Quando diresse Il braccio violento della legge [The French Connection, 1971], William Friedkin era un giovane filmmaker semi-sconosciuto, inattivo da due anni, con alle spalle tre soli film di finzione dal misero incasso, un documentario pressoché amatoriale contro la pena di morte e una carriera televisiva condotta tra Chicago e Los Angeles con alterno successo. Eppure, questo B-movie dal budget di un milione e mezzo di dollari ottenne un ragguardevole successo di critica e di pubblico. Come fu possibile che un film di genere, il cui soggetto era stato puntualmente rifiutato dalle majors nei precedenti due anni, prodotto in tutta fretta e nella collettiva indifferenza in un momento storico in cui la Twentieth Century Fox stava fronteggiando un vuoto di potere – conseguenza di una catena di flop che aveva posto sulla graticola l’executive Richard Zanuck – riuscì non solo ad imporsi al botteghino ma persino a conquistare 5 Oscar su 8 nominations?

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Cercare di capire, prima ancora che spiegare, il successo de Il braccio violento della legge, così come l’influenza di questi su molto cinema di genere successivo (nonché su alcune pellicole dirette dallo stesso Friedkin) non è certo impresa semplice. Sicuramente non è sufficiente prendere in considerazione il soggetto – basato su fatti realmente accaduti nel 1961 ma postdatati di dieci anni per eludere le limitazioni di budget – tratto da un libro-verità di Robin Moore (che Friedkin – la fonte è la seconda traccia audio rintracciabile nell’edizione homevideo italiana del film – confessa di non aver mai letto) e sviluppato in sede di sceneggiatura dal romanziere Ernest Tidyman (autore del celebre Shaft) in un canovaccio sul quale gli attori avrebbero liberamente improvvisato in fase di ripresa.
Si racconta nel film della lotta senza quartiere condotta da due agenti del Narcotics Bureau, Jimmy “Popeye” Doyle (Gene Hackman, che Friedkin mai avrebbe voluto vedere nel ruolo del protagonista) e Buddy “Cloudy” Russo (Roy Scheider), contro il narcotrafficante marsigliese Alain Charnier (Fernando Rey), stabilitosi temporaneamente a New York per concludere un contratto di vendita d’eroina purissima ad un cartello italo-americano. L’indagine si trasforma pian piano in un vero e proprio gioco al massacro tra gatto e topo, spie e spiati, vieppiù frenetico e violento, in un escalation di pedinamenti, sparatorie e inseguimenti che porteranno Doyle, vittima della propria ossessività compulsiva, a varcare i limiti del confine tra legalità e illegalità.
Queste vicende furono invero modellate, con ovvie libertà, sulla scorta di quanto accadde ai detective Eddie Egan (Doyle) e Sonny Grosso (Russo), che Friedkin frequentò personalmente prima delle riprese – prendendo persino parte ad alcune retate in locali frequentati da narcotrafficanti afroamericani (riprodotte fedelmente in due sequenze del film) – e che ne Il braccio violento della legge appaiono essi stessi in due piccoli ruoli collaterali.

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Per quanto piuttosto innovativo – basti scorrere questa lista (http://en.wikipedia.org/wiki/List_of_drug_films) di drug movies compilata nel database della versione in lingua inglese di Wikipedia per rendersi conto della difficoltà di rintracciare un noir urbano che affrontasse compiutamente il tema del traffico della droga – non è sufficiente di per sé il plot per comprendere la portata del film. Per parlare con accuratezza de Il braccio violento della legge non si può anzitutto prescindere dagli aspetti tecnico/formali che ne sono il primo costituente nominale.
È stato proprio lo stesso Friedkin a ribadire più volte che le principali influenze stilistiche de Il braccio violento della legge sono prettamente europee: figlie tanto delle caratteristiche riprese (in interni o en plein air) in luoghi reali, senza la mediazione dei teatri di posa, della nouvelle vague francese – e in particolare bisogna ricordare Fino all’ultimo respiro [À bout de souffle, 1959] di Jean-Luc Godard (prontamente citato) – quanto di Z – L’orgia del potere [Z, 1969] di Constantin Costa-Gavras, da cui Friedkin prende a prestito non solo l’attore Marcel Bozzuffi ma anche l’originale commistione di giacenze semi-documentaristiche e sostanza spettacolare. Non va inoltre dimenticato che, fondamentale alla particolare riuscita del film, è l’esperienza maturata da Friedkin, a inizio carriera, nel campo del documentario di presa diretta. Il particolare impasto formale che innerva Il braccio violento della legge, infatti, è stato a più riprese definito da Friedkin con l’espressione «induced documentary film.»1

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Per ottenere il particolare look fotorealistico del film, Friedkin scelse, per le scene girate in interni, di ricorrere ad un’illuminazione diffusa (approntata dal direttore della fotografia Owen Roizman) in cui poche luci artificiali puntano verso i soffitti e si riflettono morbidamente sugli attori in campo. In questo modo, l’operatore Enrique “Ricky” Bravo era quasi completamente libero di muovere la macchina (rigorosamente a mano) lungo tutto il perimetro del set. Per le scene in esterni, invece, vennero utilizzate solo le luci naturali presenti on location. Questo permise al regista di attuare un passo decisivo: è New York stessa a rompere un’immaginaria quarta parete transustanziale al set e a trasformarsi da mera scenografia a soggetto pulsante e vitale. Abbiamo, qui, uno scarto decisivo: Friedkin fa della New York invernale dai colori grigio-bruniti un vero e proprio personaggio, le albe e i tramonti non sono più solo intervalli di tempo ma interagiscono con i personaggi, diventano specchio dei loro stati d’animo. Non solo: la nutrita teoria di luci artificiali (insegne e tubi di neon, lampade, fari di luce anabbagliante, lampioni ecc.) e i riflessi delle stesse che, come macchie di colore impressioniste, increspano le superfici, divengono un rimando simbolico al progressivo disorientamento alienante e schizofrenico di cui la metropoli stessa è causa efficiente e di cui proprio Doyle sarà vittima. Così operando, Friedkin supera il più volte citato realismo della messa in scena per sfumare in un racconto dal taglio profondamente impressionistico e quasi astratto che dialoga costantemente con l’occhio degli spettatori. La stessa macchina a mano non ha solo una funzione di piatta registrazione documentaria: le zoomate con spostamenti sull’asse focale e conseguente modificazione dei valori della profondità di campo, le panoramiche a schiaffo e le repentine transfocate sono un risultato espressivo specificatamente congegnato ed inseguito. Spesso, Friedkin provava le scene solo con gli attori senza che la troupe potesse assistervi in alcun modo cosicché, in fase di ripresa, l’operatore Ricky Bravo non sapesse con esattezza dove i personaggi si sarebbero mossi e avrebbe perciò dovuto realmente andarli a scovare attraverso i teleobiettivi, le panoramiche a schiaffo e le transfocate precedentemente elencati.
Citando Roy Menarini, si può quindi sintetizzare questo procedimento dicendo che Friedkin «immagina – e il risultato è certamente coerente – un film fatto soprattutto di gesti quotidiani, di documentazione, di appostamenti, di riprese dal vero, e articola personalmente il crescendo della vicenda così da ottenere quel passaggio dal realismo all’astratto (quando non al fantastico) che lo distingue da ogni altro regista.»2 Caratteristica, questa, che sarà propria anche dei futuri Cruising [id., 1980] e Vivere e morire a Los Angeles [To Live and Die in L.A., 1985].

Il braccio violento della legge The French Connection Gene Hackman William Friedkin Lo Specchio Scuro Analisi Recensione out of focus

Il braccio violento della legge The French Connection Gene Hackman William Friedkin Lo Specchio Scuro Analisi Recensione out of focus

(Il principio della transfocata come leitmotiv fotografico: non si tratta semplicemente di un espediente tecnico fine a se stesso, bensì assolve ad una precisa finalità espressiva. L’out of focus diventa la perfetta rappresentazione filmica di un senso d’indeterminatezza (personale, sociale) che impedisce ai personaggi di vedere quello che hanno davanti agli occhi)

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(La sequenza del pedinamento per il centro urbano newyorchese si fonda su una peculiare equivalenza tra ripresa e montaggio, tra produzione e postproduzione: il montaggio “verticale” prevede slittamenti di prospettive e punta di vista all’interno della stessa inquadratura)

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(Della sequenza dello “smontaggio” dell’automobile non si dimenticherà Francis Ford Coppola per il finale del suo capolavoro La conversazione [The Conversation, 1974], interpretato sempre da Hackman)

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(L’indimenticabile e celeberrimo inseguimento tra l’automobile di Popeye e la sopraeleveta dirottata da killer Nicoli si fonda al contrario sulla rapida successione di inquadrature che alternano vertiginosamente differenti punti di vista. Lo spettatore non solo viene catapultato all’interno di una sequenza concitata e frenetica, ma avverte, contemporaneamente, un senso di pericolo e di disorientamento dovuto alla delocalizzazione dello spazio)

Il correlativo oggettivo di questo peculiare amalgama fotografico è un montaggio elaborato da Friedkin come fosse un’improvvisazione jazzistica. L’armonia della struttura è garantita dalla precisione drammaturgica del plot, ma gli interplay dei diversi ingredienti, i ritmi donati dallo swing e la definizione della melodia vengono perfezionati pian piano durante la post-produzione. Come dice lo stesso regista:«Il montaggio, in sé, ha un che di misterioso: ti ci butti dentro come in trance, e con l’aiuto di un bravo montatore, puoi riuscire ad “ascoltare” il film, capendo ciò che è e ciò che non è. Così come il jazz si basa sull’improvvisazione e la variazione, in sala di montaggio puoi scoprire che sequenze che pensavi fossero importanti o addirittura indispensabili, si possono spostare, quando non togliere.»3 Il risultato è un montaggio nervoso e imprevedibile comparabile ad una partitura che procede per accostamenti di immagini in un continuo flusso, talora armonico e talatra dissonante a seconda delle esigenze. Esemplare, a questo proposito, quanto afferma lo stesso autore nel commento audio del DVD:«[…] c’è una specie di stile ellittico che caratterizza il montaggio. Non si è mai sicuri dell’angolazione dell’inquadratura successiva e certamente né le inquadrature né il montaggio delle stesse stanno seguendo alcun tracciato convenzionale»4. Uno spettatore, quindi, si trova immerso in questo continuo fluire d’immagini e suono, senza poter prevedere con certezza la stessa evoluzione sintattica del film (quale sarà il punto di vista della prossima inquadratura? Questa situazione verrà effettivamente raccontata con ulteriori stacchi o risolta con movimenti di macchina o cambiamenti focali?), spesso subordinata alle sincopi che caratterizzano il profilmico: talvolta, le inquadrature hanno una durata assai limitata perché lo stile di ripresa imposto da Friedkin comportava errori tecnici ed imprecisioni come la comparsa dei microfoni in campo o una messa a fuoco mal calibrata. Se, infatti, da una parte – come nota Menarini – il film si fonda sulla ricomposizione dei sintagmi attraverso la tecnica del montaggio parallelo (il primo quarto di film è informato dall’alternanza di blocchi narrativi ambientati a Marsiglia e New York; la sequenza della perquisizione della Lincoln carica d’eroina è giocata sulla contrapposizione tra la smania di scoperta degli agenti e l’ansia del legittimo proprietario di recuperare l’automobile finita in un deposito della polizia ecc.), dall’altra è inevitabile notare come il découpage delle singole scene muova spesso da esigenze armoniche contingenti. Basterà, per questo, citare tre esempi: al fine di accentuare l’impressione di smarrimento generata da una situazione articolata attraverso mo(vi)menti impronosticabili ed estemporanei, i pedinamenti per strada condotti dalla squadra di Doyle e Russo constano spesso di un finto montaggio “verticale” già esaurito nell’inquadratura stessa (sono le zoomate, le panoramiche a schiaffo o i repentini passaggi di fuoco più volte accennati); l’ansietà dei detective desiderosi di trovare le prove necessarie alla sopravvivenza del caso – e il timore di veder naufragare tutti gli sforzi precedentemente compiuti – viene trasfigurata, nell’appena citata sequenza dello smontaggio dell’auto, attraverso jump-cuts e rapidi stacchi che alternano dettagli e campi medi; la celeberrima sequenza dell’inseguimento tra l’auto di Gene Hackman e la metropolitana soprelevata dirottata dal killer Nicoli (prodigio tecnico che molto contribuì ad accrescere la notorietà del film, la cui complessa orchestrazione sarebbe stata superata solo in un altro film dello stesso Friedkin, Vivere e morire a Los Angeles) s’avvale di una precisa sezione ritmica che moltiplica campi, piani e focali ma riduce drasticamente la durata delle singole inquadrature.

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(Due esempi di montaggio alternato: l’azione, nell’incipit [frame 1-2], si divide tra Marsiglia e Brooklyn. La sequenza della perquisizione della Chevy è giocata invece sulla contrapposizione tra la concitazione dell’operazione degli agenti e l’ansia per la restituzione dell’automezzo da parte dei trafficanti [frame 3-4-5])

La stessa New York viene sistematicamente scomposta e riplasmata a seconda di esigenze di carattere cinematografico. Nelle mani di Friedkin, la Grande Mela si tramuta in un vero e proprio puzzle: le location vengono scelte in funzione di una continuità estetica, non solo geografica.

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Persino a livello sonoro il film recide drasticamente il cordone ombelicale che lo lega al linguaggio della classicità: non solo i rumori della metropoli vengono editati attraverso un mixing che supera il realismo descrittivo per diventare invece prosodia impressionista (esemplare a questo proposito la scelta del jazz dissonante di Don Ellis), ma spesso il montaggio del soundtrack, più che fungere esclusivamente da contrappunto realistico, veicola una forma di trasfigurazione.
Si porti in questo caso ad esempio una scena presente ad inizio film, ambientata all’esterno di un bar dove i due protagonisti sono impegnati a pedinare un gruppo di sospetti. In questo particolare momento, la bande sonore non ha più un ruolo oggettivo bensì una funzione soggettiva.
Ci vengono ancora una volta incontro le parole di Friedkin contenute nel commento audio del DVD italiano:«Quello che ho cercato di attuare in questa sequenza è stato far sfumare il suono reale della band e dei cantanti e, ad un cero punto, e portare il sonoro [del film] dritto all’interno della mente di Doyle, proprio nell’occhio della sua mente. Ebbene, lui ad un certo punto non sta più ascoltando la musica, sta invece ascoltando dei campanelli d’allarme che scattano nella sua testa. Ancora una volta, lui è puro istinto, ed è proprio questo che lo rende un grande poliziotto: il suo istinto. E ho cercato di raccontare questo catturando, ad un certo punto, il suono nella maniera più soggettiva possibile che potessi ed entrando nella sua mente, se si vuole.»5 

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Nondimeno, il montaggio, ne Il braccio violento della legge, assolve ad un’ulteriore funzione.
Dice Friedkin:«[…] in sala di montaggio mi resi conto che buona parte di quello che avevo girato era accessorio. Il tema del film era l’ossessione. I personaggi non avevano bisogno di sottolineature. Bastava l’azione a definirli.»6 . «Action is a character» – sentenzia il regista citando Fitzgerald. Espungendo numerose sequenze introspettive dal Final Cut, Friedkin lascia che sia l’azione a definire il personaggio. Tra azione e introspezione, quindi, esiste un rapporto d’identità.

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Eppure, Il braccio violento della legge non è un film di cui fruire solo a livello puramente epidermico, né la sua complessa architettura tecnico/estetica è sufficiente a spiegarne lo straordinario successo e l’influenza che ebbe (più o meno volontariamente) sul cinema neo-noir degli anni successivi. Ne Il braccio violento della legge la metropoli assurge, come accennato, al ruolo di vera e propria deuteragonista. Non solo in quanto luogo fisico, ma anche come paesaggio, in un certo senso, meta-fisico, proiezione tangibile e fenomenica di angosce, sgomenti, indeterminatezze, paure e desideri inappagati di carattere tanto antropologico quanto sociale. Epitome di un senso d’insicurezza crescente, diventa essa teatro di improvvisi scoppi di violenza e sede di minacce nascoste nel caldo sole del pomeriggio (si legga a questo proposito l’episodio del cecchino appostato sul tetto). In questo assimilabile al coevo (e di produzione britannica) Arancia meccanica [A Clockwork Orange, 1971] di Stanley Kubrick, Il braccio violento della legge sembra anticipare tendenze e inclinazioni raccolte in eredità da quel cinema USA che ha eletto il contesto urbano a materia di riflessione. Nel bellissimo I nuovi centurioni [The New Centurions, 1972] di Richard Fleischer, il protagonista muore colpito da un proiettile sparato all’improvviso e proveniente dritto dal fuori campo; Taxi Driver [id., 1976] di Martin Scorsese racconta di un giustiziere significativamente modellato sul Mersault di Camus, personaggio condannato dalla completa estraneità rispetto al contesto che abita; il catalizzatore dell’intreccio di Distretto 13 – Le brigate della morte [Assault on Precint 13, 1976] di John Carpenter è una banda di uomini-zombie (o fantasmi) che risponde solo alle logiche di una violenza che è contemporaneamente causa prima e fine ultimo d’ogni azione. E, riferendoci all’ambito del noir e del thriller, sono diversi gli esempi che si potrebbero citare (non solo all’interno del cinema cosiddetto d’autore, si pensi p.e. al fenomeno de Il giustiziere della notte [Death Wish, Michael Winner, 1974]), mentre, dal suo canto, un genere come l’horror ancora traccia una fenomenologia d’atti iperviolenti nascosti tra campagne e province (si pensi in questo caso, a titolo d’esempio, a Il mostro della strada di campagna [And Soon the Darkness, Robert Fuest, 1970] o Non aprite quella porta [The Texas Chain Saw Massacre, 1974] di Tobe Hooper)7. Forse questa distinzione non è casuale: le pulsioni primordiali e nascoste del preconscio trovano luogo ideale di visualizzazione immerse in una natura matrigna, che è di loro proiezione ideale; il noir, per parte sua, è genere eminentemente legato all’esplorazione di antinomie, storture, contraddizioni e aporie di quel patto sociale che governa ogni comunità. Ed è territorio d’indagine, questo, che Friedkin non cesserà mai di perlustrare nel corso della sua carriera: sia Cruising (in cui la nemesi diventa incarnazione di un male assoluto e metafisico che in qualche modo completa anche le intuizioni di un altro film del regista: il celeberrimo L’esorcista [The Exorcist, 1973]), che Vivere e morire a Los Angeles [To Live and to Die in L.A., 1985] e persino lo straordinario e ingiustamente sottostimato Assassino senza colpa? [Rampage, 1987] sembrano proseguire attraverso il solco tracciato dal film del 1971. In questo senso, Il braccio violento della legge diventa quindi un vero e proprio palinsesto di tutte le tensioni che avrebbero caratterizzato il genere (e la carriera di Friedkin) di qui in poi.
A renderlo ancor oggi un film fondamentale è l’aver captato la necessità di elaborare un linguaggio che, interagendo dialetticamente con il florido bagaglio della classicità, s’adeguasse alla repentinità dei cambiamenti del mondo, alla sua graduale perdita di senso. Persino lo stratagemma utilizzato da Doyle e Cloudy per cogliere in fallo i sospettati durante gli interrogatori si fonda su un nonsense verbale (l’assurda domanda «Your still pickin’ your feet in Poughkeepsie?» con cui i due mirano a disorientare l’indiziato) – e probabilmente Friekdin non è qui immemore della lezione di Harold Pinter, il drammaturgo con cui aveva collaborato per la traduzione cinematografica di Festa di compleanno [The Birthday Party, 1968]) – mentre lo stesso finale (cosa significa quello sparo nel buio? A chi ha sparato Poepeye? Lo hanno forse colpito? Oppure ha sparato a se stesso?) introduce una nota di voluta ambiguità (lo conferma lo stesso Freidkin nella propria autobiografia)8 che poi i titoli di coda e la realizzazione di un sequel9 avrebbero sconfessato.

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(Come sempre accade – vedi ancora una volta film come Taxi Driver, Distretto 13 o Vivere e morire a Los Angeles – la riflessione sulla violenza metropolitana non sfugge l’ineliminabile retaggio del western, il genere che ha raccontato il passaggio dall’America della wilderness a quella urbanizzata.)

La stessa, tradizionale e manichea separazione tra tutori dell’ordine e malavitosi nel film si trasforma in contiguità. Un rapporto speculare: lo spettatore assiste ad uno scontro di forze tra due schieramenti i cui metodi d’azioni sono rubricabili alle medesima voce. Come scrive Roy Menarini proprio a proposito del finale:« […] esso spariglia totalmente le forze in campo. Doyle diventa di fatto un assassino, la sua tendenza al “robotico” assume dimensioni allucinatorie e la caccia che vuole proseguire a tutti i costi viene ingoiata non a caso dal buio e dalla dissolvenza al nero. Pasolinianamente, il finale del film dà senso a tutto il resto del racconto, lasciando lo spettatore in una vertigine senza più ancore di salvezza.»10

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(Nella già citata sequenza del pedinamento, Friedkin sfrutta l’occasione per marcare un ulteriore piano d’accostamento: le figure speculari di Doyle e Charnier vengono infatti messe a confronto. Il gangster marsigliese ancora una volta esercita un ruolo completamente antipodico rispetto a quello di Popeye: al caldo, in un ristorante di lusso, consuma un pranzo da gourmet. Doyle, al freddo, addenta un semplice panino. La grata della finestra che li separa indica chiaramente la distanza (di ceto, di cultura, di carattere) che intercorre tra i due personaggi; eppure, la transfocata sembra visualizzare in semi-soggettiva il moto interiore del desiderio di Popeye: essere come Charnier.)

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(Il finale)

Il centro propulsivo del film è chiaramente il protagonista Popeye Doyle (frutterà un Oscar a Gene Hackman come attore protagonista): rovescio dell’idea tradizionalmente invalsa del detective positivista, razionalista e deduttivo, è un carattere impulsivo che vive di contrasti e passioni impetuose. Donnaiolo, rozzo, estroverso, sbruffone, razzista è l’esatto opposto del compagno Cloudy (introspettivo, chiuso, lunare) ed è, in senso astratto, una sorta di “conversione dell’opposto” del gangster Charnier: colto, innamorato della moglie giovane e bella, raffinato. La proiezione ideale di tutto quello che Doyle vorrebbe essere.
Popeye è personaggio talmente ossessivo (come lo sarà il Chance protagonista di Vivere e morire a Los Angeles) da estraniarsi totalmente dal senso profondo della sua missione. L’ossessione di cui è preda, quindi, gli impedisce di discernere la liceità morale delle sue azioni: durante il celebre inseguimento della soprelevata, Doyle non si porrà mai il problema di mettere in pericolo le vite di diversi innocenti (e, addirittura, ucciderà il sospettato sparandogli alle spalle); nel finale, nulla gli importerà di aver ucciso un collega per fatalità. Popeye, perciò, è in un certo senso l’incarnazione dell’impronta più profonda di tutto il film: non esistono più categorie nette, precise, distinte (Bene/Male, Giusto/Ingiusto ecc.) da scegliere e a cui adeguarsi. Non esistono più chiavi di lettura precise per un mondo in perpetua mutazione. Tutto è arbitrariamente confuso, nebbioso, intorcinato. Tutto si presta ad un’inestricabile polisemia di senso.

A partire, una volta ancora, dal linguaggio.

NOTE

1. nella biografia edita Bompiani. Alberto Pezzota ben traduce con «documentario pilotato», ma qui si è preferito mantenere l’originale inglese che meglio rende il gioco di forze tra la componente finzionale e quella prettamente documentaria inteso da Friedkin.)

2. Roy Menarini, William Friedkin, Ed. Il Castoro Cinema, p. 38

3. William Friedkin, Il buio e la luce, Ed. Bompiani (Milano), p.241

4. «[…]there is sort of an elliptycal style to the editing. You are not really sure where the next cut is coming from and certainly neither the shots nor the editing of the shots is following any conventional pattern» (trad. dell’estensore dell’articolo)

5. «What I’ve tried to do in that sequence was to take out the actual sound of the band and the singers at one point and transition the sound into Doyle’s mind, into his mind’s eye. Well, he’s not a certain point hearing the music anymore, he’s hearing warning bells go off in his head. Again, he’s all instinctive, which is what made him a great cop: his instinct. And I tried to capture that by taking the sound as subjective as I could at a certin point and getting inside of his brain, if you will.» (trad. dell’estensore dell’articolo)

6. William Friedkin, Il buio e la luce, Ed. Bompiani (Milano), p.218

7. si svilupperà poi – anche sulla scorta delle intuizioni friedkiniane elaborate nel capolavoro L’esorcista – una tipologia di film dell’horror atti a narrare il lato oscuro della città: si pensi p.e. Maniac [id. William Lustig, 1980] o a Society – The Horror [Society, Brian Yuzna, 1989]

8. William Friedkin, Il buio e la luce, Ed. Bompiani (Milano), p.240

9. In verità, Il braccio violento della legge n.2 [French Connection II, 1975] diretto dal grande John Frankenheimer è opera di rilievo tutt’altro che disprezzabile

10. Roy Menarini, William Friedkin, Ed. Il Castoro Cinema, p. 45