The United States of America [id., 2022] di James Benning si regge su di uno speciale procedimento formulare. Il film, infatti, consta di cinquanta inquadrature – della durata di 2 minuti circa – ognuna delle quali riprende una porzione di spazio appartenente a uno degli stati della federazione americana. Disposte (o, per certi versi, catalogate) in ordine alfabetico dalla A di Alabama alla W di Wyoming, queste cinquanta inquadrature compiono una notevole operazione di condensazione visiva: ciascuna di esse diventa infatti sintesi ideale di un intero macrocosmo e di un patrimonio d’immagini e immaginari che rimangono inevitabilmente fuoricampo. 

Il cortometraggio Nest [id., 2022] di Hlynur Pálmason racconta invece le difficoltà incontrate da una famigliola islandese decisa a costruire un rifugio di legno fissato alla sommità di un tronco d’albero, tra intoppi pratici, intralci climatici e piccoli incidenti. Ambientato nell’arco di un anno, il corto si fonda su un processo iterativo: le diverse inquadrature variano infatti per la loro collocazione temporale ma non per la loro positura spaziale, giacché lo scorcio ripreso è sempre il medesimo. 

Gli esempi di The United States of America e Nest, che potremmo sbrigativamente collocare nell’alveo dello slow cinema (il primo) e dell’arthouse experimentalism (il secondo), sono la spia molto precisa di una delle costituenti fondamentali della contemporaneità audiovisiva: il meccanismo della ripetizione, di fatto, è oramai diventato non solo un atteggiamento generalizzato ma un vero e proprio equipaggiamento retorico che ciascuno può adattare al proprio idioletto, in grado inoltre di influenzare tanto la struttura formale che la tessitura narrativa. 

Come vedremo compiutamente in questo secondo numero de Lo Specchio Scuro, la ripetizione si declina lungo un gradiente molto ampio. Pratiche come quella del remake (lo stesso The United States of America è il remake di un omonimo cortometraggio che lo stesso Benning aveva co-diretto con Bette Gordon nel 1975), del sequel o del prequel o nuove formule come p.e. quelle del requel o del legacyquel (compiutamente affrontate nell’articolo dedicato a Scream [id., Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, 2022]) sono indici del continuo interscambio che i testi istituiscono sia reciprocamente che in rapporto al passato (ne è fulgido esempio l’analisi dedicata a The Green Fog [id., Guy Maddin, Evan Johnson e Galen Johnson, 2017]).

Perciò, se da una parte il continuo confronto con un modello pre-esistente genera una serie di copie destinate a loro volta a diventare i modelli di ulteriori copie – originando così inevitabilmente un meccanismo autoreferenziale che fagocita ogni fase del processo creativo (si veda quanto scritto nel saggio Il Brand come Autore. Autoreferenzialità e rievocazione nostalgica nell’ecosistema Neflix) -, dall’altra può anche sospingere in una direzione complementare e opposta, ovvero non più dalle parti della ripetizione dell’identico quanto verso il principio della variatio, da intendersi come forma differenziale della ripetizione (la versione del 1975 di The United States of America adottava soluzioni formali opposte a quelle del suo remake del 2022). 

Il processo della ripetizione opera quindi una mediazione decisiva tra originale e copia e tra passato e presente. A seconda di come si declini, porterà quindi nel primo caso nella dimensione dell’autoreferenzialità o della variatio mentre nel secondo caso in quella della nostalgia (come mostrano p.e. l’analisi di Licorice Pizza [id., Paul Thomas Anderson, 2021] e l’episodio della nostra serie di podcast Mondi virtuali dal titolo Nostalgia virtuale: una mappatura) o della rimozione (si legga il saggio L’illusione di Gatsby e il magazzino di Morel: il passato come magnifica ossessione). Dimensioni che la vasta costellazione audiovisiva del contemporaneo, dominata dal principio dell’ibridazione, tende ovviamente ad avvicinare. Pertanto, l’adesione (in chiave di emulazione mimetica o di rilettura prospettografica) a un modello e il rapporto con il patrimonio testuale pre-esistente vengono spesso contemporaneamente tematizzati (come mostra il saggio L’età dell’imitazione: alle fondamenta della New American Nostalgia, 2007-2017): recuperando la distinzione freudiana tra Wiederholung e Wiederkehr, il ritorno (Wiederkehr) del passato – il cui confronto si pone come una condizione inevitabile della contemporaneità postmediale – trova un suo canale di espressione privilegiato nella coazione a ripetere (Wiederholung). 

Posta in questi termini, la vexata quaestio relativa all’assenza di originalità del cinema e dell’audiovisivo contemporanei assume dunque tutt’altra veste: dismessi quei panni tardoromantici-leopardiani che rifuggivano ogni forma di mimesi in quanto larvata manifestazione di uno spirito autenticamente creativo, qualunque riflessione (critica, fenomenologica, accademica ecc.) sul presente delle immagini e dei testi deve fare i conti con il ritorno della tensione pre-umanistica al calco, all’imitazione, all’assimilazione delle esperienze passate a alla loro ripetizione. Non una novità in termini assoluti (come mostra l’analisi statistica condotta nel saggio Quantificare il remake: un’indagine storica, il periodo di maggior produzione dei remake nella storia di Hollywood furono gli anni Trenta), ma sicuramente ammantata da una differente percezione mediatico-culturale (se negli anni Trenta la pratica del riuso era quanto più possibile occultata, oggi diventa parte integrante del discorso culturale, produttivo e promozionale, nonché del rapporto che s’innesca tra intenzione del testo e aspettative del suo fruitore). Al di là di qualunque giudizio di valore, si tratta forse della manifestazione più evidente di quell’«inquietudine del linguaggio» di cui parlava Derrida e che oggi più che mai disegna il proprio arco. Un’instabilità linguistica – quella del mondo propriamente post-digitale, postmediale e virtuale (in attesa che si manifestino le conseguenze della diffusione dell’intelligenza artificiale generativa) – che testimonia di una ricerca ancora in corso, di una perpetua fase di assestamento in vista di un paradigma che sembra non esistere, di un modello di rappresentazione del mondo che sfugge a ogni classificazione. In un simile contesto, il principio della ripetizione diventa paradossalmente un punto fermo, proprio perché inevitabilmente rivolto a un’enciclopedia comune, a un complesso di valori materiali e immateriali condiviso. E si trasforma quindi in un mezzo di decodifica (sicuramente immediato e spesso poco sofisticato), un rudimentale strumento ermeneutico finalizzato sia a riflettere sulla natura stessa della rappresentazione sia su alcuni aspetti della sempre più caotica realtà di cui è parte, individuandone ossessioni (il passato come trauma insuperabile), desideri (il tentativo impossibile di replicare riscrivere la storia: dare un occhio rispettivamente al saggio sul reenactment e a quello su C’era una volta a… Hollywood [Once Upon a Time in Hollywood, Quentin Tarantino, 2019]), sogni inconfessabili come la cancellazione della Morte dall’orizzonte degli eventi (di cui su queste pagine abbiamo già parlato qui e che le riflessioni sul concetto di game over nel podcast dedicato al videogioco Returnal [id., Housemarque, 2021] riattualizzazano).
E che, come nel caso più volte citato di The United States of America, permette forse d’interrogarsi sul fondamento di ogni figurazione audiovisiva: che cosa attribuisce senso a un’immagine? Che cosa scegliere di riprendere (letteralmente: mettere in campo) e che cosa escludere (quindi lasciare fuoricampo)?