Se dovessimo trovare una definizione attraverso la quale inquadrare il cinema di Filippo Ticozzi, sceglieremmo sicuramente quella di “cinema della sopravvivenza”: partire dal frammento, dal detrito, dall’esistente per garantire sopravvivenza a quelle cose che stanno al di là dell’umano.
Il cinema per me prima di tutto è un particolare strumento di ricerca, scoperto dopo tante esperienze diverse e un rigido percorso di studi autoinferto. Quindi tardi, intorno ai 30-35 anni, quando ero già formato. Non nasco cinefilo e mai credo di esserlo stato. Mi interessa il linguaggio-cinema come possibilità di dischiudere varchi nel reale, spesso oscuri, di fronte ai quali vacilliamo ma che ci avvicinano all’insondabile verità. Quindi una cosa che forse non è nemmeno cinema. Cineasti che amo ce ne sono, e che sono riusciti, in modi differenti, a darmi quello che non sapevo di cercare: Herzog, Bresson, Robert Kramer, John Ford, Marco Ferreri, Ozu. Tra i recenti Seidl, Tsai Ming-liang, qualche horror e Eastwood, e poco altro. Tra i miei contemporanei mi vengono in mente Carlo Michele Schirinzi e Luca Ferri e anche un paio di grandi film, Spira Mirabilis di Parenti D’Anolfi e Leviathan di Castaing-Taylor e Paravel. Forse altri. Ma come vedi salto di palo in frasca. Ho un’idea del cinema minima, a volte anche un po’ casuale, che arriva appunto al culmine di un percorso sudatissimo che ho affrontato nel momento in cui mi accorsi che la vita è qualcosa di mostruoso, intorno ai 18 anni. E alcuni frammenti di questo percorso perdurano, nonostante l’abiura del mio passato monacale. Oserei dire che rimangono le cose che tendono all’afasia, che costruiscono immensi edifici destinati a crollare e a lasciare un silenzio colossale, spesso preannunciato. Come la Bibbia, Melville o Bernhard nella scrittura, Ghirri o Friedrich nelle immagini, Deleuze o Cioran nel pensiero. Ho anche una bizzarra passione per gli zombie.
Inseguire il vento (2013)
The Secret Sharer (2017)
Mi piace molto quello che dici. Anche se, in realtà, quello che in modo manifesto mi interessa è la sopravvivenza delle cose al di là dell’umano: la protesi sopravvive all’uomo, il bastone sopravvive al cieco, i resti del corpo sopravvivono alla vita e anche alla morte intesa come dipartita. Ma in modo meno manifesto, forse addirittura nascosto, potrebbe essere una disperata fuga dalla morte quella dei miei film, un tentativo, appunto, di sopravvivenza umana, una debolezza insomma. O forse il bisogno di rendere visibili le cose che non lo sono (i fantasmi, il pensiero) e di smaterializzare e esorcizzare le cose tangibili e perciò dolorose (il corpo che invecchia, il mondo che crolla) sistemando tutto in una sorta di ordine purgatoriale, ossia lo schermo. Sempre meglio dell’inferno…. Ma tutto questo non posso dirlo io, deve dirlo chi guarda il film, alla fine del processo. E qui sta, come dicevo prima, uno dei motivi d’interesse del cinema: aprire porte, cercare e cercare e riportare alla luce detriti, frammenti, sedimentazioni. “[…] fare disfare/Fare e disfare è tutto un lavorare/Ecco quello che so fare”. A chi guarda il film tirare le somme.
Moo Ya (2016)
«È essere capaci di creare per se stessi la notte da cui il cuore dipende…» è una frase stupenda, che non conoscevo, e credo tu sia riuscita a entrare nel fulcro. Moo ya nasce un po’ in questo modo. Trovare analogie tra un cieco che viaggia senza motivo e le ferite della terra. Riallacciandomi alla frase di Bousquet, bisogna creare l’oscurità nella quale brancolare: il senso sta in un gesto insensato eppur preciso, netto, senza saper cosa v’è oltre, occultando a priori ciò che conosciamo e permettendo ai fantasmi di uscire allo scoperto. Come i personaggi delle ultime cose di Beckett, che si muovono ininterrottamente su precisissimi e inutili percorsi, ripetitivi all’ossesso. Inevitabili e inesorabili.
Moo ya viene dal linguaggio acholi (lingua del nord Uganda/sud Sudan parlata nel film) e per alcuni è uno spirito malvagio del fiume, per altri una sorta di spezia con proprietà benefiche. L’assurdità delle due definizioni mi ha convinto ad usarlo.
A tentoni come fosse notte
Questo è stato il primo lavoro in cui ho usato il linguaggio audiovisivo in modo cosciente nel documentario. È acerbo, immaturo, ci sono scopiazzature di Seidl, ma è molto importante per me. In nuce c’è tutto il mio cinema a venire, quello che mi interessa. Mi chiamarono per fare un documentario istituzionale su quel centro diurno. Mi colpirono subito la ripetitività delle situazioni e la gioia che dava agli utenti questa faccenda, comprese le preghiere. Decisi allora di approfondire quell’aspetto. In tutto stetti un mese intero a vivere con loro. I monologhi e i dialoghi sono tutti improvvisati, alcuni guidati dalla messa in scena; ad esempio i protagonisti sono seduti e dietro loro c’è la statua di una madonna. Da lì inizia la discussione su quell’argomento. I dialoghi non sono mai montati, ma sempre in una inquadratura. Credo che la naturalezza spesso, allora come oggi, nasca dal fatto di stare spesso in situazioni un po’ al limite, non per urgenza – ad esempio una guerra, una sciagura- ma per circostanza. Persone e luoghi che vivono naturalmente fuori dall’ordinario. Trovare una persona un poco come loro – chi è più borderline di un filmmaker?- che si applica alla loro vita crea un ottimo legame. Ed è incredibile come certi dialoghi, in parte messi in scena, vengano fuori naturalmente. In un cinema come il mio, spesso freddo, nasce questa empatia interna. Non si parla del film, ma si diventa un poco amici. Si gira, poi si mangia insieme, si chiacchiera, si gioca a carte e alla fine del film ci si saluta e difficilmente ci si rivedrà. Questo è malinconico ma fa parte del gioco, e il lato vitale del cinema, soprattutto di quello digitale, che spesso confonde set e vita reale.
Moo Ya
Più che a Cartesio, per rimanere nello stesso periodo, mi sento vicino a Pascal:«Incapace al tempo stesso di vedere il nulla da dove è tratto e l’infinito che lo sommerge, cosa potrà fare se non cogliere qualche aspetto di ciò che sta a metà, disperando eternamente di conoscerne il principio e la fine?» (Pensiero 72). Scovare tracce tangibili, studiare ciò che abbiamo, ciò che è nella vita, proprio in quel pernicioso stare a metà di cui parla Pascal, e rivelarne il ritmo nascosto, scorgere le analogie tra le cose, il legame con l’invisibile, con l’ignoto (e spesso anche con l’orrore) attraverso l’incontro delirante tra un pennello meccanico, la cinepresa, e la sua tavolozza instabile, il mondo. La realtà materiale è una fucina di segni, una sorta di impossibile geroglifico da decifrare.
Ho cominciato con la fiction. Tre cortometraggi. Ma non sopportavo l’idea di set, di troupe. Non mi andava per nulla di dover comunicare agli altri quello che volevo fare, di spiegare, di condividere. Mi interessava parlare con il cinema, la macchina da presa scrive. Niente di näif, i miei film sono molto studiati, ma devo scrivere per la messa in scena, non per la storia, la psicologia o le altre persone. Come posso dirti cosa voglio dipingere? Posso dirtelo a grandi linee, ma poi devo farlo io. Idem per la scrittura. Quello è il mio approccio, diverso ad esempio da quello del regista-architetto (dove eccelle Luca Ferri). Un fare solitario quindi, una troupe al massimo di due/tre persone. A ciascuno il suo cinema, insomma. Inoltre i miei tempi sono particolarissimi: giro pochissimo, sto molto in ascolto, parto da miriadi di appunti, scrivo mentre giro. La sceneggiatura, quando posso, non c’è mai. Perlomeno quella classica. Insomma, un incubo per tecnici e per produttori. E poi non sopportavo della fiction la chiusura, il delimitare a priori i luoghi, i personaggi. Io ci devo vivere, devo poter muovermi come voglio, luoghi e persone devono mostrarmi le loro forme. Per poi inchiodarli tutti come un entomologo, ma deve essere una fucilata in una battuta di caccia. Non un tiro a segno. Non so se mi spiego. Questo il motivo del documentario. Poi i miei chiamarli documentari è un po’ fuorviante, hanno parti totalmente messe in scena, ma la base da cui parto è sempre il dato esistente, quello che trovo. Poi lo ritocco, poi ci costruisco sopra, magari cerco in una direzione verso cui i miei protagonisti non hanno mai pensato di andare, e insieme vediamo cosa c’è da trovare. Bisogna aggiungere che il mio percorso deve molto ad digitale, alla possibilità di avere troupe ridotte e di “finzionalizzare” con molta più facilità ciò che si trova.
Ho da poco terminato le riprese di un nuovo documentario. È un film sul bondage. Questo film è la conclusione di una ideale trilogia nata con Inseguire il vento e proseguita con The Secret Sharer. Mi interessa molto l’attitudine che l’uomo ha verso l’inanimato: per me, e non solo per me, anela alla roccia, non agli dei. Quindi l’idea di natura morta e della vanitas mi intriga molto. Come le cose immobili, intimamente connesse al desiderio e al sovrumano, divengono un modo di raccontare lo scorrere della vita. Al cinema, che a differenza della pittura possiede anche la dimensione del tempo, la cosa può essere ancora più forte. Ho cominciato quindi un percorso sul rapporto nostro con l’inanimato (all’inizio non proprio coscientemente). Da ciò che rimane nonostante l’uomo e la sua anima, ossia il corpo esanime, a ciò che l’uomo crea in modo utilitaristico e suo malgrado gli sopravvive, le protesi, sono arrivato a studiare il culmine, ossia la libertà di negare e diventare altro dalla quotidianità formicolante: il piacere particolare e intenso di essere immobilizzati per volontà propria e di giocare con questo stato privilegiato e apparentemente innaturale. Diventare una sorta di Still-life, anche se per poco: il tempo passa, il sangue si ferma e la vita richiede il suo dazio: ricominciare. Ma per un momento il legato diviene qualcos’altro, decide di esserlo. Ho avuto la fortuna di trovare due protagonisti fantastici, disponibili e intelligenti, con idee chiare, che mi hanno schiuso le porte del misconosciuto, spesso frainteso, e molto bello mondo del bondage e dello shibari. Sto per cominciare il montaggio. Poi sto lavorando a altri due progetti, ma sono ancora in fase di ricerca, e non ho molto da dire per ora. D’altronde il cinema non parla la nostra lingua.