Proviamo a giocare di fantasia. Immaginiamo che Alien [id., Ridley Scott, 1979] e Blade Runner [id., Ridley Scott, 1982] facciano parte dello stesso universo e che il secondo sia un prequel del primo.
In Blade Runner l’androide Roy Batty (Rutger Hauer) si rivolge al suo creatore umano, il tecnocrate Eldon Tyrell, con l’appellativo «padre», portandosi dietro tutte le evidenti conseguenze edipico-freudiane del caso. In Alien, invece, gli esseri umani che viaggiano sull’astronave Nostromo interpellano il computer di bordo con il nome «Madre».
I «replicanti» di Blade Runner, in tutto e per tutti indistinguibili dalla controparte umana come lo sono gli androidi Ash e Bishop di Alien e Aliens – Scontro finale [Aliens, James Cameron, 1986], sono impegnati come forza-lavoro sulle «invisibili» colonie extra-mondo. L’equipaggio della Nostromo, invece, è composto da operai al servizio di un’altrettanto invisibile Compagnia1, tant’è che discutono di compensi extra e clausole contrattuali.
Insomma, il rapporto tra uomo e tecnologia si è completamente ribaltato: in Blade Runner la tecnologia assume sì una forma antropomorfa, o meglio ibrida tra umano e non-umano (marcando quindi un passaggio dalla modernità alla postmodernità), ma è ancora al servizio dell’uomo; in Alien (ambientato nel 2122), invece, la ribellione prometeica iniziata dai replicanti nell’immaginaria Los Angeles del 2019 pare essersi realizzata da tempo e l’uomo sembra quasi un prodotto (un parto) della tecnologia («Madre»). Nell’universo di Alien, il computer (come ogni prodotto della tecnologia computazionale) cessa di essere semplicemente una «res extensa virtuale»2 – riprendendo una bella espressione del filosofo della scienza Bruno Latour – e diventa guida delle azioni e dei destini umani, realizzando definitivamente il sogno di Roy Batty e soci.
Assai significativo, quindi, che un mondo dominato dai principi immateriali della tecnica sia per contrappasso caratterizzato da una configurazione spaziale profondamente organicistica (anche in senso puramente architettonico) e materica (la cui radice etimologica è guardacaso la medesima di «madre»). In Alien e in Aliens – Scontro finale – i due film oggetto di queste brevi riflessioni originate dalla riedizione in sala dal 29 al 31 maggio 2023 – la spazialità non è quella asettica, incontaminata e sterile tipica della tradizione della space opera. Non ha la lucentezza nitida e astratta di 2001: Odissea nello spazio [2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968], il modernismo antropometrico delle utopie di Asimov3 o la ricchezza cromatica delle illustrazioni di Chris Foss (il quale aveva comunque presentato dei concept per la Nostromo). Al contrario, lo spazio di Alien e Aliens – Lo scontro finale è pieno di zone buie, debitore di un’estetica marcatamente post-industriale, misterioso e lugubre come certe illustrazioni di Böcklin e talvolta zeppo di secrezioni biologiche (nel caso del film di Cameron).
Un ambiente promiscuo in cui convivono simmetrie strutturali (l’astronave Nostromo, la stazione spaziale Getaway di Aliens – Scontro finale) e geografie che annullano ogni prospettiva euclidea (il misterioso satellite LV-426 sembra regolato da strane leggi di geometria iperbolica e distorta).
La colonia di Hadley’s Hope sulla luna LV-426 è quasi un luogo tartareo dove orientarsi è impossibile, tra condotti di ventilazione, gallerie, sottolivelli e passaggi sottovia.
Uno spazio architettonico che mescola suggestioni barocche e manieristiche, «l’estetica postmoderna delle rovine»4 e, soprattutto, elementi prettamente gotici. Basti pensare non solo alla copiosa presenza di guglie, nervature, pinnacoli, costoloni e ogive ma soprattutto a una particolare articolazione dei movimenti profilmici che predilige i rapporti verticali e la dialettica tra alto e basso rispetto al tradizionale asse orizzontale. Nel suo fondamentale L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Gianni Canova sostiene infatti che lo stesso alieno Xenomorfo si muove principalmente «lungo l’asse verticale»5, entrando e uscendo dai bordi superiori e inferiori dell’immagine.
Sia Alien (fotogramma sx) che Aliens – Scontro finale (fotogramma dx) si concludono con l’espulsione nello spazio profondo dello Xenomorfo (la Regina Xenomorfa nel caso del film di Cameron). Ancora una volta, a essere chiamato in causa è il piano verticale: l’alieno viene spinto dall’alto verso il basso.
Nei primi due film della longeva serie6, lo spazio è una superficie in cui si respira l’aria di abbandono di certi edifici neogotici e pre-romantici, nonché un luogo da esplorare come se fosse sottoposto a processi di virtualizzazione ante litteram. Non casualmente, Alien inizia con una misteriosa soggettiva (è impossibile stabilire chi sia il titolare dello sguardo) che attraversa gli ambienti della Nostromo mentre pian piano passano dal buio alla luce, dal silenzio al suono, dalla morte simulata della stasi criogenica al ritorno alla vita certificato dai riti della convivialità (la prima attività svolta dagli astronauti, bruscamente risvegliati da «Madre» per rispondere a un criptico segnale d’aiuto, è quella di riunirsi tutti insieme a tavola).
D’altro canto, nella sua monografia7 dedicata al regista di Terminator [The Terminator, James Cameron, 1984], Daniele Dottorini traccia un curioso parallelismo tra Aliens – Scontro finale e War At a Distance [Erkennene und verfolgen, 2003] del compianto Harun Farocki: entrambi incentrati sul tema della guerra (seppure in modi radicalmente oppositivi), sia il film di Cameron che quello di Farocki riflettono sul rapporto tra visione e distruzione e sulla reduplicazione virtuale delle immagini direttamente collegata ai processi di morte.
Fotogramma di War At a Distance.
Ambientato quasi per intero tra le lande inospitali di una luna «terraformata» molto simile a un Vietnam in sedicesimo, Aliens – Scontro finale squaderna un campionario di dispositivi visivi (monitor, tracciatori di movimento, videocamere integrate agli elmetti con possibilità di visione a infrarossi, localizzatori in grado di trasmettere i parametri vitali) che – come ha scritto Paul Virilio sui Cahiers du cinéma – rappresentano «essenzialmente l’eredità ‘del famoso ‘campo di battaglia elettronico’, utilizzato dall’esercito americano […], dove i sensori e gli altri rivelatori collegati ai computer hanno da tempo realizzato (una) simbiosi bio-tecnica»8.
In questo modo, la realtà viene raddoppiata e dematerializzata mentre lo spazio è «tradotto» da vettori e punti di luce che ne danno una configurazione virtuale.
Non è una novità per il regista che più di tutti – insieme a David Cronenberg – ha messo in scena la compenetrazione ineludibile tra organico e inorganico. A colpire è invece il processo opposto: gli Xenomorfi, che gli uomini della Weyland-Yutani9 vorrebbero trasformare in armi biologiche, hanno infettato gli spazi modulari e metallici della colonia mineraria di Hadley’s Hope con le loro spore e le loro uova, trasformandoli in una specie di grande alveare ibrido dove le sostanze organiche si innestano sulla controparte inorganica (e non viceversa). Esattamente come tre anni primi Cronenberg postulava con la televisione «di carne» di Videodrome [id., David Cronenberg, 1983].
La struttura labirintica e cunicolare degli spazi nei film di Scott e Cameron ci dice poi qualcosa di estremamente rilevante sugli stessi. Si tratta, infatti, di rapporti spaziali costruiti attraverso processi di emanazione. Proprio come gli spazi delle grandi cattedrali gotiche (con le loro gigantesche vetrate in grado filtrare enormi quantità di luce) erano, secondo la suggestiva chiave di lettura proposta dall’abate Suger, un riflesso dello splendore divino e concretizzavano una trasparente «esaltazione del diafano», così l’irradiazione di gallerie, scavi, paesaggi e budelli sotterranei a partire da un centro «monumentale» assolve nei due film a una duplice funzione: da una parte, proprio come le cattedrali del gotico francese del dodicesimo e tredicesimo secolo, questi spazi «paiono rimpicciolire tutto ciò che è meramente umano e futile»10; dall’altra, servono per «omologare la radicale alterità del mostro, imbrigliandola dentro spazi diegeticamente diversi ma iconicamente identici»11.
L’organizzazione scenografica delle architetture diventa quindi promanazione dell’Altro. Basti pensare alla propensione dello Xenomorfo – che prelude al redde rationem con l’eroina Ellen Ripley (Sigourney Weaver) sia in Alien che in Aliens – Scontro finale – a nascondersi tra i condotti di ventilazione o a mimetizzarsi all’interno della fregata spaziale che lo trasporta.
Oppure «all’isomorfia che lega fin dall’inizio la struttura del cargo Nostromo a quella del pianeta in cui viene rinvenuta la covata aliena»12.
Sopra: la Nostromo / Sotto: il planetoide che ospita la covata degli Xenomorfi.
Gli spazi sono di fatto impregnati della medesima instabilità che caratterizza lo Xenomorfo. Instabilità che si declina a sua volta in due modalità differenti.
È in primo luogo instabile la morfologia che ne sovrintende il ciclo biologico: nasce infatti come un parassita (il celebre «Facehugger») il quale, ibridando il suo genoma con quello di un organismo ospite, dà poi vita a una larva destinata infine, attraverso un processo di mutazione, a crescere rapidamente e diventare adulto in tempi velocissimi (in ogni caso, la fisiologia dell’ospite – come si vede nel film di Cameron – determina di volta in volta la forma dello Xenomorfo).
Il Facehugger.
Il Chestbuster: la forma larvale delle Xenomorfo, nata dall’ibridazione col genoma dell’ospite.
Ma è instabile anche la configurazione visiva che ne accompagna la comparsa sullo schermo. Lo Xenomorfo è raramente visibile con compiutezza o nella sua totalità (Canova parla di «inafferrabilità scopica»). Anche quando è inquadrato a figura intera. All’opposto, appare sovente attraverso tracce (la bava acida, il layer sonoro che lo accompagna e che, nella versione originale, è la combinazione dei versi di diversi animali) o tramite l’esposizione di frammenti della sua nera fisionomia ideata dal grande Hans Ruedi Giger13.
Questa instabilità diventa così, a un altro livello, estrinsecazione della singolarità irriducibile dell’Altro. Dell’impossibilità, in altre parole, di comprenderlo in un’immagine. Lo Xenomorfo non rompe l’equilibrio statico imposto dall’architettura ma lo ridefinisce per aumentare il proprio portato simbolico. Se infatti, come sostiene sempre Canova, egli (o esso?) è rappresentazione di un’alterità che coincide con il «ritorno del rimosso»14, è inevitabile quindi che esista un legame che unisce il soggetto che rimuove al risultato di questa rimozione. In altre parole, la posta in gioco è una definizione del concetto di alterità in quanto prodotto (al di là delle infinite – e a volte un po’ forzose– letture che ne sono state fatte in chiave psicoanalitica, antropologica o in termini di gender).
Di qui, si deduce come il principio di emanazione citato poco sopra appaia come inevitabile. Così come è indispensabile che gli spazi, siano essi conformazioni artificiali (Alien) o bizzarre arnie «biometalliche» (Aliens – Scontro finale), siano contaminati dalla presenza dell’Altro. Una contaminazione che – soprattutto nel film di Scott, il quale, come sostiene sempre Canova, è una sorta di rilettura dell’archetipo della Bella e la Bestia – avviene anche sotto il segno dell’erotismo.
Se infatti si è scritto fino allo sfinimento in merito all’ipersessualizzazione del mostro (anche a livello paratestuale: la “i” del titolo in Aliens «si muta in una sorta di fenditura vaginale»15), va altresì sottolineato come anche lo spazio e i manufatti tecnologici che lo abitano siano compartecipi di questa pervasiva erotizzazione.
Anfratti tubulari continuamente trapassati, luoghi paragonabili a gigantesche membrane permeabili, la colonia di Aliens – Scontro finale trasformata addirittura in luogo di riproduzione, persino lo sganciamento della navetta satellite dalla Nostromo che rimanda a una specie di turgore fallico: tanto il film di Scott che quello di Cameron sembrano continuamente evocare l’atto delle penetrazione (oltreché, naturalmente, il processo della fecondazione).
Lo sganciamento della navetta satellite.
Tutti elementi, quelli sopra elencati, che fanno dei due film una manifestazione di una sorta di «gotico teratologico» dove l’Io e l’Altro, l’identico e il differenziale, l’umano e l’artificiale, l’organico e l’inorganico trovano reciproca con-fusione all’interno di spazialità organizzate gerarchicamente (il predominio della verticalità) e attraverso l’egida simbolica del mostruoso. Un elemento, quest’ultimo, che riconduce a un’altra declinazione del gotico, inteso non più come stile architettonico ma come forma di racconto (in particolare, quantomeno, per il capostipite). Come infatti nota nel suo studio sul cinema gotico Xavier Aldana Reyes16, il «mostruoso» e il «disturbante» sono due caratteri fondativi di questo vero e proprio trans-genere .
Certo, curiosamente lo stesso Reyes decide (sbadatamente) di escludere Alien dal novero dei film gotici, preferendo ascriverlo alla categoria degli horror, ossequiando così una stucchevole e superata enfasi nomenclatoria e classificatoria che non tiene conto della duttilità e della ricchezza (anche semantica) dei generi. Tuttavia, a ben vedere sono molti gli elementi distintivi del racconto gotico – per come individuati dallo stesso Reyes – presenti all’interno dei due film: il tema del viaggio di scoperta (già evidente nel riferimento conradiano contenuto nel nome dell’astronave del film di Scott), il ruolo del buio come ricettacolo di «morte […], mistero e incertezza»17, «l’elusivo senso di minaccia»18, l’abbondanza di «rovine […] così come di passaggi sotterranei abbandonati e derelitti»19, «un veemente senso di decadenza e putrefazione»20, l’«imponente configurazione architettonica [dello spazio, NdA] (edifici labirintici, ali di dimore tenute chiuse, giardini e foreste cupe)»21, l’ambientazione privilegiata in quelli che Dani Cavallaro ha definito «momenti di transito»22 (il passaggio dalla luce al buio, dall’interno all’esterno, dai due estremi di un confine come avviene in Aliens – Scontro finale, senza contare che Alien invece si svolge durante un viaggio verso la Terra che viene improvvisamente interrotto: «In Alien ci si muove sempre ma non si arriva mai da nessuna parte»23).
Scenari gotici in Alien.
Soprattutto, ad affratellare Alien e Aliens – Scontro finale (e la saga in generale) alla grande tradizione del racconto gotico è la definizione che di quest’ultimo dà Ian Conrich:«una forma che è costantemente in cambiamento, che muta e si ibrida ripetutamente»24. Una formula perfetta sia per indicare la peculiare configurazione della saga, che si sviluppa più secondo il principio della variatio e della ricombinazione degli elementi che seguendo invece una logica meramente seriale (Aliens – Scontro finale è l’opposto speculare di Alien, fondato com’è sulla moltiplicazione dell’elemento perturbante e non sulla reductio ad unum) sia – come più volte detto – la natura stessa dello Xenomorfo.
In fondo, sulla scorta della saga lucasiana di Star Wars (la visione di Guerre stellari [Star Wars, George Lucas, 1977 poi conosciuto come Star Wars: Episodio IV – Una nuova speranza, or. Star Wars: Episode IV: A New Hope] è stata la molla che ha indotto Scott a convincersi a dirigere un film di fantascienza), il futuro immaginato da Alien e succedanei è una sorta di medioevo fantascientifico25 dove la tecnologia è già in rovina e l’elemento mostruoso suggerisce il ritorno a una dimensione primordiale, quasi a un’ideale palingenesi indotta da una rilettura morbosa del mito della creazione. Viene in mente per associazione il titolo di un saggio del grande storico e critico d’arte Jurgis Baltrušaitis: Il medioevo fantastico: antichità ed esotismi nell’arte gotica (edito da noi da Adelphi). Un testo straordinario che testimonia di un’ultima, fondamentale caratteristica dell’imagerie gotica: il contrasto tra razionalità e irrazionale, tra angelico e demoniaco, ordine logico e perversione. Uno scontro che fa emergere – come sottolinea Massimo Oldoni nella prefazione al testo26 – quella discrasia tra reale e razionale che trova perfetta incarnazione nelle figure mostruose e bestiali.
I bestiari gotici mostrano infatti le forme indefinite del caos che si nascondono dietro l’apparente ordine palladiano del mondo. Seguendo questa chiave di lettura, lo Xenomorfo diviene anche il lato oscuro e in ombra di un universo rigidamente regolamentato dalla tecnologia (torniamo ad Alien: è il computer bordo a scandire il tempo interno della vita a bordo della Nostromo). Ne è per certi versi la forma corrotta e imputridita, con la sua corazza biomeccanica piena di liquidi solforici, cavità, escrescenze e gibbosità sebacee.
Non solo: l’alieno finisce per essere anche la materializzazione del cuore di tenebra della società industriale dominata dalle forme della razionalità strumentale al cui interno germina il fantasma del desiderio. E che – proprio per questo – si ha paura di guardare e di comprendere.
NOTE
1. La Compagnia Weyland-Yutani avrà poi un ruolo e una presenza più sostanziali nei sequel, a partire da Aliens – Scontro finale.
2. B. Latour, D. Mangano (a cura di), I. Ventura Bordenca (a cura di), Politiche del design. Semiotica degli artefatti e forme della socialità, Mimesis, Milano, 2021
3. vedi A. Pedna, Le utopie urbanistiche di Isaac Asimov, Unicopli, Milano, 2000
4. G. Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano, 2004
5. Ibidem.
6. Oltre ad Alien e Aliens – Scontro finale ne fanno parti i seguiti Alienᶾ [id., David Fincher, 1992] e Alien – La clonazione [Alien: Resurrection, Jean-Pierre Jeunet, 1997], i prequel Prometheus [id., Ridley Scott, 2012] e Alien: Covenant [id., Ridley Scott, 2017] e i crossover con la serie di Predator Alien vs. Predator [AVP: Alien vs. Predator, Paul W.S. Anderson, 2004] e Alien vs. Predator 2 [Alien vs. Predator: Requiem, Colin e Greg Strause, 2007]. Senza contare un’ampia produzione fumettistica e videoludica.
7. D. Dottorini, Filmare dall’abisso. Sul cinema di James Cameron, Edizioni ETS, Carrara, 2013
8. Ibidem.
9. Vedi nota 1.
10. E. H. Gombrich, La storia dell’arte raccontata da E.H. Gombrich, Einaudi, Torino, 1987
11. G. Canova, Op. cit.
12. Ibidem.
13. L’alieno venne disegnato da Giger dopo che lo sceneggiatore Dan O’Bannon gli ebbe prestato una copia del Necronomicon di Lovecraft. Gli effetti animatronici della creatura, nel primo film, sono invece merito di Carlo Rambaldi.
14. G. Canova, Op. cit.
15. Ibidem.
16. X. Aldana Reyes, Gothic Cinema, Routledge, New York, 2022
17. Ibidem.
18. Ivi.
19. Ivi.
20. Ivi.
21. Ivi.
22. Cit. in X. Aldana Reyes, Op. cit.
23. G. Canova, Op. cit.
24. Cit. in X. Aldana Reyes, Op. cit.
25. Curiosamente, dopo I duellanti [The Duellists, Ridley Scott, 1997], Scott avrebbe voluto dirigere una versione del mito medievale di Tristano e Isotta.
26. M. Oldoni in J. Baltrušaitis, Il medioevo fantastico: antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, Milano, 1997