L’inseguimento di Sé: Su I Had Nowhere to Go e Corrispondências

«Il film è senza immagini. Non è un errore se vedete uno schermo nero», dice Douglas Gordon durante la presentazione di I Had Nowhere to Go [id., 2016], la storia sull’esilio di Jonas Mekas.
Mekas ha ventidue anni quando cerca di emigrare negli Stati Uniti dalla Lituania. Ora ne ha 93 e la sua voce si è fatta rauca, tremolante.
Nei 98 minuti dell’opera del regista scozzese sono poche le immagini a risorgere dallo schermo: due cipolle, alcune barbabietole tagliate, “ferite”, che perdono la loro sostanza rossastra, orme nella neve, un orango e una scimmia, dei piedi che schiacciano una patata su carta di giornale. E poi… improvvisi lampi di luce. Bianca. Figure che non sopravvivono, sembrano bagliori repentini, sfarfallii ingurgitati dal nero della memoria.

I Had Nowhere to Go - festival di Locarno 2016 1

I Had Nowhere to Go - festival di Locarno 2016 3Immagini tratte da I Had Nowhere to Go di Douglas Gordon.

Se l’immagine manca, Gordon sollecita sensorialmente lo spettatore attraverso l’ingombrante presenza del suono: c’è il mare mosso, una nave, il frastuono di un bombardamento. Vi è qui un’operazione opposta rispetto ai diary-films di Mekas. Walden [id., 1969], girato da «un uomo del suo tempo eppure lontanissimo dal suo tempo»1 con un occhio da straniero sempre «inquieto e diviso»2, trabocca di immagini e cerca di cogliere quello che «eternamente si sottrae»3. Il bisogno di scrivere e di fare film è legato al timore di naufragare, di rimanere vittima del suo stesso spirito lacerato.

«I just sit. Or I walk and walk. Or I stand somewhere looking at one spot. And it seems to me as I stand here that I am totally disconnected from the rest of the world around me. Nothing, absolutely nothing connects me with it. The world around me goes on being busy, conducts its wars, enslaves countries, kills people, tortures. The real world…
My life till now seems to have slipped trough this real world without participating in it, without caring about it, without any connection to it. Even when I was in the very middle of it, I wasn’t really there.
My only life connection is in these scribbles.
Here I stand, this moment, now, with my arms hanging down, the shoulders fallen, eyes on the floor, beginning my life from point zero.
I don’t want to connect myself to this world.
I am searching for another world to which it would be worth connecting myself
».4

Gordon, invece, lavora per sottrazione ed esplora cosa accade quando le immagini ci vengono portate via. Dunque, la voce di Mekas diventa un navigatore virtuale, utile da inseguire per non perdersi nelle pieghe del tempo. Costruendo un rigoroso rapporto comunicativo tra il proprietario del diario e lo spettatore, I Had Nowhere to Go riesce a diffondere sentimenti di pura incandescenza, a trasmettere immagini mentali – quindi eterne – a discapito della memoria soggettiva. Non è un caso che proprio il regista scozzese in occasione di un’intervista rilasciata nei giorni del Festival abbia sostenuto che «The time can’t embrace anything. Time exists. Time moves on. The concept of memory is for philosophers».

Il regista lituano vive in disparte, dapprima nei campi profughi di Wiesbaden e di Mattenberg, poi nel quartiere di Williamsburg, a Brooklyn, allora abitato sopratutto da stranieri tra cui una piccola comunità di profughi lituani, esuli anch’essi, scappati dagli orrori della guerra. Sorte non così differente da quella del poeta e intellettuale portoghese Jorge de Sena costretto all’esilio a causa della dura opposizione a Salazar.
De Sena si trasferisce dapprima in Brasile e poi negli Stati Uniti, dove muore qualche decina di anni dopo. Non torna mai più in Portogallo. Tuttavia, intrattiene una relazione epistolare con Sophia de Mello Breyner durata i vent’anni del suo esilio.
Non so quanti anni avesse Rita Azevedo Gomes durante la dittatura di Salazar. A vederla così, direi che non fosse più di una ragazzina. Di certo, nel 2005 legge la corrispondenza tra i due poeti e ne rimane folgorata.
Il suo Correspondências [id., 2016], presentato nella sezione del Concorso, è innanzitutto un collage di visioni che si sfogliano una per una: le immagini girate in super8 lasciano lo spazio ai primi piani di alcune persone intente a leggere le poesie di de Mello e de Sena, mentre gli scorci di Città del Messico risalenti al 1971 vengono sovrapposti agli interni famigliari, allo spazio circoscritto di una stanza, di un cortile o di un balcone.

Tutte queste immagini che si rincorrono sullo schermo ricordano un album universale di foto di famiglia, custodito per ipotetiche generazioni a venire. Qualcuno legge in inglese, altri in russo. Eva Truffaut in francese. Una ragazza coi capelli ricci declama una poesia in italiano. Tuttavia, proprio come in I Had Nowhere to Go, è la parola scritta – in questi casi letta – a diventare colonna portante, filo rosso a cui aggrapparsi.
Hugo Friedrich definisce la poesia come una forma individuale e originale, nata dalla soggettività del poeta, ma al contempo partecipe di un ordine di strumenti universalizzati5. Dunque, un tratto fondamentale della potenza del verso poetico risiede sì nell’autorità del linguaggio ma sopratutto nella sua autonomia, necessità e valore sovratemporale.
Il gesto di Rita Azevedo Gomes è di utilizzare il verso poetico non come mezzo per ricamarci sopra un’immagine, ma nobilitarlo a diventare protagonista stesso di una narrazione visiva fuori dallo spazio e dal tempo. La poesia acquista significato nel momento in cui la si legge. E anche il passato smette di esistere per trasformarsi in un eterno presente permeato di risonanze di memoria. Quello stesso presente dove è imprigionato Ventura di Cavallo Dinheiro (Pedro Costa, 2014), condannato a contemplare i suoi fantasmi.
«Sei peste e fame e guerra e dolore del cuore./ Io ti appartengo ma esser mia, no.» è la fine di Portogallo, una delle poesie di De Sena, scritta più o meno 40 anni fa. Ed è tutto lì, in questa manciata di parole.

NOTE

1. Maurice Blanchot, Il libro a venire, Torino, Einaudi, 1969, p. 170

2. Ibidem.

3. Ivi, p.192.

4. Jonas Mekas, I Had Nowhere to Go, New York City, Black Thistle Press, 1991, p. 135.

5. Vedere a questo proposito: Hugo Friedrich, La struttura della lirica moderna: dalla metà del XIX alla metà del XX secolo, Milano, Garzanti, 2002.