Il Festival del cinema di Berlino compie i suoi primi settant’anni e per festeggiare cambia l’abito: meno glamour e più sobrietà. Dopo diciotto anni di era Dieter Kosslich a coordinare l’organizzazione del Festival sono ora in due: Carlo Chatrian, nuovo direttore artistico dopo l’omologa esperienza alla guida del Festival del cinema di Locarno, e Mariette Rissenbeek, nuovo direttore esecutivo e con precedenti esperienze in case di produzione e distribuzione in Germania.Certamente dal punto di vista organizzativo non è stato un anno facile, con molti ostacoli da aggirare. Citiamo solo i più clamorosi: la chiusura del multisala Cinestar proprio nel cuore del festival, nella Potsdamer Platz, che ha costretto a distribuire molte delle proiezioni in cinema meno centrali; lo scompiglio causato in Germania da un articolo che rivela il passato nazista del fondatore del festival, Alfred Bauer. E naturalmente il rischio del coronavirus, certo da non sottovalutare.

Il punto di partenza nelle scelte di programma operate da Carlo Chatrian per questa Berlinale è l’indagine sulle possibilità del mezzo cinematografico. E certamente sono tante le domande che lo spettatore di questo festival si porta a casa a rassegna conclusa. E non solo fra i film in concorso. L’identità, con tutte le sue sfaccettature – culturali, di genere, territoriali, l’appartenenza a un gruppo – è certamente, in un periodo di grandi emigrazioni come il nostro, uno dei temi che ricorrono in tutte le sezioni. Ma partiamo dai film in concorso.

berlino 1Berlin Alexanderplatz.

Non sembra avere dubbi sulla propria nuova identità il Francis di Berlin Alexanderplatz [id., Burhan Qurbani, 2020]. Francis si presenta come Franz ai suoi connazionali africani, da poco arrivati in Germania, come lui seguendo il sogno di una vita migliore, e proclama «Io sono la Germania». Lui che lavora, parla il tedesco, e cosa ancora più importante, ha una donna tedesca. Per il regista tedesco di padre afgano, Burhan Qurbani, il dilemma fronteggiato da Francis non è tanto è quello della sua identità di africano in terra tedesca, ma riguarda l’imperativo categorico che l’ha portato fino a Berlino, il suo «I want to be good» che riprende l’«anständig sein» della sua fonte letteraria. Qurbani, infatti, riesce nella difficile impresa di trasportare su grande schermo un classico della letteratura tedesca, il complesso romanzo Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin (la cui trasposizione più conosciuta è sicuramente quella realizzata per la televisione da Rainer Werner Fassbinder) e arricchirlo di una problematica attuale come quella dell’integrazione. Se la sua versione del romanzo ricalca la storia di Franz Biberkopf in modo molto libero, si serve però di alcuni leitmotiv e di una voce narrante – la voce di Mieze, la compagna di Franz – per introdurre i capitoli proprio come nel romanzo; ripete parole chiave, commenta gli eventi, li riaccosta a motivi e figure bibliche. Riesce quindi a riavvicinare la narrazione filmica alla forma letteraria complessa e poetica del libro. Lo slittamento temporale delle vicende dalla Berlino degli anni venti a quella attuale costringe a cambiare il perno spaziale attorno a cui ruotano gli eventi: all’Alexanderplatz di Döblin subentra il parco Hasenheide, luogo di scambio del racket della droga, e costringe a dismettere il dialetto berlinese del romanzo per una lingua, quella inglese (ma anche tedesca e francese), più consona alla metropoli tedesca, plurilinguistica  e multiculurale, di oggi. Berlin Alexanderplatz ha sicuramente il coraggio e l’imponenza monumentale del suo corrispettivo letterario pur mantenendo una forte identità cinematografica.

Ancora l’identità, in questo caso l’identità artistica, è il tema di Volevo nascondermi [Giorgio Diritti, 2020]. L’arte naif di Antonio Ligabue è al centro del film biografico di Giorgio Diritti, una delle due opere italiane in concorso. La straordinaria interpretazione naturalistica di Elio Germano (che ritroviamo in un ruolo non da protagonista anche in Favolacce [Damiano D’Innocenzo e Fabio D’Innocenzo, 2020]), premiato come miglior attore, dà forma all’universo creativo e immaginario del pittore, all’interno di un film che riflette sul rapporto tra arte e società, sulla forza eversiva della prima e le maglie stringenti della seconda.

berlino 2020Favolacce.

Altro film italiano in concorso è Favolacce dei fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo. Girato nella periferia romana, è un dramma sociale sulle aspettative irrealizzate della media borghesia. Un film cupo fin dalla scena iniziale, ispirata a un truce fatto di cronaca. La finta cordialità di un quartiere è continuamente minata da piccoli episodi inquietanti, le cene fra vicini disturbate da scomodi paragoni sui rispettivi figli. E sono proprio questi ultimi, bambini privati della loro infanzia e costretti ad atteggiarsi da grandi, che decidono di dinamitare, con un atto estremo, questa quotidianità malata.
Presenti già due anni fa alla Berlinale nella sezione Panorama con l’opera d’esordio La terra dell’abbastanza [2018], i fratelli D’Innocenzo avevano stupito per la capacità di affrontare con grande maturità un tema complesso come quello della piccola criminalità organizzata. Questa volta, con solo la seconda opera presentata alla Berlinale, si portano a casa il premio per la miglior sceneggiatura.

È un dramma sommesso, non tragico ma comunque inaccettabile, quello raccontato invece nel contributo americano di Eliza Hittman con Never Rarely Somethimes Always [id., 2020]
L’adolescente Autumn si ritrova involontariamente incinta (le cause, probabilmente un rapporto sessuale forzato, rimangono poco chiare, le intravediamo nel pianto smorzato di Autumn alle prese con le quattro risposte – i quattro avverbi del titolo – di un formulario) e per abortire è costretta a viaggiare di nascosto dai genitori dalla cittadina nella Pennsylvania dove abita fino a New York. Grazie all’appoggio della cugina Skylar, che ruba di nascosto i soldi al gestore del supermercato dove lavorano, salgono sull’autobus che le porta nella metropoli. La forza del film sta tutta in questa capacità di comunicare un dramma tramite gli sguardi delle due protagoniste, la loro intensità misurata, la loro amicizia senza tentennamenti. Il film vince l’Orso d’Argento, gran premio della giuria, probabilmente grazie alla loro interpretazione.

Vincitore del concorso, è There Is No Evil [Sheytan vojud nadarad,Mohammad Rasoulof, 2020] che tratta del duro tema della pena di morte in Iran. E lo fa non dal punto di vista del condannato, ma del suo boia. Nei quattro episodi presentati nel film del regista iraniano Mohammad Rasoulof, la pena di morte non è disumana solo per le vittime che la subiscono, gli stessi carnefici ne scontano gli effetti per tutta la vita. Quanta libertà di scelta ha l’individuo e quali sono le conseguenze di una disobbedienza civile in un paese a regime autoritario? Un film non facile, nel quale tutti gli episodi lavorano sul non detto: fino all’ultima scena, dove lo spettatore è portato a rivedere tutto quanto sotto un’altra luce.
Da segnalare la scelta curiosa d’inserire in colonna sonora una versione poco conosciuta di Bella ciao, quella delle mondine cantata da Milva. Forse perché, rispetto al tradizionale testo partigiano, in questo si parla di oppressione e libertà?
Il regista Rasoulof non ha potuto ritirare il premio, l’Orso d’oro, per il suo film perché non libero di lasciare l’Iran. Appena cinque anni fa, un altro regista iraniano, Jafar Panahi, non aveva potuto ritirare lo stesso premio, per il suo film Taxi Teheran [Taxi, 2015].

berlino 2020There is No Evil.

Un sistema totalitario è anche l’ambientazione di DAU. Natasha [id., 2020] di Ilya Khrzhanovskiy e Jekaterina Oertel. Questo frammento di 145 minuti è parte di un progetto monumentale ideato dal regista russo Ilya Khrzhanovskiy: l’autore ha voluto infatti ricreare il clima della Russia ai tempi del regime staliniano realizzando dodici film distinti (per la maggior parte girati all’interno di unico, gigantesco set esteso per dodici chilometri, con gli attori costretti a vivere al suo interno giorno e notte) da proiettare in simultanea come parte di un’unica, gigantesca videoinstallazione. Nello specifico, DAU. Natasha racconta della vita solitaria, totalmente dedicata al lavoro nella mensa di un istituto di ricerca, della cameriera Natasha, del suo conflitto non sempre amichevole con la collega Olga, del suo amore per gli alcolici e della sua breve relazione con il ricercatore francese Luc, ospite nell’istituto. Nella seconda parte ritroviamo Natasha in un bunker dei servizi segreti piegata e torturata e costretta a sottoscrivere false dichiarazioni riguardanti Luc. La scena del rapporto sessuale con Luc, ma anche quella particolarmente dura di forzata auto violenza, hanno provocato la censura del film in Russia e un certo scalpore, comprensibile, fra il pubblico e la critica. L’incredibile e monumentale lavoro che è DAU ha avuto come riconoscimento il premio per la fotografia all’operatore tedesco Jürgen Jürges, già conosciuto per la sua collaborazione, fra altre importanti, con Rainer Werner Fassbinder e Michael Haneke.

Un altro premio importante, quello alla regia, è andato invece al regista coreano Hong Sang-soo per The Woman Who Ran [Domangchin yeoja, 2020]. Un film tutto al femminile con dialoghi che ricordano molto la comicità di Woody Allen e che è senz’altro, insieme a Effacer l’historique [2020], uno dei più divertenti in concorso. Proprio quest’ultimo film (conosciuto anche con il titolo internazionale Delete History) di Benoît Delépine e Gustave Kervern, brillante satira sociale sulle perversioni dei social media, si porta a casa l’Orso d’argento.
All’attrice tedesca Paula Beer va il premio come miglior attrice per il ruolo di Undine, protagonista eponima della favola romantica di Christian Petzold. La Beer, che aveva già lavorato con Petzold ne La donna dello scrittore [Transit, 2018], è particolarmente popolare in Germania per il suo ruolo protagonista nell’ottima serie Bad Banks [creata da Oliver Kienle, 2018].

berlino 2020Malmkrog. 

La nuova sezione chiamata Encounters si prefissa invece lo scopo di promuovere opere indipendenti e innovative. Ad aprire la sezione è il film Malmkrog [id., 2020] di Cristi Puiu. Questo fluviale kammerspiel (oltre tre ore di durata) racconta una giornata nella ricca tenuta del proprietario Nikolai e inscena una discussione filosofica fra gli ospiti incentrata su temi quali la morale, la guerra, la religione e l’Europa. Attraverso dialoghi fittissimi, Puiu ci presenta alcuni esponenti della classe agiata della Russia dei primi del Novecento, educata al pensiero razionale ma incapace di comprendere gli eventi storici che hanno portato alla prima guerra mondiale e alla Rivoluzione Russa. Anche l’episodio di violenza che scuote il film verso la metà viene immediatamente dimenticato: nella scena successiva la discussione riprende infatti normalmente. Continuamente seguito e curato dalla servitù, il vecchio padre malato è il simbolo di questa decadente società protofeudale.
All’opposto della costruzione lineare di Malmkrog troviamo Isabella [id., 2020] di Matías Piñero. Da subito, lo spettatore viene a sapere che la protagonista Mariel non ha superato il provino per la tanto ambita parte di Isabella nel dramma shakespeariano Misura per misura. Attraverso un fraseggio complesso, il film ricostruisce gli eventi precedenti al provino e i movimenti della protagonista e della sua amica/antagonista Luciana, in un susseguirsi di ripetizioni, di azioni e conversazioni che rivelano le personalità e le ambizioni delle due donne in un mescolarsi di vita reale e finzione teatrale.

berlino 2020 Sole.

Molto interessante anche un’altra nuova serie voluta dai curatori: On Trasmission, intesa come un momento di scambio generazionale fra cineasti affermati e giovani registi alle prime armi. Per l’Italia è stato invitato Paolo Taviani, vincitore, insieme al fratello Vittorio, dell’Orso d’oro, con Cesare deve morire alla Berlinale nel 2012. Paolo Taviani ha chiesto di presentare il film Sole [2019] del giovane regista romano Carlo Sironi. In Sole si racconta la storia di Ermanno e Lena che, per soldi, fingono di essere una coppia in attesa di un figlio. Lena è venuta dalla Polonia per vendere la sua bambina allo zio di Ermanno, il quale non riesce ad avere figli dalla moglie. Nel corso del film però i due protagonisti superano a poco a poco la freddezza di questa relazione contrattualistica, finendo per avvicinarsi sempre più l’uno all’altra.
Taviani ha dichiarato di aver scelto Sole proprio per l’uso minimale che Sironi fa dei movimenti di macchina: in questo modo concede il tempo ai protagonisti di esprimersi senza parole e di conseguenza permette al pubblico di cogliere stati d’animo attraverso sguardi o gesti che altrimenti sarebbero andati perduti attraverso una messa in scena più elaborata. Certamente anche l’uso di lenti speciali usate negli anni Cinquanta (come ha raccontato Sironi durante l’incontro d’introduzione al film) e caratterizzate da dominanti cromatiche tendenti al blu facilita questa ricerca di purezza, creando un esempio di cinema che lambisce il realismo senza dimenticarsi delle ragioni dello stile.
La particolarità della serie On Transmission consiste nella forma assai colloquiale che ha permesso a registi come Margarethe von Trotta, Ang Lee, Olivier Assayas e altri ancora, di rapportarsi con i giovani autori, ma anche con il pubblico in sala, in modo informale, ricco di spunti e particolari interessanti, come per esempio i ricordi di Margarethe von Trotta e dell’attrice Angela Winkler sulle riprese di Lucida follia [Heller Wahn] (presentato alla Berlinale nel 1983).

Nella sezione Panorama troviamo un altro film italiano: Semina il vento [2020], primo lungometraggio del regista Danilo Caputo. Quest’opera ambiental-ecologista racconta del tentativo di salvare l’ecosistema sempre più compromesso degli olivi centenari. Alla nobiltà delle intenzioni corrisponde un film riuscito malgrado qualche eccesso semplificatorio.
Nella stessa sezione troviamo anche Father [Otac, 2020] vincitore del premio del pubblico come miglior film. Road movie diretto dal serbo Srdan Golubović, il film racconta la folle impresa di Nikola: percorrere 300 chilometri a piedi fino a Belgrado per riottenere l’affidamento dei figli che gli sono stati tolti ingiustamente dall’assistente sociale a causa dello stato di indigenza in cui si trova la famiglia. Non lascia indifferente la scena in cui Nikola, ritornato dall’estenuante viaggio nella capitale, si ritrova la misera abitazione svaligiata dai vicini di casa: con infinita pazienza e senza un minimo di rabbia transita da una casa all’altra del quartiere per riprendersi, una dopo l’altra, le quattro sedie, il tavolo, le poche e vecchie pentole, senza dire mai niente o mostrare il seppur minimo sconforto.
Molti altri i contributi interessanti: il dramma familiare Wildland [Kød & Blod, Jeanette Nordahl, 2020], incentrato sulla piccola criminalità danese, di cui diventa involontaria complice l’adolescente Ida, costretta dopo la morte della madre ad abitare in casa della zia; Exil [2020] del regista tedesco ma originario del Kosovo, Visar Morina, che ritorna al tema dell’integrazione e della discriminazione su base etnica. Bravissimi gli attori, Sandra Hüller e Mišel Matičević, nel dare corpo a una crescente atmosfera di diffidenza e incomprensione che priva di armonia una routine domestica; i documentari: Always Amber [2020] di Lia Hietala e Hannah Reinikainen e Petite fille [2020] di Sébastien Lifshitz, capace di riflettere sulla fluidità dell’identità di genere, capace di superare i limiti biologici. 

Nella sezione Forum da ricordare gli sgargianti colori di This Is My Desire [Eyimofe, 2020] dei nigeriani Arie Esiri e Chuko Esiri, che racconta in due episodi i tentativi di Mofe e di Rosa di emigrare con mezzi legali (o quasi) verso l’Europa.

Nella sezione dedicata ai primi cinquant’anni del Forum, sono state ripresentate invece alcuni classici. Opere caratterizzate dal forte impatto scenico e simbolico quali La cerimonia [Gishiki, 1971] di Nagisa Oshima, o dal crudo realismo come Ricostruzione di un delitto [Anaparastasi, 1970] di Theo Angelopulous, fino alla poesia favolistico-borgatara di Ostia [1970] di Sergio Citti, e alla provocazione di Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt [conosciuto anche con il titolo internazionale It Is Not the Homosexual Who Is Perverse, But the Society in Which He Lives] di Rosa von Praunheim. In particolare il film O.K. [1970] di Michael Verhoeven, un’opera in concorso nel 1971, che non solo creò scandalo per il suo anti-americanismo, ma portò addirittura al collasso del festival e all’annullamento della competizione. Un giubileo, questo, che ci ricorda e rievoca il clima politicamente teso di quegli anni.