gli aspetti onirici della trama, in gran parte ereditati da Kafka, ma i modi e le soluzioni cinematografiche che Orson Welles ha utilizzato per mettere in scena un film che segue la logica di un sogno e che, come a volte fanno i sogni, si trasforma in un incubo.

Può essere interessante fare una breve introduzione partendo dalle teorie di Walter Murch, che stabilisce un legame tra il cinema e i sogni attraverso il montaggio. Nel suo libro In un batter d’occhi (e in diverse conferenze) Walter Murch si domanda perché gli stacchi funzionino. L’improvviso spiazzamento generato dagli stacchi, l’istantaneo spostamento del campo visivo che «qualche volta implica un salto in avanti o indietro nel tempo come nello spazio»5, misteriosamente funziona; lo stacco non provoca un rifiuto da parte dello spettatore ma viene accettato, spesso senza essere notato. Nonostante la violenza propria di ogni stacco, l’accostamento di due immagini, l’improvviso passaggio tra due inquadrature, funziona senza generare alcuna obiezione o disturbo6, rafforzando anzi la narrazione e partecipando in modo attivo alla costruzione di senso all’interno del film. Se uno stacco provoca una rottura e una discontinuità, «al contrario, la realtà visiva che noi percepiamo dal momento del risveglio fino a quando chiudiamo gli occhi è un flusso continuo di immagini collegate»7; l’esperienza visiva del film montato è molto lontana dalla nostra esperienza cosciente, ma nonostante ciò gli stacchi funzionano. Come scrive Murch, «non sarebbe stato sorprendente scoprire che il nostro cervello fosse stato programmato dall’evoluzione e dall’esperienza a rifiutare il montaggio cinematografico»8. Continuando la sua riflessione sul montaggio e la sua indagine sul funzionamento degli stacchi, Walter Murch arriva a suggerirne un’origine (o comunque un precedente) onirica:

Ebbene, anche se la realtà «di tutti i giorni» sembra continua, esiste quell’altro mondo in cui passiamo forse un terzo della nostra vita: la realtà onirica «di tutte le notti». E nei sogni le immagini sono molto più frammentarie e sono intrecciate in modi molto più strani e più bruschi che nella vita da svegli, modi che per lo meno si avvicinano all’interazione prodotta dal montaggio.

Forse la spiegazione è semplice: accettiamo gli stacchi perché assomigliano al modo in cui le immagini sono giustapposte nei sogni.9

L’appartenenza del cinema a un mondo onirico, la loro parentela, hanno radici più profonde del piano contenutistico. Parlando de Il processo, Orson Welles dice: «non è la riproduzione di un sogno […] si riferisce all’esperienza del sogno»10, spostando in modo esplicito il rapporto tra film e sogno da un livello narrativo a una più complessa relazione tra il cinema e l’esperienza dei sogni.

Welles arriva con Il processo a mettere in scena, con intenzione e consapevolezza, il mondo del sogno. Questo non è certo il suo unico film a testimoniare lo stretto legame tra sogni e cinema: basti pensare alla logica onirica che è propria dei film noir e quindi dello Straniero [The Stranger, 1946], della Signora di Shanghai [The Lady from Shanghai, 1947] e dell’Infernale Quinlan [Touch of Evil, 1958], a quel sogno esotico che è Storia Immortale [Une histoire immortelle, 1968] o all’onirico viaggio nell’illusione, nell’arte e nella falsificazione che è F come Falso [F for Fake, 1973]. È però con Il processo che Welles cerca in modo programmatico di realizzare un film che possieda le caratteristiche dei sogni:

quel che cercavo è la parte di magia che c’è nel sogno. Perché i sogni hanno a che fare con la magia […] Creiamo mondi interi nei nostri sogni, pieni di gente che non abbiamo mai visto, di posti dove non siamo mai stati, che sembrano una eco, un riverbero di mondi e di ricordi che non abbiamo mai sperimentato. Eppure, eccoli là, perfettamente reali nel contesto di quell’esperienza che si fa dormendo, quando siamo in contatto con quella cosa che c’è ma non si sa che cosa sia, e che abbiamo appena cominciato a tentare di intuire. […] sognare vuole dire questo. Che succedono tante, tantissime cose […] che ci parlano magicamente.11

Quello che Welles afferma del sogno potrebbe dirlo anche dei film. Sogni e cinema condividono una magia e un linguaggio che gli sono propri e che restano preclusi alle altre altri. Orson Welles ha saputo realizzare il potenziale del cinema; con i suoi film, e con Il processo in particolare, ha saputo mettere in scena l’esperienza e la magia del sogno.

Il processo e la logica del sogno

Nella lunga sessione di domande e risposte filmata nel 1981 per l’incompleto Filming The Trial, Orson Welles afferma: «Nel film dico che è un sogno. Che ho fatto un film che è come un sogno. Ho cercato di fare un film che è come alcuni sogni che ho fatto»12. Anche nel libro di Peter Bogdanovich, Welles insiste a lungo sulla dimensione onirica del film e sul suo essere un’esperienza di sogno, chiarendo però un importante aspetto: il film segue la logica dei sogni “parlando” la lingua degli incubi, ma non vuole essere una riproduzione di un sogno da un punto di vista narrativo: il film è l’adattamento del romanzo di Kafka, e non un sogno di Orson Welles. Di certo l’intera vicenda non è un sogno del protagonista; la domanda di Bogdanovich «un critico ha commentato che, essendo K. addormentato all’inizio de Il processo, è possibile che tutto il film sia un sogno dal quale non lo vediamo svegliarsi» viene interrotta e respinta con umorismo «(OW RUSSA13. Welles utilizza il mezzo espressivo che più si avvicina al sogno per raccontare la storia di K., mettendo in scena una vicenda che trasporta con grande efficacia gli spettatori in un mondo onirico.

Il disorientamento, di K. e degli spettatori, è una condizione tipica dei sogni e degli incubi; questo disorientamento è strettamente legato al trattamento dello spazio nel film: le camere e i corridoi sembrano mutare da un’inquadratura all’altra, gli interni e gli esterni si confondono, le porte e le scale conducono in stanze che sembrano sempre diverse ma che sono anche familiari. Le architetture, gli spazi del film, sembrano intrappolare K. e gli spettatori in un labirinto; le sale che si susseguono e che K. attraversa si dispongono seguendo la logica degli incubi, mutando e collegandosi nelle maniere più imprevedibili e incomprensibili. A un’analisi e a una riflessione sugli ambienti de Il processo, sul modo in cui Orson Welles li ha messi in scena e sulla loro importanza nel rendere il film un’esperienza simile al sogno, sarà dedicato gran parte dell’articolo. Sarà poi approfondito l’aspetto sonoro del film: i dialoghi non sempre sincronizzati con il movimento delle labbra degli attori, le voci non sempre comprensibili e provenienti da distanze che non coincidono con le immagini, non sono da considerare errori e sbavature tecniche, ma scelte con una precisa funzione, in un film in cui Welles ha avuto totale libertà creativa14. Si discuterà infine un altro aspetto che avvicina Il processo al mondo dei sogni: l’alterazione e la confusione del tempo, l’assenza di precisi riferimenti spazio-temporali, non solo riguardo l’ambientazione, ma anche, e in modo più disorientante, per quanto riguarda lo svolgersi dell’azione. 

L’architettura del sogno

Un elemento «fondante», comune al romanzo e al film, è il forte disorientamento provato da K. – e, attraverso di lui, dal lettore o dallo spettatore. Questa sensazione di spaesamento è certamente provocata dalle imprevedibili vicende di cui K. diviene protagonista, e che non riesce a comprendere, ma anche dal trattamento e dall’organizzazione spaziale e geografica del romanzo e del film. Per quanto riguarda l’arresto e le numerose vicissitudini che K. affronta, Kafka e Welles si comportano in modo simile, provocando confusione e disorientamento attraverso l’assenza di spiegazioni: K. si trova ad affrontare una legge che non conosce, un sistema che non capisce e di cui sa poco, nonché funzionari, ispettori e avvocati che complicano ancor più la situazione anche quando vogliono fare l’opposto. L’indefinitezza, l’assenza di informazioni e di punti di riferimento sono le strategie usate nel romanzo e nel film per disorientare K.: tanto che il protagonista de Il processo e il lettore/spettatore non sanno nemmeno qual è l’accusa. Questa sensazione di spaesamento generata dalla mancanza di informazioni trasporta la vicenda in un mondo fortemente onirico: un mondo che segue le dinamiche dei sogni, in cui la trama si sviluppa senza chiarimenti, in cui il significato e il senso si appannano e sembrano dissolversi nell’indefinitezza e nell’incompiutezza e, allo stesso tempo, nella moltiplicazione e nel sovraccarico di incontri ed episodi. Se però lo svolgersi «onirico» della trama è ottenuto allo stesso modo da Kafka e Welles, al contrario l’aspetto geografico e spaziale viene gestito in modi diversi dallo scrittore e dal regista, e permette una più interessante riflessione sul cinema: Kafka disorienta K. e il lettore trasportandoli in un mondo vago ed evanescente che non viene mai descritto con precisione e compiutezza. Gli elementi delle architetture si svelano gradualmente, senza dipingere gli ambienti in modo finito; come per la trama, gli spazi del romanzo sorprendono e disorientano grazie alla vaghezza e alla mancanza di informazioni che li caratterizza. Orson Welles, invece, ha a che fare con un mezzo espressivo diverso dalla scrittura: al contrario di un romanzo, un film è un’esperienza visiva. Il regista deve quindi trovare una soluzione per adattare al diverso mezzo la gestione dello spazio del romanzo e per replicare la sensazione di disorientamento che esso provoca:

Non si poteva trovare una soluzione banale o semplice per ricreare in qualche modo il trattamento dello spazio in Kafka perché […] la geografia in Kafka è disorientante per la sua mancanza di dettagli e per la sua vaghezza, mentre l’immagine cinematografica, quando è realizzata in modo convenzionale, è una chiara e distinta riproduzione di oggetti e delle loro relazioni spaziali.15

Welles deve quindi adattare l’effetto che Kafka ottiene privando il lettore di informazioni e descrivendo in modo vago gli ambienti, senza poter sfuggire al vincolo fotografico che il cinema gli impone. Welles non solo riesce a conservare e mettere in scena con successo il modo in cui Kafka utilizza e gestisce lo spazio, ma, proprio nelle soluzioni che trova per fare ciò, costruisce con maggiore forza e restituisce con straniante vividezza l’esperienza e la logica dei sogni.

Inizialmente Welles avrebbe voluto adattare lo spazio «vago» del romanzo in modo più didascalico: il regista aveva infatti ideato e disegnato una serie di set che avrebbero dovuto ridursi nel corso del film, fino a scomparire: «Le scenografie dovevano scomparire gradualmente. Il numero di elementi realistici doveva diminuire gradualmente e questo doveva essere notato dagli spettatori, fino a che fosse rimasto solo un spazio vuoto, come se tutto si fosse dissolto»16. La mancanza di fondi ha impedito la costruzione dei set pensati da Welles, che ha dovuto adattarsi e ripensare il film, decidendo di utilizzare la deserta Gare d’Orsay. L’idea, seppure non più come fondamento dell’intera scenografia e del film, viene in parte conservata; si possono trovare infatti «tracce di questo concetto nella versione finale del film, che inizia nel piccolo appartamento di K. e poi ci porta attraverso una serie di stanze senza pareti. L’ufficio di K., per esempio, è una piattaforma rialzata a un’estremità di un edificio simile a un hangar»17. Il dissolversi degli ambienti continua durante tutto il film, che alterna spazi claustrofobici, come il ripostiglio dell’ufficio, ad ampie camere e saloni, come la casa dell’Avvocato o la sala dell’interrogatorio, fino ad arrivare alla scena della cattedrale che sembra svolgersi in uno spazio vuoto e privo di scenografie, e ai piatti e deserti campi che K. attraversa scortato dai suoi esecutori. Nel film però, la disorientante esperienza onirica non è affidata tanto al dissolversi della scenografia, quanto a una geografia in continuo mutamento e priva di chiari punti di riferimento, costruita principalmente attraverso il montaggio che collega gli ambienti del film senza soluzione di continuità. Orson Welles ha affermato: «Nei miei sogni mi sposto da un tipo di architettura a un altro senza alcuna difficoltà»18; lo stesso si può dire di Jospeh K., che si muove da un’architettura a un’altra, tra una stanza e un corridoio, da un claustrofobico interno a un desolato esterno, senza nessuna difficoltà o contraddizione. Questo rapido, improvviso e straniante passaggio da un ambiente a un altro è l’elemento che con più forza caratterizza la dimensione onirica del film. Come nota Cristina Vatulescu, «K. non è quasi mai mostrato mentre si dirige in un luogo. Non è quasi mai in strada, il che genera transizioni estremamente brusche tra le scene»19. Proprio come in un sogno K. passa in modo improvviso da un ambiente al successivo, ma anche quando i suoi spostamenti vengono mostrati questi si configurano in modo straniante e surreale. Un esempio è la convocazione di K. all’interrogatorio: K. sta assistendo a uno spettacolo teatrale quando riceve un messaggio da una giovane donna seduta dietro di lui. In questo caso K. viene mostrato mentre, nel seguire l’Ispettore, attraversa una serie di stretti passaggi e cammina in vicoli bui, fino ad arrivare alla stanza dove riceverà le indicazioni per raggiungere il luogo dell’interrogatorio. Gli ambienti che si vedono attraversare da K. sono ambigui, è difficile decidere se si tratta di interni o esterni. La loro giustapposizione disorienta e non rende chiara allo spettatore la geografia del teatro e dei suoi dintorni. L’Ispettore attende K. in quello che sembra essere un atrio e lo conduce verso una porta che poco si integra con il resto dell’ambiente; questa porta comunica con degli stretti corridoi che sembrano esterni al teatro, ma le tubature che corrono lungo i soffitti e che ingombrano gli ambienti suggeriscono un ambiente chiuso: dei corridoi di servizio magari, ma certamente collegati in modo disorientante e improbabile con l’atrio del teatro.

il processo recensioneL’Ispettore attende K. in quello che sembra essere un atrio…

il processo welles recensione…e lo conduce verso una porta che poco si integra con il resto dell’ambiente.

K. e l’Ispettore arrivano in un’ampia stanza dove, raggiunti da due inquietanti e muti poliziotti, viene indicato a K. il luogo dell’interrogatorio. L’inquadratura dal basso mette in scena un soffitto dall’aspetto industriale, con un gran numero di travi che lo attraversano. K. si trova oppresso dai due poliziotti, posti più in alto, dall’Ispettore, più vicino alla macchina da presa e quindi di dimensioni maggiori rispetto al protagonista, oltre che dal pesante soffitto e dalla luce intradiegetica che lo sovrastano. Questa stanza sembra un interno, ma le inquadrature successive si affrettano a incrinare questa certezza: il muro alle spalle di K. non sembra l’interno di una stanza, ma piuttosto la facciata esterna di un palazzo. Welles crea così uno spazio che, seppur comprensibile nei suoi singoli elementi, disorienta e trasporta la narrazione in uno spazio ambiguo, in continuo mutamento, e, perciò, onirico.

il processo recensioneQuello che sembra senza dubbio un interno forse non lo è.

il processo recensioneIl muro alle spalle di K. non sembra l’interno di una stanza, ma piuttosto la facciata esterna di un palazzo.

Anche quando è mostrato in modo esplicito uno spostamento di K. da un luogo all’altro, Welles mette in scena la transizione e organizza lo spazio seguendo la logica dei sogni. Un altro esempio è la scena in cui K. lascia gli uffici del tribunale e, accompagnato dalla cugina Irmie, torna al suo ufficio. Il passaggio dai claustrofobi e labirintici uffici della scena precedente alla monumentale scalinata che riporta K. all’aria aperta è straniante. Nonostante lo stacco sia mediato da una dissolvenza incrociata, il contrasto tra i due ambienti è netto. K. si trova in un ambiente imprevisto e differente da tutti gli altri spazi in cui si svolge il film. Quando poi inizia a camminare con la cugina, nel tempo di uno stacco (che non presuppone alcuna ellissi temporale, visto che il loro dialogo continua senza interruzioni) K. passa da una scalinata monumentale e antica a una sobria e moderna.

il processo kafka welles

il processo recensioneNel tempo di uno stacco la scalinata si trasforma radicalmente.

Nell’inquadratura successiva lo sfondo viene occupato da grandi palazzi a vetri, e la scala scompare sostituita da un basso muretto. L’ambiente si trasforma ancora: mentre K. si avvicina al suo ufficio il palazzo è diverso da quello che si vede nell’inquadratura precedente e alle spalle di Irmie appare un’enorme costruzione.

il processo recensioneAlle spalle di Irmie appare un’enorme costruzione.

Le riprese per questa sequenza sono state fatte in tre diverse città, Roma, Milano e Zagabria (quattro se si conta la fine della scena precedente, girata nella Gare d’Orsay a Parigi)20. Come in sogno, Orson Welles fa viaggiare per il mondo K. e lo spettatore, senza difficoltà e in modo istantaneo. Lo spazio composito, frammentato e in rapida trasformazione però funziona, risulta essere continuo: i due personaggi lo attraversano senza difficoltà e senza contraddizioni, muovendosi attraverso le inquadrature in modo chiaro per lo spettatore. La geografia onirica disorienta e genera una sensazione di straniamento, ma non denuncia in modo evidente la propria discontinuità e assurdità, e non compromette la comprensione da parte dello spettatore.

Le occasioni in cui K. viene mostrato spostarsi e camminare da un luogo a un altro sono però poco numerose: generalmente nel corso del film gli spazi intermedi, i collegamenti e gli spostamenti tra i vari ambienti vengono eliminati del tutto, creando una geografia labirintica e incomprensibile. Le stanze più diverse e i luoghi più distanti sembrano diventare vicini e collegati, e K. li attraversa come in sogno, senza rendersi conto della loro incoerenza. Questa geografia onirica si rivela in modo graduale, proprio come in un sogno che diventa sempre più assurdo. Cristina Vatulescu osserva che

All’inizio del film, questa costante assenza di spazi intermedi tra i principali luoghi architettonici sembra essere creata dalla cinepresa. Le nostre aspettative e le precedenti conoscenze che abbiamo delle città reali ci fanno riempire i vuoti e ci fanno immaginare che questi spazi esistano e siano stati tagliati. Questa rimozione delle scene di transizione non è immediatamente percepita in modo particolarmente disturbante, ma viene accolta come un procedimento piuttosto comune, anche se in questo caso esasperato, nel cinema di consumo. Nonostante ciò, con il rivelarsi della logica spaziale alla base del film, ci si accorge che la città in cui K. vagabonda in cerca di una soluzione per il suo caso è peculiare proprio per l’impossibile continuità e assenza di confini fra differenti […] spazi.21

Le prime scene del film sono collegate da dissolvenze: il passaggio tra l’appartamento di K. della scena iniziale e l’ufficio dove lavora avviene tramite una dissolvenza al nero; il passaggio dall’ufficio alla scena con Miss Pittl attraverso una dissolvenza incrociata; e il passaggio da questa terza scena alla successiva in teatro. Gradualmente però la città e gli ambienti attraversati da K. iniziano a rivelare la propria logica onirica. Il palazzo di fronte al quale K. incontra Miss Pittl non sembra lo stesso della scena iniziale, e si è già analizzata la geografia del teatro e dei suoi d’intorni. Con il proseguire del film aumenta anche lo straniamento spaziale. La scena dell’interrogatorio si apre con un’inquadratura di una statua che sembra sospesa nel vuoto, per poi mostrare K. entrare in un anonimo e imponente edificio, davanti al quale aspettano immobili degli anziani, svestiti e con al collo targhe numerate.

Gli anziani con al collo le targhe numerate, evidente riferimento ai campi di prigionia.

Una sola rampa di scale sembra condurre K. in un sottotetto. Da lì, attraversando una porta che viene chiusa alle sue spalle, K. entra nell’enorme e sovraffollata sala dell’interrogatorio, i cui alti soffitti non coincidono con quelli ben più bassi delle inquadrature precedenti. Finito l’interrogatorio K. abbandona la stanza, e, quando richiude la porta della sala dietro di sé, questa si trasforma in modo improvviso e imprevedibile in un gigantesco portone.

welles kafka

il processo recensioneQuando K. chiude la porta, questa diventa improvvisamente enorme.

Lo spazio del film continua da qui a complicarsi e a delinearsi in modo sempre più onirico. La casa dell’avvocato Hastler si configura come un labirinto, le cui enormi stanze sembrano tutte comunicare e moltiplicarsi; la sala dell’interrogatorio in cui K. torna è ora deserta, e il vuoto sottotetto della scena 6 è ora arredato come un appartamento; la Guardia conduce K. negli uffici del tribunale attraverso stretti passaggi e scale traballanti. Qui K. si perde per davvero, e, dopo essersi sentito male, viene accompagnato all’uscita. Lo straniante passaggio in cui K. torna al suo ufficio accompagnato dalla cugina è già stato analizzato. Dopo una nuova visita nella strana casa dell’avvocato, si arriva al momento in cui lo spazio del film si dichiara nella sua logica onirica: lo studio del pittore Titorelli. La minuscola stanza in cui il pittore vive e dipinge è una specie di gabbia. Composta da assi che assomigliano a sbarre, la stanza sembra intrappolare K., mentre una folla di ragazzine rumorose spiano attraverso le fessure. Per raggiungere lo studio, K. sale diverse rampe di scale, fino a raggiungerne una in legno, che, stretta e ripida, conduce il protagonista alla camera del pittore, posta sulla sommità di una cisterna e schiacciata tra il soffitto e i muri a cui si appoggia.

il processo recensioneLa stanza del pittore Titorelli.

La forma della stanza e la sua posizione denunciano da subito, e in modo piuttosto evidente, la sua natura assurda e surreale. All’interno una forte luce filtra tra le assi e disegna su K. e su Titorelli un gioco di luci e ombre; nelle inquadrature che mostrano l’esterno della stanza però non è presente alcuna fonte luminosa che giustifichi l’illuminazione all’interno dello studio. K. inizia a sentirsi male, cosa che era successa anche negli uffici del tribunale, quasi anticipando la rivelazione del pittore: una porta dietro al letto collega infatti il suo studio direttamente agli uffici del tribunale.

il processo recensioneUna porta collega lo studio del pittore con gli uffici del tribunale.

Qui la geografia de Il processo dichiara apertamente la sua logica: il minuscolo e fatiscente studio di Titorelli, collocato in cima a un palazzo infestato da ragazzine, è collegato agli uffici del tribunale da una sola porta, per altro irrazionalmente posizionata dietro a un letto. Lo spazio del film mostra qui tutta la sua assurdità; come scrive Carroll

Un collegamento di questo tipo è strutturalmente inconcepibile per diverse ragioni. Perché, per esempio, una porta dovrebbe essere messa a una così grande distanza da un qualsiasi pavimento? Poi, è difficile immaginare che i moderni uffici del tribunale siano collegati con il più vecchio edificio in cui vive Titorelli, ancora di più che siano collegati con la sua camera fatta di assi.22

Per lo spettatore è impossibile ricostruire una geografia precisa e coerente. Anche K. è sorpreso di ritrovarsi negli uffici del tribunale, e anche per lui lo spazio diventa impossibile da comprendere. Di nuovo Carroll: «Mappare lo spazio de Il Processo è impossibile. […] A volte è impossibile tenere traccia dei movimenti. […] E lo spettatore de Il Processo di Welles, come il lettore del romanzo di Kafka, è costantemente disorientato spazialmente»23. Infatti, lasciato lo studio del pittore, lo spazio continua a trasformarsi: la camera di Titorelli e la porta che K. ha appena attraversato scompaiono alle sue spalle, e in un’ inquadratura successiva appare dal nulla un corridoio di assi attraverso il quale il protagonista fugge.

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il processo recensioneLa porta che K. ha appena attraversato scompare alle sue spalle, e in un’ inquadratura successiva appare dal nulla un corridoio.

Inseguito dalle ragazzine urlanti, K. corre attraverso una serie di incomprensibili corridoi e tunnel, fino a ritrovarsi, inspiegabilmente, all’interno della cattedrale. Il corridoio di assi che K. attraversa nella sua corsa disperata non può essere collocato in modo razionale nello spazio del film: quella passerella tortuosa e dalla lunghezza indefinita sembra provenire direttamente da un sogno, e la fuga del protagonista inevitabilmente porta alla mente la comune esperienza dell’incubo. Senza nessun segnale che prepari o indichi il cambiamento, il corridoio si trasforma in una serie di tunnel e questi, inspiegabilmente, conducono K. nella cattedrale deserta, dove la sua corsa ha termine.

il processo recensioneLa corsa di K. termina in una cattedrale deserta.

Con la scena di Titorelli il film dichiara apertamente la logica alla base dell’organizzazione del suo spazio. Nella scena successiva, in cui K. incontra il Prete e l’avvocato nella cattedrale, l’ambiente assume in modo esplicito le caratteristiche di un sogno. Solo il pulpito dal quale il Prete interpella K. suggerisce che l’enorme sala vuota in cui il protagonista è arrivato sia l’interno di una chiesa. L’oscurità ne avvolge le pareti creando uno spazio che sembra estendersi senza fine. Gli unici arredi della cattedrale sono colonne dall’aspetto industriale e pesanti tende, dietro le quali K. sembra scomparire. In una sala che sembra essere quella dell’interrogatorio (sullo sfondo si vedono delle spalliere e una bacheca, arredi presenti nella suddetta sala) K. si imbatte nell’avvocato Hastler e in un proiettore. In uno spazio che è insieme la cattedrale e la sala dell’interrogatorio K. e lo spettatore vengono trasportati in un terzo ambiente: il mondo bidimensionale dell’apologo “Davanti alla legge”. K. si trova come intrappolato nelle diapositive che vengono proiettate su uno schermo alle sue spalle. Lo spazio, che con la cattedrale deserta e senza pareti si era già fatto evanescente, diventa ora ulteriormente astratto, riducendosi a uno sfondo bianco.

il processo recensioneNella cattedrale lo spazio arriva a ridursi a uno sfondo bianco.

In questa scena sembra realizzarsi l’intenzione originale di Orson Welles: quasi ogni scenografia è scomparsa, e K. si trova perso in uno spazio senza confini e in continuo mutamento, sprofondato nell’oscurità e trafitto da luci accecanti. Uscendo poi dalla cattedrale, K. si ritrova in una piazza deserta, immersa in un’atmosfera onirica che richiama alla mente i quadri di Giorgio de Chirico.

Orson Welles, attraverso il montaggio, l’uso dei set e delle location, mette in scena una città e uno spazio labirintico, mutevole e ingannevole. Le architetture e gli ambienti del film vengono organizzati secondo una logica onirica, irrazionale e straniante: Welles porta sullo schermo l’esperienza del sogno, e lo fa in primo luogo grazie alla surreale geografia che riesce a costruire. Il regista attribuisce questo successo ad «anni di imbrogli e trucchi di magia»24; qui si potrebbe ascriverlo al suo enorme talento e genio cinematografico.

il processo welles recensioneLa facciata esterna della cattedrale.

L’audio di un sogno

In questo paragrafo si analizzerà l’aspetto audio del film, sempre cercando di mettere in evidenza le soluzioni sonore adottate da Orson Welles per rendere Il processo un’esperienza onirica. È utile però iniziare questo paragrafo con un esempio visivo. Nella scena in cui K. visita gli uffici del tribunale, interroga un anziano in attesa come molti altri. Alle spalle del protagonista si raduna una piccola folla, stupita e incuriosita dall’inusuale trambusto. La conversazione tra K. e l’anziano viene messa in scena attraverso un classico campo e controcampo. Nella prima inquadratura di questa sequenza si vedono tre accusati alle spalle del protagonista, ma quando, dopo una breve inquadratura dell’anziano interlocutore, Welles torna a inquadrare K., alle sue spalle gli accusati sono diventati cinque. Nell’inquadratura successiva gli uomini sullo sfondo diventano due e, quando la conversazione sta per avere termine e K. viene inquadrato con un mezzo primo piano, gli accusati alle spalle del protagonista sono sei, più la silhouette di un settimo sullo sfondo.

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Il numero di uomini alle spalle di K. varia da un’inquadratura alla successiva.

Gli uomini alle spalle di K. non vengono mostrati arrivare o andare via, e il breve tempo intradiegetico tra un’inquadratura del protagonista e la successiva non consente di giustificare degli spostamenti fuori campo. Il numero variabile di accusati sullo sfondo potrebbe quindi sembrare un errore di continuità, ma si può supporre invece che sia una soluzione messa consapevolmente in scena dal regista. Il diverso numero di uomini alle spalle del protagonista crea una sensazione di straniamento e lo spettatore, magari senza capirne del tutto la ragione, nota che sta succedendo qualcosa di strano. Questo esempio vuole mostrare l’attenzione ai dettagli di Orson Welles, che costruisce la logica onirica alla base del film anche con soluzioni quasi subliminali, e ci suggerisce come rispondere a una possibile critica all’aspetto sonoro del film: le voci non sincronizzate, i dialoghi non perfettamente comprensibili, gli sbalzi e le intermittenze nel volume dell’audio non sono errori e imprecisioni tecniche, ma sono scelte consapevoli, che contribuiscono in maniera sostanziale a trasportare K., e lo spettatore con lui, in un mondo di sogno.

In alcune scene le voci dei personaggi sono di difficile comprensione, e questo è un modo in cui viene rappresentata l’incomprensibilità della legge. Infatti, come osserva Carroll, quando interpreta l’avvocato Hastler Welles

borbotta, parla con un asciugamano sul volto, con un sigaro in bocca. Questi espedienti rendono le sue parole, parole sulla legge, letteralmente quasi incomprensibili. L’aura di incomprensibilità giustifica gran parte dell’audio, che alcuni critici attaccano come non udibile. Chiaramente Welles ha avuto molto controllo sul doppiaggio. La sua distorsione delle voci è pensata per raddoppiare filmicamente il messaggio incomprensibile della legge.25

Anche le altre stranezze nell’audio andranno perciò considerate come volute e non casuali. Spesso i dialoghi non sono sincronizzati con il movimento delle labbra degli attori. Quando K. è per la prima volta in compagnia di Leni questo fatto è particolarmente evidente, così come quando il protagonista entra negli uffici del tribunale attraverso la porta nello studio di Titorelli. I volumi delle voci poi, non sempre sembrano coincidere con le immagini: la voce di personaggi sullo sfondo si sente a volte più forte di quella dei personaggi in primo piano. I livelli dei volumi sono intermittenti e, come osserva Martin Fitzgerald, rispecchiano l’aspetto visivo del film:

La cosa più impressionante è il rumore delle 850 macchine da scrivere, che smettono di lavorare tutte insieme e tutto diventa silenzioso. Per gran parte del film le voci sono a un volume basso, poi improvvisamente si sente un fragore di voci – nell’aula del tribunale si può sentire volare una mosca, quando poi K. fa il suo discorso la sala scoppia a ridere rumorosamente, ma tutti tacciono quando la guardia e sua moglie fanno l’amore. Questo dilatarsi tra il forte e il piano è ripreso dalle immagini, che sono distorte come in un brutto sogno.26

Orson Welles poi doppia 11 personaggi diversi, oltre a prestare la propria voce al narratore, all’inizio e alla fine del film. L’improvviso risuonare della voce del regista (come gli altri usi espressivi dell’audio qui segnalati) sorprende e disorienta lo spettatore. Lo straniamento si fa audio-visivo: l’esperienza imprevedibile e sorprendente del film, proprio come quella di un sogno, utilizza entrambi questi aspetti. Anche nei sogni l’audio è a volte incomprensibile, o una persona parla con la voce di un’altra.

Un altro elemento tipico dell’esperienza del sogno è l’integrazione di un rumore esterno: capita comunemente che il suono della sveglia, o un qualunque altro suono esterno al sognatore, si trasformi e venga integrato nel sogno. Ne Il processo avviene qualcosa di simile quando K. lascia la sala dell’interrogatorio. Nel momento in cui il protagonista chiude l’enorme portone, che, come si è visto, è già un momento particolarmente onirico, si sente lo stesso riconoscibile suono che durante l’apologo iniziale accompagna la chiusura della porta della legge. Il suono sembra provenire da quel luogo fuori e prima del film, penetrando nella narrazione dall’esterno. Come il suono della sveglia che penetra nel sogno e si trasforma in un allarme antincendio o in una sirena, il suono della porta della legge che si chiude penetra nel film nel momento in cui si chiude la porta della sala degli interrogatori, sala che contiene, se non la legge, i suoi rappresentanti. Le due porte, una esterna e una interna alla narrazione del film, vengono identificate e sovrapposte dal ripetersi dello stesso suono, e sembra quasi che sia questo suono a trasformare la porta della sala degli interrogatori, rendendola enorme.

Il tempo di un sogno

Nel film sono presenti pochissimi riferimenti temporali. Ne Il processo, come in un sogno, ci si muove in assenza di tempo: l’atemporalità trionfa, i piani temporali si intrecciano e si confondono. L’impressione che si ha guardando il film è che si svolga nell’arco di una sola giornata, ma si ha anche la sensazione che questo non sia possibile. Nella scena iniziale K. si lamenta di essere stato svegliato troppo presto: le sue parole e un orologio segnalano che sono le 6:15.

il processo recensioneLa sveglia in camera di K. è l’unico riferimento temporale esplicito del film.

L’arrivo di Miss Burstner, però, inizia subito a creare una certa confusione. Dopo aver lavorato tutta la notte, la vicina di stanza del protagonista rientra la mattina presto, e mentre K. si prepara per andare a lavorare, lei va a dormire. Sebbene lo spettatore sia stato esplicitamente informato sull’ora, la vita notturna di Miss Burstner e il suo rientro complicano la situazione e mettono alla prova la comprensione dello spettatore. Il secondo e ultimo riferimento temporale arriva poco dopo, alla fine della scena con Miss Pittl. Qui il suono delle campane indica che sono le 19, e K. osserva che non farà in tempo a cambiarsi per il teatro; sullo sfondo poi si sono accesi i lampioni. Si è quindi sicuri che questa scena e la successiva si svolgano di sera. Da qui in poi il film sprofonda nell’atemporalità e ricostruire uno sviluppo temporale razionale diventa impossibile. L’interrogatorio avviene poco dopo la scena del teatro, e senza soluzione di continuità. K. quindi viene interrogato di sera, in un orario piuttosto insolito. Orson Welles non mostra mai K. dormire, mangiare o compiere una qualsiasi azione che potrebbe collocare temporalmente lo svolgersi del film, segnalare il passaggio del tempo o indicare lo scorrere dei giorni. L’impressione quindi è che tutta la vicenda del film abbia luogo nell’arco di una sola giornata. Questo però è contraddetto dalle prime scene, che si svolgono di mattina e di sera. Il tempo del film segue quindi una logica che non è razionale ma assurda: la logica dei sogni. A partire dalla scena del teatro viene meno ogni esplicito e preciso riferimento temporale e K. sembra muoversi in un mondo fuori dal tempo. La distorsione temporale del film colloca la vicenda di K. in un mondo onirico, un mondo surreale in cui anche il tempo si contraddice e si frammenta.

NOTE

1. L’apologo era già stato pubblicato da Kafka come racconto, all’interno della raccolta Un medico di campagna (1919).

2. P. Bogdanovich, O. Welles, Il Cinema Secondo Orson Welles, Il saggiatore, Milano, 2016, p. 286.

3. Ivi, p. 340.

4. O. Welles, The Trial, in N. Fry (a cura di), Simon and Schuster, New York, 1970, p. 17.

5. W. Murch, In un Batter d’Occhi. Una prospettiva sul montaggio cinematografico nell’era digitale, Lindau, Torino 2018, p. 19.

6. Lo stacco può essere volutamente visibile e farsi notare dallo spettatore creando una sensazione di straniamento (come un jump cut o uno scavalcamento di campo), ma è un utilizzo fortemente espressivo e in generale un’eccezione nell’uso del montaggio.

7. W. Murch, op. cit., p. 19.

8. Ibidem.

9. Ivi, p. 68.

10. P. Bogdanovich, O. Welles, op. cit., p. 348.

11. P. Bogdanovich, O. Welles, op. cit., pp. 348-9.

12. Citizen Welles, Filming “The Trial”. 25 febbraio 2013. [Video file]. https://www.youtube.com/watch?v=n8BR034qDsk&t=1472s&ab_channel=CitizenWelles (Ultima consultazione 9 giugno 2022).

13. P. Bogdanovich, O. Welles, op. cit., p. 337.

14. Ma non senza limitazioni, soprattutto di natura economica. Welles comunque ha potuto realizzare il suo film senza interferenze e imposizioni da parte dei produttori, dalla scrittura al montaggio.

15. N. Carroll, Interpreting the Moving Image, Cambridge University Press, Cambridge, 1998, p. 197.

16. Citazione di O. Welles in J. Naremore, The Magic World of Orson Welles, University of Illinois Press, Champaign, 2015, p. 222.

17. Ibidem.

18. Filming “The Trial”. [Video file].

19. C. Vatulescu, The 14pt on Trial: Orson Welles Takes on Kafka and Cinema, in “Literature/Film Quarterly, volume 41, n. 1, 2013, p. 56.

20. Questa informazione viene riportata da diverse fonti: si veda ad esempio J. Adams, Orson Welles’s “The Trial:” Film Noir and the Kafkaesque, in “College Literature”, volume 29, n. 3, 2002, p. 145.

21. C. Vatulescu, op. cit., p. 57.

22. N. Carroll, op. cit., p.200.

23. Ivi, pp. 193, 197-8.

24. Filming “The Trial”. [Video file].

25. N. Carroll, op. cit., p. 200.

26. M. Fitzgerald, Orson Welles, Pocket Essentials, Harpenden, 2002, p. 71.