Sono tanti i motivi della grandezza di Invelle (2023) di Simone Massi, uno dei migliori film presentati quest’anno a Venezia. Su tutti, però, c’è una sfida all’apparenza impossibile: cercare una sintesi del Novecento italiano dalle guerre mondiali al terrorismo. Rispetto a operazioni analoghe tentato dal cinema italiano (come La meglio gioventù [Marco Tullio Giordana, 2003]), però, l’operazione del grande animatore di Pergola, al suo esordio nel lungometraggio, compie uno slittamento significativo. Perché la Storia, che pure è presente e tangibile con i suoi orrori e le sue storture, scandisce anzitutto un tempo della coscienza, penetra nell’inconscio dei singoli per plasmarne la percezione delle cose. Così, il passaggio dalla civiltà contadina (di cui Massi continua a essere il più eccezionale dei narratori) a quella pienamente urbana (e industrializzata) vive attraverso tre generazioni (Zelinda, sua figlia Assunta e suo nipote Icaro), adottando uno sguardo sempre ad altezza bambino in modo che a essere esaltati siano i legami invisibili tra la vita dei singoli e i tumulti collettivi. Quella di Massi, in fondo, è una specie di fiaba in sottrazione, nell’accezione, volendo, che del genere ha dato il grande Gianni Celati: non solo catalizzatore di un patrimonio fondato su archetipi del folklore ritrasmessi dalla tradizione orale ma anche racconto di formazione che non esclude le durezze della vita, l’ambientazione in una temporalità sospesa contemporaneamente dentro e fuori dalla cronologia, la scoperta del Male e delle spoglie esanimi della Storia, la costante presenza di un’oscura fiamma che riverbera nei contraccolpi dell’esistenza.
Non è un caso isolato, all’interno della programmazione della Mostra: anche Matteo Garrone p.e. con Io capitano (2023) illumina il suo racconto con il cerchio di luce della favola per raccontare l’odissea del piccolo Seydou (Seydou Sarr, vincitore del premio Mastroianni). Dal Senegal alla Sicilia, dal carcere al cantiere, dal deserto al mare: a Garrone interessa narrare l’ennesima variazione del mito di Pinocchio (come ha notato Filippo Mazzarella, c’è persino una nave-balena al cui interno le “prede” vengono stivate, inghiottite e poi risputate fuori), ma lo fa con uno sguardo “esterno” (da etnoantropologo per i sostenitori, da occidentale alieno alle asperità messe in scena e alle loro ragioni profonde per i detrattori) che parzialmente rinuncia (scientemente o meno) all’indagine delle cause (Seydou e il cugino Moussa vogliono certo aiutare le loro famiglie, ma sono anche mossi dal sogno del successo alimentato dai social) per concentrarsi sugli effetti. All’opposto invece dell’operazione di Massi. Il regista de L’attesa del maggio (2014), come in fondo insegna Marc Bloch, inserisce le vicende in una specie di eterno divenire che meglio illumina i comportamenti degli uomini. Senza presentismi (siamo ancora una volta dalle parti di Bloch) e senza revisionismi. In ciò distanziandosi da buona parte del cinema contemporaneo (ne abbiamo parlato anche su queste pagine): basti pensare – limitandoci ad altri film presentati al Lido – a Finalmente l’alba (Saverio Costanzo, 2023) o Comandante (Edoardo De Angelis, 2023).
Il primo crea una sorta di «what if», raccontando una versione alternativa del caso Montesi e facendo della protagonista una specie di gemella in spirito della sfortunata Wilma che, nell’arco di una giornata, passa attraverso i sogni e gli incubi della Roma degli anni Cinquanta, tra i peplum che si giravano a Cinecittà (ma all’inizio si vede proiettato in una sala un finto film nello stile de Il generale Della Rovere [Roberto Rossellini, 1959], anche se in quegli anni immediatamente post-neorealisti le pellicole a sfondo bellico erano quasi del tutto scomparse dagli schermi), festini notturni, dive imbronciate e manipolatrici (il personaggio interpretato da Lily James, che ha tutto fuorché le physique du rôle), prime esperienze sessuali e incontri improbabili. Il secondo rilegge la vicenda di Salvatore Todaro (Pierfrancesco Favino), comandante della Regia Marina che durante la seconda guerra mondiale trasse in salvo alcuni dei componenti dell’equipaggio di un piroscafo belga, alla luce delle recenti tragedie dei migranti, delle ondate xenofobe e anti-solidaristiche. In entrambi i casi, però, la Storia è semplice sfondo (Costanzo) o pretesto (De Angelis), sottomessa a un progetto di rielaborazione acritica (in entrambi i casi, visto anche il budget decisamente superiore a quello di una produzione italiana media, declinato nelle forme di un iperautorialismo popolare). Tutto il contrario di Invelle («in nessun posto», in dialetto umbro-marchigiano) che già dal titolo – riportando le parole del suo regista – evoca invece genialmente «un non luogo da cui la Storia con la maiuscola ha preso e preteso tutto quello che voleva e poteva [e da cui] in cambio abbiamo avuto le storie con la minuscola, quelle che o le tramandi a voce oppure si perdono».