Presentato in anteprima mondiale presso la 74° edizione del Locarno Film Festival, Heavens Above [Nebesa, Srđan Dragojević, 2021] racconta in tre episodi (ambientati rispettivamente nel 1993, 2001 e 2026) l’evoluzione della società della ex-Jugoslavia dal suo disfacimento all’immediato futuro. Nonostante ognuno di questi sia incentrato su una vicenda autonoma e su un unico protagonista, le tre parti sono unite dalla partecipazione degli stessi personaggi e, soprattutto, dalla presenza del sacro. Infatti, oltre al numero, caro al Cristianesimo, degli episodi che compongono il lungometraggio e ai titoli di ognuno (“Sin” – peccato, “Grace” – grazia, “The Golden Calf” – il vitello d’oro), il sacro è il gimmick che innesta uno sviluppo imprevisto nelle tre vicende: nel primo un’aureola compare sulla testa di un uomo; nel secondo, un folle parla con la Madonna usando un cellulare e, una volta condotto in carcere, si trasforma in un neonato; nel terzo i quadri di un pittore sconosciuto hanno la capacità di nutrire chi li guarda. Il sacro è dunque l’elemento narrativo che porta alla gag comica e al suo eccesso, il grottesco: nel primo episodio, la moglie dell’uomo a cui compare l’aureola cerca disperatamente di liberarlo da quest’ultima chiedendogli di compiere diversi peccati, come rimpinzarsi di cibo, tradirla e picchiarla; nel secondo, l’uso degli oggetti viene sovvertito dal pazzo, tanto da ritenere che un cellulare possa essere un veicolo di comunicazione col divino; nel terzo, infine, i personaggi sono inquadrati mentre masticano e sbavano osservando dei quadri.
Nei tre episodi si assiste a uno scivolamento dal comico al grottesco: in tutto il film si nota una forte insistenza sui corpi dei personaggi, oltre che sulle loro funzioni corporali che, in particolare, acquistano via via maggiore importanza. La macchina da presa preferisce inquadrare fisici flaccidi e sovrappeso, conferisce particolare risalto alle ferite corporali e al sangue che ne deriva e, infine, si sofferma in particolare sulla bocca dei personaggi, dilungandosi sull’atto di cibarsi (sbavare e masticare) e sul suo opposto (vomitare).
Le gag sono dunque introdotte dal sacro, che scardina la logica mimetico-realistica della narrazione, portando inizialmente all’assurdo e alla risata ma finendo poi per volgersi nel suo contrario: la morte. Questa conclude ognuna delle tre vicende: nella prima la morte spirituale, la dannazione dell’anima del protagonista che finisce per perdere se stesso trasformandosi nel suo contrario (da uomo descritto come buono diventa una carogna), mentre le altre due terminano con il decesso corporale (il neonato in procinto di essere fucilato e la morte delle persone che si erano cibate dell’arte). È dunque il sacro che innesta in ogni episodio questa parabola inizialmente comica ma destinata a sovvertire se stessa fino a tramutarsi in tragedia.
Dato che, come sostiene Giorgio Cremonini, «il cinema comico è una derivazione-accentuazione della commedia»1, Srđan Dragojević attua in Heavens Above un duplice sovvertimento del genere. In primo luogo, tanto l’intero lungometraggio quanto le singole storie presentano un andamento narrativo che procede da una situazione di equilibrio iniziale al caos finale: si tratta della struttura opposta rispetto alla commedia. Il film, infatti, termina mostrando la morte della comunità soffocata dal colore rigurgitato e inizia dai residui della società socialista ormai scomparsa, che viene presentata come idilliaca: il marito custodisce gelosamente un modellino della casa posseduta prima che venisse distrutta dalla guerra e simboleggiante la serenità perduta.
In secondo luogo, i singoli episodi di Heavens Above non solo ripetono la struttura dell’intero lungometraggio, raccontando vicende che muovono da un equilibrio iniziale al caos finale, ma possono anche essere letti come tre stravolgimenti, determinati dal sacro, di altrettanti stilemi del genere: la prima vicenda è un sovvertimento della commedia sentimentale, dato che l’unità familiare, inizialmente presentata come perfetta grazie alla bontà del marito e all’amore incondizionato fra i due coniugi, viene distrutta dall’affetto reciproco dei consorti. Questi sono costretti a fare il contrario di quello che normalmente ci si aspetta dalla relazione sentimentale al fine di liberare l’uomo dall’aureola, giungendo a ricorrere alla violenza domestica e al tradimento, fino a che questa devianza prende il sopravvento e porta alla definitiva distruzione della famiglia. Il secondo episodio è incentrato sul personaggio del folle: il protagonista è un matto posto ai margini della società e, in un atteggiamento che ricorda la slapstick comedy, legge in modo anarchico l’ordine del reale, ad esempio sovvertendo l’uso del telefonino che, da strumento di comunicazione fra le persone, diviene mezzo per contattare la divinità. Dunque, anche in questo caso l’irruzione del sacro genera una deviazione dalla traiettoria del genere: il matto stermina una famiglia al fine di impossessarsi di un cellulare.
Inizia così una parabola discendente: incarcerato e condannato a morte, di nuovo interviene il sacro, apparentemente per salvarlo ma, come verrà raccontato nel terzo episodio, per portarlo a una nuova dannazione. L’ultima parte riprende e sovverte la commedia grottesca e, in particolare, il concetto di corpo grottesco, incentrato sulle funzioni corporali legate alla sessualità (la moglie del protagonista del primo episodio viene mostrata mentre si prostituisce per pochi spiccioli) e, in particolare, alla bocca (mangiare e vomitare). Tuttavia, questi atti vengono insieme destabilizzati e rovesciati nel loro contrario: oltre al rigurgito colorato e letale della fine, la bocca non mangia più nulla di materiale (gli individui si cibano magicamente di arte) e viene mostrato unicamente l’atto del masticare e del gustare senza che fra i denti vi sia nulla.
Dunque, il sacro è il gimmick che dà il via alle vicende e che genera le gag comiche, ma è anche l’elemento che sovverte il comico e la commedia, trasformandoli nel suo opposto, la tragedia. Come sostiene Umberto Galimberti, «la ragione umana, infatti, si apre quando instaura la differenza, quando decide che una cosa non è il suo contrario»2, quando cioè si affranca dalla dimensione sacrale che invece è «quello sfondo indistinto, quella riserva di ogni differenza»3, il luogo dove regna l’indifferenziato, ovvero la confusione e l’unione degli opposti. Le vicende di Heavens Above hanno origine da questa irruzione di indifferenziato, cioè di confusione del significato: l’aureola porta al peccato anziché simboleggiare la santità, un neonato è in procinto di essere fucilato, delle persone si nutrono tramite la vista e un pazzo, cioè colui che è privo della consapevolezza delle proprie azioni, è condannato a morte. La follia del sacro finisce per coinvolgere la società nella sua interezza, procedendo dall’esterno all’interno e dal singolo alla collettività. Infatti, nel primo episodio viene raccontato il progressivo peggioramento dei rapporti sociali dell’uomo dotato di aureola, quindi di ciò che relaziona se stesso agli altri, inizialmente improntati a gentilezza e rispetto ma poi sovvertiti da egoismo e sopraffazione; mentre nell’ultimo viene raccontata un’intera comunità che si ciba di arte e che vomita il colore. Dunque, in Heavens Above Srđan Dragojević riflette sulla storia degli ultimi trent’anni della ex-Jugoslavia, raccontando la transizione da una società socialista, descritta come idilliaca e colma di umiltà e purezza (simboleggiata dal modellino della casa ormai perduta a causa della guerra), ad una improntata sul libero mercato (del quale è metafora l’irruzione del sacro), ricca di vantaggi economici ma anche di corruzione morale, destinata a perdere la sua identità umana.
NOTE
1. G. Cremonini, Il comico e l’Altro. Il comico nel cinema americano, Nuova Universale Cappelli, Bologna 1978, p. 89.
2. U. Galimberti, Orme del sacro. Il cristianesimo e la desacralizzazione del sacro, Feltrinelli, Milano 2000, p. 15.
3. Idem, p. 16.