«Non voglio che il mio cinema sembri come la vita, voglio che sia vita. Momenti reali di vita, ecco cosa cerco» (Abdellatif Kechiche)1
Che cosa richiama, oggi, la figura del regista Abdellatif Kechiche? Solo le polemiche, gli spettatori scandalizzati che scappavano dalla sala dove veniva proiettato Mektoub, My Love-Intermezzo [id., 2019] durante l’ultimo Festival di Cannes? Una parabola dalla salita rapida e vertiginosa tanto quanto la sua discesa ha caratterizzato la carriera e la percezione del cineasta franco-tunisino. Premio Luigi De Laurentiis alla miglior opera prima a Venezia per il suo esordio Tutta colpa di Voltaire [La faute à Voltaire, 2000], 4 César, tra cui miglior film e miglior regia, per i successivi La schivata [L’esquive, 2003] e Cous Cous [La graine et le mulet, 2007]. Poi ecco arrivare la Palma d’oro per La vita di Adele [La vie d’Adèle: Chapitres 1 & 2, 2013], la cui fama, nonostante il successo presso il pubblico francese, viene macchiata dalle polemiche sulla presunta “cattiva condotta” del regista durante la fase delle riprese. Mektoub, My Love-Canto Uno [id., 2017] viene presentato senza clamore alla Mostra del Cinema di Venezia; il suo sequel, dopo la contestata partecipazione a Cannes cui si accennava sopra (dovuta soprattutto a una sequenza con un cunnilingus di 15’), è al momento privo di una distribuzione e del tutto invisibile. Passato dall’essere autore centrale nel panorama del cinema francofono contemporaneo a vero e proprio reietto, Kechiche merita dunque una “riscoperta” scevra da pregiudizi. Il suo cinema del resto riesce grazie a un approccio particolarmente interessante nel rendere “la vita vera”, la fisicità e il piacere esperito dal corpo. Il seguente articolo è dedicato in particolare ad analizzare come questo si realizzi attraverso due dinamiche ricorrenti, la centralità concessa alle figure femminili e l’enfasi su due elementi interconnessi: il cibo e il ballo.
La schivata iniziava “immergendoci” nel mondo dei giovani della banlieue parigina, che nell’incipit discutono animatamente mentre la macchina da presa (MdP) a mano passa instabile tra i loro volti, con un effetto di forte soffocamento e di realtà colta nel vivo, collocando lo sguardo di Kechiche e dello spettatore alla loro altezza. Come suggerisce il titolo, nel successivo Cous Cous è il piatto tipico della tradizione tunisina a essere il vero protagonista delle vicende: fulcro da cui nasce la nuova attività del protagonista Slimane (Habib Boufares) ma anche il collante della sua famiglia, che si ritrova spesso a tavola per condividerlo. Nella scena del pranzo, escluse poche inquadrature che ci mostrano tutti i personaggi seduti a tavola, la MdP si muove agile tra i volti, evidenziandone il piacere del mangiare. Sottolinea Roberto Chiesi: «Il teatro del pasto è infatti un teatro fisico, dove il corpo parla anche se il personaggio tace, dove gli atti e i silenzi si concertano intorno al rito del nutrimento. Presentando Cous Cous, Abdellatif Kechiche ha dichiarato: “Voglio esprimere la vita. Esprimere la vita al cinema, è quando malgrado un testo, le aste per i microfoni, le luci, un gruppo di persone è in uno stato d’ebollizione, in un movimento interiore, quasi di trance, e riesce a viverlo veramente; questo mi emoziona e mi affascina. Mi rimanda a me stesso, come uno specchio e, mi sembra, agli altri. Si trasmette qualcosa che fa partecipare lo spettatore”»2.
L’immersione nella realtà quotidiana colta nel vivo: La schivata e Cous Cous.
L’attenzione per i corpi si rileva poi in particolare quando, durante la serata inaugurale del ristorante del protagonista, la giovane di origine arabe Rym (Hafsia Herzi) si concede ai clienti per “intrattenerli” nell’attesa esibendosi nella “danza del ventre”, in una sequenza che ha scatenato un dibattito che trascende l’ambito strettamente cinematografico per aprirsi a più ampie discussioni sociali. È un atto d’amore e un sacrificio verso il padre putativo come scelta libera e coraggiosa o oggettivazione e intrappolamento in un ruolo tradizionale? A ogni modo, quello che qui conta è come la ritrae Kechiche: la sua camera ne scruta e frammenta in primi e primissimi piani il corpo evidenziandone la sinuosità. Emerge così una considerazione che verrà sviluppata in relazione alle opere successive, cioè il modo in cui, in queste dinamiche, quello che emerge maggiormente dallo schermo non è tanto il presunto “feticismo” dell’approccio di Kechiche, quanto la sensualità consapevole della figura femminile, padrona di se stessa nel catalizzare lo sguardo altrui.
La frammentazione e la sensualità “consapevole” del corpo femminile in Cous Cous.
Il ruolo “attivo” delle donne rispetto alle controparti maschili è un elemento costante della filmografia di Kechiche: ne La schivata è associato in particolare all’uso della parola che assume, in mancanza di espliciti atti sessuali, quella “carnalità” tipica della sua messa in scena. Will Higbee, nel suo volume “Post-Beur Cinema” analizza come: «[ai personaggi femminili] viene dato spazio per articolare le proprie opinioni e rifiutare una posizione di passiva oggettività alla presenza dei loro coetanei maschi. La loro agentività è riflessa anche dai loro discorsi, conditi da riferimenti alla mascolinità. Parlano di avere “palle” (couilles) e si chiamano l’un l’altra come “fratello” (frère), appropriandosi del dialetto dei giovani adolescenti del quartiere per i loro scopi nel tentativo di dominare il loro futuro»3.
La verbosità è dunque la loro “arma” per far sentire le proprie ragioni e non soccombere al maschio: quando Fathi, amico del protagonista Krimo (Osman Elkharraz), vuole interrompere la sua “relazione” con Lydia (Sara Forestier), va da Frida, una sua amica, per protestare confiscandole il cellulare. Inizia un accesso dibattito, in cui è da subito evidente come sia la ragazza a prevalere, chiedendo senza un attimo di tregua la restituzione dell’oggetto, mentre l’altro non riesce a ribattere, fino a che non è costretto a ricorrere alla forza fisica per zittirla. Lydia si rivela sempre sicura dei propri sentimenti e delle proprie azioni, mentre Krimo, quando prova a fare un passo verso di lei, sarà quanto più maldestro, non riuscendo a gestire le proprie emozioni. Lo sguardo “voyeuristico” diventa così prerogativa femminile: durante lo spettacolo dei bambini più piccoli, vediamo una ragazza che dai camerini “spia” attraverso le tende il pubblico nella sala e poi riporta alle compagne con mordacità di aver visto l’ex fidanzata di Krimo in intimità con un altro ragazzo. Quello maschile di Krimo invece, è del tutto “indebolito”: quando tocca a Lydia e ai suoi compagni salire sul palco, lui li osserva da fuori attraverso un vetro. Il tratto è rilevante perché è in nuce quello caratteristico di Amin nel successivo Mektoub, My love, spesso ai margini dell’inquadratura a osservare a distanza le ragazze.
In Cous Cous, questi aspetti sono ancora più marcati. Dalle primissime scene, vediamo l’ex–moglie del protagonista svolgere con fatica i lavori di casa, senza però perdere la determinazione. Se gli uomini non sanno fare altro che porre problemi, sono le donne che cercano di risolverli: quando va con Slimane in banca per ottenere i finanziamenti, è Rym a portare avanti la contrattazione, “vestendo” con nonchalance per un momento i panni di una giovane donna d’affari. All’inaugurazione dell’attività, scoprendo che manca il cous cous, l’uomo comincia una disperata ricerca in motorino, ma sarà la sua compagna a salvare la serata portandone di nuovo. Nella loro rappresentazione emergono la rabbia, le invidie reciproche e l’afflizione: Julia, giovane immigrata russa infelicemente sposata con Majid, figlio del protagonista, si lamenta con questi per la continua assenza e i ripetuti tradimenti del marito, avallati senza problemi dalla madre. Gli intensi primi piani del suo volto che scoppia in un pianto sono lo specchio di una sofferenza interiore repressa a fatica, che Kechiche registra con particolare intimità.
Lo sguardo “voyeuristico” femminile in La schivata.
L’attenzione alla fragile interiorità in Cous Cous.
Il successivo Venere Nera [Vénus Noire, 2010] racconta, a partire da fatti realmente accaduti, le vicende della schiava nera Saartjie Baartman (Yahima Torrès) costretta dal suo padrone afrikaner Caezar a tenere spettacoli d’intrattenimento a Piccadilly Street, interpretando una selvaggia in catene nota come la “Venere Ottentotta”. La relazione tra corpo femminile in performance e lo sguardo maschile, già centrale nella citata scena di Cous Cous, intesse qui direttamente i fili della narrazione, con caratteri esplicitamente meta-testuali.
Scrive Brodesco: «La permanenza dello sguardo sul corpo diverso o deforme è in genere considerata una pratica proibita. Kechiche sceglie di violare questa proibizione per rivoltarla contro il voyeurismo che la motiva. Il regista di Cous cous si e ci costringe a un guardare costante, chiuso, rimanendo all’interno degli stessi spazi, riprendendo le performance in tutta la loro lunghezza, diverse volte. Questa dilatazione adegua lo sguardo del film alla ripetitività del gesto vissuto da Saartjie, obbligata a prodursi per tutta la storia, pur in contesti e con modi diversi, nella medesima sfiancante esibizione. Dopo averci mostrato il primo show, Kechiche non dà gli altri per scontati. Mostra il secondo, e poi sempre lo stesso spettacolo per la terza volta, la quarta… Quando si tratta di osservare i rituali tristi e osceni che circondano il corpo di Saartjie l’ellissi è proibita. Quando racconta invece l’evolversi della vicenda biografica la narrazione si permette dei salti abbastanza bruschi di scena in scena. […] Saartjie raccoglie una sequela di sguardi, nessuno dei quali rispetta il suo corpo: quello coloniale la vede come un esotico souvenir, quello razziale come una specie inferiore, quello maschile come una stravaganza sessuale, quello scientifico come un oggetto di studio»4.
È evidente come, in tutti i casi, l’uomo riesca a dominare e a imprigionare la donna, ma solo attraverso lo spettacolo o il simulacro artistico. Gli accademici londinesi si concentrano sui suoi genitali, desiderosi di analizzarli ritenendoli il tratto peculiare che la rende un’ottentotta e quindi una parente stretta delle scimmie. Più volte le chiedono di togliersi il perizoma ricevendo sempre risposta negativa e riuscendo nel loro intento solo dopo la sua morte. I loro occhi, come quelli di tutti gli altri, non vanno mai oltre la superficie fisica: nella loro “analisi” la raffigurano con dei disegni e alla fine ne traggono una statua i cui precisi dettagli sono mostrati alla comunità.
L’oggettivazione del corpo di Saartjie in Venere Nera: negli spettacoli per il pubblico borghese dei Salon e come simulacro per la comunità scientifica.
Schermo nero. Nessun titolo di testa, neanche il titolo del film. Una porta che si apre. Una ragazza che esce di corsa per non perdere l’autobus. Entra a scuola, ed è subito in classe. Così, a partire dall’incipit, “entriamo” nel mondo di Adèle (Adèle Exarchopoulos) senza mediazioni, come nei film precedenti. Ma se in questi l’effetto poteva essere particolarmente brusco, in La vita di Adele l’approccio è più “lieve”, nel restituire il fluire della vita della protagonista. Non è un caso che Kechiche, nella scelta del titolo, abbia deciso di non fare diretto riferimento alla grapich novel da cui ha (molto liberamente) tratto le vicende (Il blu è un colore caldo di Julie Maroh) ma di richiamare La vita di Marianne di Marivaux, che la protagonista legge a scuola. La persistente vicinanza della MdP al suo volto rivela la fragilità e il disorientamento esistenziale che precedono l’incontro con Emma, come il soffermarsi sui suoi intensi primi piani durante un rapporto sessuale con Thomas, mero passaggio ‘obbligato’ per una ragazza della sua età. Tra i critici, è in particolare Fabrizio Tassi a concentrarsi su questo aspetto:
«Sapevamo già dello speciale talento di Abdellatif Kechiche nell’incarnare la realtà-verità sullo schermo. Basterebbe pensare al magnifico pranzo in famiglia che sta al centro di Cous Cous. […] Il modo in cui Kechiche sta addosso alla sua protagonista (e a Emma-Léa Seydoux e a tutti gli altri) non ha nulla di rivoluzionario, abbiamo già visto tanto cinema che pratica il primo-primissimo piano-dettaglio in movimento, con quello stesso effetto di prossimità anche un po’ claustrofobica (lo stacco al piano medio è un respiro strozzato, non apre, non allarga, rimane appiccicato al primo piano, alla persona-personaggio, a ciò che sta provando). Ma qui ha una potenza che non lascia scampo, una fisicità e sensualità che senti addosso, oltre alla capacità di trovare un equilibrio miracoloso tra le esigenze del ritmo e quelle dell’emozione, tra l’attimo e la durata, il racconto e la verità che ci sta dentro, sotto, intorno».5
In questa dimensione, gioca un ruolo fondamentale la resa del ritmo con cui si scandisce la narrazione. Fino a che Adele è alla ricerca del proprio sé, di una stabilità, il susseguirsi delle vicende è lento, fatto di lunghi momenti in cui cerca di “gustare” tante possibilità, prima l’incontro insoddisfacente con un maschio, poi la graduale apertura alla relazione omossessuale con Emma. Quando entra per la prima volta in un pub per gay, la seguiamo mentre si muove a disagio, come un pesce fuor d’acqua. Una volta che il legame con Emma diventa più forte e la protagonista ha scelto quali valori abbracciare, la temporalità accelera, e un brusco passaggio ce le mostra più avanti nel tempo, al momento della rottura della loro relazione. Nell’ultima scena, Adèle va in una galleria dove spera di rivedere l’ex amante. La dinamica evidenzia il mancato “percorso di formazione” della ragazza e quasi una struttura circolare: lei infatti si muove all’interno del tutto spaesata, riassaporando quella distanza dal mondo dell’arte cui appartiene Emma e più in generale il disorientamento che provava all’inizio del film. Dopo brevi scambi di circostanza, prima con lei e poi con un giovane regista che aveva incontrato precedentemente, esce e si incammina in silenzio, mentre quest’ultimo la segue per cercarla, apparentemente invano.
L’atmosfera sospesa potrebbe lasciar intendere la volontà di proseguire il racconto delle vicende, come evidenzia il sottotitolo “capitoli 1 e 2”. Seguito a oggi non realizzato, probabilmente a causa delle polemiche che hanno accompagnato il film fin dalla presentazione a Cannes. Comunque, il finale non fa che ribadire il carattere del personaggio, che resta “inconcluso” e inafferrabile per tutta la narrazione, in particolare nella sua sessualità (non capiamo fino in fondo cosa significhi per lei quel collega maschio che provoca il definitivo contrasto con Emma). Lo sguardo di Kechiche rimane attaccato ai volti e ai corpi dei suoi personaggi, ne contempla la superficie cercando di sondare cosa c’è “sotto”, senza “pretese” di indagine psicologica o di “aggressione” nei loro confronti, quanto di una resa dello scorrere della vita e di una «ricerca di una estetica dei sentimenti che parta esclusivamente dalle azioni, quindi dai corpi, e pochissimo dai dialoghi».6 Sottolinea Cezar Gheoghe: «La vera storia del film è ciò che significa vivere dentro il corpo di Adele: un catalogo di dati sensoriali, […] che Paul Auster potrebbe chiamare “fenomenologia del respiro”. La vera storia di La vie d’Adele è la storia del tempo dentro il corpo. […] La camera è in costante interazione col corpo nello spazio. Le scene di sesso, i primi piani e lo scrutare Adele ed Emma mentre dormono o mangiano eccedono le finalità narrative. La presenza degli attori e la loro fisicità, la loro stanchezza e l’attesa sono più importanti dello sviluppo della trama. La MdP va così vicino alle facce delle attrici che tutto il mondo esterno recede nel background»7.
Il film riesce così a rendere, in modo intenso e autentico, una vera e propria “esplosione della femminilità” che passa anche attraverso la Weltanschauung di Kechiche: la relazione tra cibo e sesso. Durante un picnic con Emma (Léa Seydoux), Adèle afferma “io mangio di tutto, posso farlo per tutto il giorno” e poi le chiede “quando è stata la prima volta che hai assaggiato una ragazza?”. I dettagli della sua bocca indicano la ricerca di un piacere soddisfatto dal primo bacio che si scambiano sull’erba, a cui segue immediatamente il primo atto sessuale. Nota Christina Kkona:
«In entrambe le famiglie delle protagoniste, il padre è colui che cucina, così come quello che contrasta la durezza dei commenti materni. Un piatto preparato dalla madre è l’unico nutrimento che una speranzosa Adele rifiuta, dopo il suo primo bacio ad una ragazza. Non è il caso della pasta alla bolognese, la specialità di suo padre, sempre accompagnato da un anonimo Bordeaux che rivela un’adolescente insaziabile le cui scelte del momento non placano la fame sessuale. Ne abbiamo prova nel momento in cui è sdraiata sul letto piangendo dopo aver rotto con Thomas: la sua confusione è espressa soprattutto dal sollievo che sembra provare mangiando una barretta di cioccolato. Similarmente, quando torna a casa dopo la prima sera col collega, o quando Emma è al telefono assorbita dalle sue frustrazioni professionali, lei trova nuovamente rifugio nel cibo»8.
Questa enfasi richiama un cineasta a prima vista lontanissimo, ovvero Quentin Tarantino, i cui film sono densi di momenti in cui i protagonisti sono intenti a bere e mangiare, come acutamente osservato da Gabriele Niola: «In maniera crescente da almeno Pulp Fiction [id., 1994] in poi, nei film di Tarantino il godimento fisico e il desiderio sono sempre presenti, non nella forma dell’appeal sessuale (sfera anzi quasi assente) ma in quella del piacere del cibo e del bere, in lui sempre sineddoche del piacere per antonomasia che è quello del vedere e fare film»9. Questa sensazione è spesso trasmessa allo spettatore stesso grazie al ricorso di evocativi dettagli.
Il piacere che passa attraverso il gusto: La vita di Adele e Django Unchained [id., Quentin Tarantino, 1992].
Allo stesso tempo, è la dinamica del ballo ad assurgere qui come momento chiave per scandire la parabola esistenziale di Adèle e i suoi diversi stati d’animo, in diretto legame con le altre due variabili cui si accennava poc’anzi. Dopo essere stata preda della fragilità e del disorientamento esistenziale con cui l’avevamo conosciuta all’inizio delle vicende, l’instaurarsi della relazione con Emma le fa raggiungere una certa stabilità. Alla festa di compleanno a sorpresa organizzata dai suoi genitori, la protagonista si può finalmente lasciare andare a un attimo di grande intensità sulle note di I Follow Rivers di Lykke Li. Nelle scene immediatamente seguenti, prima mangia con Emma gli spaghetti preparati dal padre, poi compie con lei il più intenso rapporto sessuale. Al “fuoco” interiore della scoperta del vero amore e del vero sé non possono che seguire le difficoltà della quotidianità della “vita di coppia”. Quando ormai vivono assieme, Emma organizza un party con tutti i suoi amici del mondo dell’arte; Adèle, nonostante riceva molte attenzioni, si sente esclusa e fuori luogo. Serve le portate a tutti gli ospiti, che mangiano con appetito e discutono della rappresentazione del “piacere” femminile nelle arti figurative. Parte musica a tutto volume, ma lei si muove a scatti con gli occhi rivolti verso il basso o verso la compagna che si sta intrattenendo con altre ragazze. “Erano così colti… Mi sono sentita a disagio”, rivela Adèle a Emma, quando poi sono sole in camera da letto, con l’amante che non sembra capirne lo stato d’animo. L’incrinarsi del loro rapporto è evidenziato dal fatto che le vediamo poi coricarsi assieme continuando a parlare e a toccarsi, ma Emma rifiuta di fare l’amore con la scusa di essere indisposta. Il carattere ambiguo del suo “percorso di formazione”, interrotto se non regressivo, è evidenziato ancora una volta da una sequenza simile: accettando l’invito di un collega, Adèle va in un locale all’aria aperta, dove si lascia trascinare dalle melodie arabeggianti e compiendo ampie movenze diventa l’oggetto dello sguardo dell’uomo. I due si abbracciano, lei gli concede un bacio e sembra ritrovare la passione. Preludio inesorabile del momento più drammatico: scorgendo i due amoreggiare in auto, Emma accusa l’amante di vergognarsi di essere lesbica e dal litigio che ne scaturisce le due si lasceranno per sempre. Così la ragazza non può che ritornare a essere preda del turbamento con cui l’avevamo conosciuta all’inizio del film: guidando in una danza i suoi alunni della scuola dell’infanzia nel saggio di fine anno, il suo volto non riesce a trattenere alcune lacrime che le bagnano e le gonfiano il volto.
La vita di Adele: il ballo come espressione del proprio sé.
Mektoub, My Love-Canto Uno è per certi versi l’apogeo di queste tendenze. Il lungo racconto si dispiega attraverso estese sequenze che narrano la quotidiana esistenza estiva dei protagonisti tra mare, locali e amori senza eventi cardine ma solo momenti (apparentemente) frivoli e banali. Fin dall’ incipit si evidenzia la resa del “tempo reale”: Amin (Shaïn Boumedine) arriva in bici davanti a una casa, dove all’interno Tony e Ophélie stanno consumando un intenso rapporto sessuale. Riconoscendo il motorino del cugino accostato all’entrata, dapprima esita non sapendo bene cosa fare, ma poi si decide a suonare il campanello. Sentendolo, l’uomo esce di nascosto mentre la ragazza accoglie l’amico. Assistiamo interamente al loro dialogo, mentre bevono birra e mangiano fragole e la forte luce del sole illumina e rende traslucide le loro figure, fino a quando non li seguiamo mentre escono e si incamminano per la spiaggia. Nella messa in scena, però, la MdP compie movimenti liberi che, anche staccandosi dalle traiettorie dello sguardo maschile, si concentrano sul corpo di lei, avvicinandosi e frammentandolo. L’esplicitazione della “mano” di Kechiche è replicata anche sui corpi delle altre figure femminili sulla spiaggia, andando ben oltre una mera resa “documentaristica”. La “carnalità” esplode quando il gruppo di amici si tuffa in mare: la sequenza diventa una vera e propria “sinfonia audiovisiva” con una musica incalzante, briosa e nessun altro suono se non le loro grida di gioia mentre le gocce d’acqua “sporcano” l’inquadratura. Senza soluzione di continuità, accompagnati dalla stessa melodia, a sottolineare la perfetta fluidità tra le due situazioni, li vediamo poi in sulla riva intenti a gustare con estremo piacere un piatto di spaghetti.
L’emergere delle pulsioni dei corpi in Mektoub, My Love-Canto Uno.
Quello che può apparire un approccio voyeuristico assume implicazioni del tutto differenti in altri momenti, come nella danza in un locale notturno. Nell’attenzione in particolare per il corpo sinuoso di Céline (Lou Luttiau) quello che emerge è il suo desiderio e la sua attrazione, in un ruolo così tutt’altro che “passivo” come evidenzia anche il suo volto ammiccante verso i tanti pretendenti che le ruotano attorno. Kechiche mostra così ancora una volta la grande abilità nel cogliere l’interiorità femminile, in tutti i suoi versanti. Se Céline ha un carattere sempre sicuro e quasi “disinteressato” del comportamento dei partner, Charlotte (Alexia Chardard) rivela una maggior fragilità, come quando scoppia in lacrime di fronte ad Amin scoprendo i tradimenti di Tony. Diversi momenti sono dedicati alle “chiacchierate tra amiche” in cui spesso viene fuori una tendenza a “sparlare” di chi è assente, motivo di disagio anche per Ophélie. Così il personaggio maschile fa da “collante” nel susseguirsi delle vicende, ma è nuovamente evidente come queste siano totalmente “dominate” dalle figure femminili (e del resto le loro controparti maschili si rilevano quasi tutte irresponsabili, come Tony che passa da una ragazza all’altra o come lo zio sempre ubriaco). Lo sguardo del protagonista, come già accennato in precedenza, sembra del tutto “depotenziato”, come rileva anche Margherita Sansone: «La figura di Amin è volontariamente voyeuristica, rimane sul bordo dell’immagine, ai margini della scena, è colui che osserva rimanendo a distanza. II ragazzo non si dichiarerà mai a Ophélie, pur essendo fortemente attratto da lei; come nella sequenza di apertura, la guarda da lontano mentre ha un rapporto con il cugino, così nella lunga scena della discoteca, Amin non è mai pienamente coinvolto nelle sfrenate danze del resto del gruppo e delle ragazze. Rimane nel buio della sua camera a visionare vecchi film, si concede poco alla vita, chiede, infine, a Ophélie di posare per lui per delle foto nuda, per osservarla, quindi, sempre attraverso un filtro, quello dell’obiettivo fotografico»10.
Se momenti all’interno di locali notturni intercorrono più volte nel corso del film, è la lunga sequenza (di circa 20’) che precede il finale a essere particolarmente significativa, essendo ambientata interamente lì e coinvolgendo tutti i personaggi. Amin resta in disparte, limitandosi a scambiare due parole visibilmente imbarazzato e a osservare da lontano. Le donne invece prendono la scena, esibendosi in lap dance e divertendosi tra loro, incuranti dello sguardo maschile, esprimendo tutta la loro libertà e voluttuosità (non a caso, uno dei brani che sentiamo è You Make Me Feel (Mighty Real)), e cercando di coinvolgere il ragazzo. La MdP si sposta tra di loro, per poi concentrarsi su Ophélie che le si concede senza remore, come Céline nella scena sopracitata. Tutte queste figure sono dunque sempre consapevoli di essere viste e pienamente in controllo di questo processo: ad un certo punto, a sorpresa proprio Ophélie guarda direttamente in macchina, come rivolgendosi allo spettatore.
Il ruolo “attivo” delle ragazze nelle dinamiche dello sguardo in Mektoub, My Love-Canto Uno.
L’opera, in conclusione, diventa manifesto del cinema di Kechiche dal momento in cui «il vero protagonista non è quindi il destino (significato della parola mektoub), ma la prepotenza delle pretese ed esigenze dei corpi, nei ragazzi e negli adulti, sia che non vogliano rinunciare alla frivolezza giovanile (lo zio Kamel), sia che si facciano giudici di quel che vedono a partire dalle apparenze fisiche. In ogni caso, Mektoub, My Love riesce a catturare ancora meglio di La vita di Adele il mistero della comunicazione non verbale, riesce ad imprimere nello sguardo di una ragazza un desiderio così flagrante da essere al tempo stesso gioioso e terribile, suggerisce la vetta dell’essere travolti da un istinto e l’abisso della frustrazione nel non poterlo saziare, riesce insomma a mettere in scena le pulsioni primarie come nessuno è mai riuscito a fare»11.
Quello che ancora trasmettono le sue opere rimane, in primo luogo, la grande capacità di mettere in scena in modo del tutto diretto e immediato quelle sensazioni, quelle “esperienze” più distintive e intrinseche dell’essere umano, ben al di là di un mero voyeurismo o pornografia. Visioni intense che colpiscono lo spettatore, il quale vede riflesso qualcosa che gli appartiene e che sicuramente, nel presente o nel passato, egli stesso ha provato.
NOTE
1. J. Romney, Abdellatif Kechiche interview: ‘Do I need to be a woman to talk about love between women?’, vedi theguardian.com/film/2013/oct/27/abdellatif-kechiche-interview-blue-warmest.
2. R. Chiesi, recensione di Cous Cous, “Cineforum”, Vol. 48, Fasc. 2, marzo 2008 p.19.
3. W. Higbee, Post-Beur Cinema: North African Émigré and Maghrebi-French Filmmaking in France since 2000, Edinburgh University Press, Edimburgo,2013.
4. A. Brodesco, Anatomia degli sguardi, “Cinergie. Il cinema e le altre arti”, n. 21, 2011, p. 44.
5. F. Tassi, recensione di La vita di Adele, “Cineforum”, Vol. 53, Fasc. 5, giugno 2013, p.58.
6. M. Gervasini, Quale tempo per l’eros, “FilmTv” N. 02/2017.
7. C. Gheorghe, “Give Me a Body Then”: Abdellatif Kechiche and the Cinema of the Flesh, in “Exphrasis”, N.2/2014, pp. 60-62.
8. C. Kkona, The Blue and the Red of Abdellatif Kechiche’s La Vie d’Adèle1: In Search of the Warmest Colour, vedi https://www.academia.edu/23090412/The_Blue_and_the_Red_of_Abdellatif_Kechiche_s_La_Vie_d_Ad%C3%A8le
9. G. Niola, Quentin Tarantino conosce i tuoi desideri meglio di te vedi https://www.esquire.com/it/cultura/film/a29204941/quentin-tarantino-hollywood-dicaprio-brad-pitt/.
Per un ulteriore confronto tra Tarantino e Kechiche confronta anche G. Niola, recensione di C’era una volta… a Hollywood, https://www.badtaste.it/recensione/cannes-72-cera-una-volta-a-hollywood-la-recensione/373452/.
10. M. Sansone, Il poema della luce, “Cineforum”, Vol. 58, fasc. 6, luglio 2018, p.23.
11. G. Niola, recensione di Mektoub, My Love-Canto Uno, vedi https://www.badtaste.it/recensione/venezia-74-mektoub-my-love-canto-recensione/266171/.