È ben noto che le strategie d’intensificazione hanno segnato il cinema del nuovo millennio, trasformando la fruizione dello spettatore in un’esperienza sempre più immersiva. Processi che però non sono ora confinati solamente al piano visivo-sensoriale ma coinvolgono anche le fasi di scrittura e ideazione. Spesso e volentieri, infatti, la drammaturgia è scandita da una sommatoria di “momenti forti”, perfettamente isolabili e talvolta persino decontestualizzabili. Lo mostrano perfettamente alcuni film molto diversi presentati alla Mostra come Maestro [id., Bradley Cooper, 2023], Una spiegazione per tutto [Magyarázat mindenr, conosciuto anche col titolo internazionale Explanation for Everything, Gábor Reisz, 2023] e The Killer [id., David Fincher, 2023]. Scene (nel caso di Maestro), sequenze (in quello di Una spiegazione per tutto) e capitoli (per The Killer) assumono una piena autonomia narrativa (e a volte anche visiva), come se la frammentazione del racconto comportasse la necessità di trasformare quasi ogni episodio (o, più precisamente, ogni unità narrativa) in un vero e proprio assolo.

Maestro, biografia di Leonard Bernstein (interpretato dallo stesso Bradley Cooper) e del suo tormentato rapporto con la moglie Felicia Montealegre (Carey Mulligan: straordinaria), sviluppa il racconto attraverso una successione di scene spesso e volentieri equiparabili a piccole performance. Come quella in cui Bernstein dirige la Sinfonia n.2 in do minore (nota come Resurrezione) di Mahler con la London Symphony Orchestra alla Cattedrale di Ely* [*ringrazio Alessandro Uccelli per la consulenza]: un momento di puro virtuosismo, dove la fatica, il sudore, l’energia fisica dell’esibizione restituiscono, forse per l’unica volta nel film, la smisurata forza comunicativa e il malinconico struggimento della musica. Questa narrazione costruita per cellule isolate permette così al film di raccontare (a volte piuttosto superficialmente) le contraddizioni di un personaggio scisso: compositore e direttore d’orchestra, creatore e performer, nonché omosessuale che però cerca nella compagna di una vita la presenza consolatoria di una figura materna (è Felicia stessa a chiamarlo «my child»). Mentre il corso della storia e i tumulti della realtà rimangono sullo sfondo: l’unica cosa che conta, infatti, è una specie di eccesso di presenza dei due protagonisti, unica misura possibile di un mondo destinato al fuoricampo.

In Una spiegazione per tutto – per inciso: un capolavoro – la particolare struttura a mosaico viene scissa in una serie di sequenze che alternano i punti di vista dei singoli protagonisti. Lo spunto della narrazione è la bocciatura all’esame di maturità di uno studente che indossava la coccarda tricolore, simbolo del partito fidessino. In questo caso, l’«intensificazione» significante dei singoli blocchi diventa lo strumento per distribuire con equanime prodigalità torti e ragioni di tutti, nazionalisti e progressisti, professori e manovali, adolescenti e adulti, intellettuali e subalterni. Così, il film può raccontare il flusso di una realtà irriducibile al punto di vista del singolo (per questo, il ricorso alla macchina presa a mano è assolutamente necessario), lavorando – contrariamente a Maestro – non solo sull’autosufficienza “formale” delle singole sezioni (espediente non estraneo anche al meno riuscito Finalmente l’alba [2003] di Saverio Costanzo) quanto anche sulla loro rispettiva giustapposizione e contrapposizione.

Prodotto da Netflix, The Killer di Fincher scandisce la sua cupa vicenda di morti e ritorsioni in una rigida struttura a capitoli, che costituiscono altrettante unità spaziali (con il protagonista che passa da Parigi alla Repubblica Domenicana, New Orleans, la Florida e New York). Il protagonista (Michael Fassbender) è un assassino metodico, che calcola ogni sua azione con precisione matematica salvo poi ritrovarsi a fare i conti con le traiettorie impreviste del caso. Questa severa scansione narrativa in segmenti è necessaria per raccontare il percorso di un uomo che vive un tempo sospeso e instabile (esattamente come l’eponimo protagonista di Ferrari [id., 2023] di Michael Mann), dilatato dalla contemplazione ossessiva del vuoto. E il suo traguardo, al di là dell’agognata vendetta, è proprio la conquista di una temporalità differente, colma di un significato che la precisione affettata delle statistiche e degli algoritmi attraverso i quali cerca d’inglobare e interpretare il mondo (tutto deve essere sotto controllo, anche le pulsazioni cardiache, preferibilmente mai sopra le sessanta al minuto) non potranno mai dargli. Per rappresentare questo mancato senso di appartenenza, Fincher ricorre anche a uno specifico stratagemma visivo (conforme all’estetica dei coevi prodotti Netflix per soluzioni tecniche ma non certo per complessità formale), fatto di obiettivi grandangolari, lunghe distanze focali e diaframmi aperti che creano effetti di blurring in grado di sfocare leggermente lo sfondo per dare completa nitidezza solamente ai soggetti che occupano l’avanpiano. E questo perché il suo protagonista, conscio di non poter diventare mai realmente invisibile nell’epoca dell’ipervisibilità (lo afferma fin da subito la sua voce narrante), cerchi sempre un modo per nascondersi, camuffarsi, rendersi indistinguibile dal flusso di cose (d’immagini) che lo circondano.