I libertini, secondo Benedetta Craveri (Gli ultimi libertini, edito da Adelphi nel 2016) erano giovani aristocratici, “spiriti forti”, liberi, civili, coltissimi, coraggiosi, insofferenti delle convinzioni sociali e delle verità rivelate, sostenitori d’una Rivoluzione incombente, che da un lato avrebbe spazzato via le loro aspirazioni, ma dall’altro ne avrebbe gettato le basi per la futura realizzazione. Restava valido il motto di Talleyrand sulla dolcezza del vivere prima della Rivoluzione (almeno nell’ambito di un particolare ceto sociale), ripreso da Bernardo Bertolucci come titolo del suo film (Prima della rivoluzione [1964]).

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Tutto il contrario, invece, per l’Albert Serra di Liberté [id., 2019]. I libertini messi in scena dal regista catalano, prima in una pièce teatrale, poi nel film (che ne è una diretta emanazione), sono vecchi, laidi, malati e perversi. Le loro aspirazioni di palingenesi politica servono (come sostenevano gli avversari) da copertura per dare libero sfogo a ogni genere di pratiche sessuali che la morale comune considera viziose. Hanno fatto proprio il motto di madame de Longueville, “Non mi attirano i piaceri innocenti”, ma i piaceri non-innocenti che cercano in ogni modo di realizzare, coinvolgono anche uomini e donne del popolo (non per democrazia), implicano pratiche sadiche e di sessualità promiscua. Piaceri non-innocenti significa allora piaceri intrisi di dolore, dolore proprio e dolore inflitto agli altri, uomini e donne, consenzienti o meno.

Se c’è apparente democrazia, almeno sul piano sessuale, quest’apparenza nasconde in realtà la supremazia del più forte (uomini rispetto alle donne), o del più ricco (vecchi aristocratici rispetto a giovani del popolo). Anche anelando a essere percossi e frustati, i libertini di Serra reclamano una soddisfazione che spetta loro per diritto di nascita.

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Tutto, peraltro, deve avvenire nell’ombra. Niente pornografia in questo film, ossia coazione a mostrare, in totale assenza di mistero; e d’altra parte, nessun rifugio ipocrita nel fuori-campo o nel dettaglio simbolico.

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Zombi si aggirano in una foresta, dal tramonto, quando la luce comincia a scomparire, all’alba, quando ricomincia a far capolino tra i rami degli alberi. E’ un bosco maledetto, come lo definisce Casanova facendovi una breve apparizione: luogo d’incontro e scontro di morti viventi, o di vivi morenti, quali Serra aveva già messo in scena in alcuni dei suoi film precedenti (sullo stesso Casanova, che incontrava Dracula, o su Luigi XIV).

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Questi zombi sembrano tali, senza esserlo. In realtà sono aristocratici, duchi, marchesi, nobildonne, in fuga dalla Francia, da cui Luigi XVI li ha cacciati in quanto “libertini”, “spiriti liberi”, sprezzatori delle comuni regole morali, profeti d’una Rivoluzione che sta per scoppiare. Il bosco, o foresta, è in Germania, e la schiera dei libertini francesi è accolta, sempre in segreto, dal più autorevole dei libertini tedeschi, il duca di Walken (Helmut Berger).

Ma perché questi libertini sembrano zombi? Essi si muovono lentamente nella notte, tra gli alberi (quasi confondendosi con essi) e le portantine dentro le quali sono arrivati fin lì, ma non sono alla ricerca di sangue da succhiare (come i vampiri), né di carne umana di cui cibarsi (come i morti viventi) – quello che cercano è un luogo adatto alla messa in scena (non alla soddisfazione) del loro piacere. Cercano il piacere, commisto al dolore, che in ogni caso non può essere innocente : i piaceri ordinari, quelli di cui si contenta “la gente normale”, non li soddisfano. Il loro piacere, quello di cui vanno in cerca, è nelle pratiche sessuali che i borghesi timorati e i potenti ipocriti chiamano perversioni. O più esattamente, nella messa in scena di queste perversioni.

Metterle in scena, nel bosco notturno come teatro, non significa mostrarle, anzi. Significa nasconderle, allora? Neppure. Se i libertini di Serra sembrano zombi, è nella misura in cui i loro corpi decrepiti sono messi in movimento (il loro desiderio è attivato) dalla messa in tensione, lenta e laboriosa, dei rispettivi organi sessuali, specialmente (come è ovvio) di quelli maschili.

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Non è principalmente l’atto sessuale a essere messo in scena, come pure può sembrare: è la preparazione a esso, lenta e cauta, dell’attore-porno prima delle riprese, che deve prepararsi fuori scena a ciò che sulla scena avverrà. Nel buio, i libertini si preparano agli incontri, o agli scontri – a sodomizzare o a essere sodomizzati, a picchiare o a essere picchiati.

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Nulla può avvenire alla luce del sole, perché la luce del sole non esiste, nella foresta teatrale. Gli aristocratici di Serra non amano, fanno prove di morte, anche prove della propria morte, come Casanova con Dracula, come Luigi XIV.

Morte del personaggio, sfacelo fisico dell’attore. Vedendo Léaud, il ragazzino della nouvelle vague, nella parte del Re Sole morente, ossia di un anziano in fin di vita, oltre tutto gravato da una pesante parrucca su cuscini d’un letto senza riposo non riuscivamo a non provare una stretta al cuore. Tuttavia, malgrado tutto, l’interprete prestava ancora al personaggio qualche guizzo di vitalità, come dire: tranquilli, sto solo recitando. Così moriva il Casanova di Serra, non ballando, come quello di Fellini, con una bambola di Norimberga a grandezza naturale, in uno scenario altrettanto improbabile, vampirizzato dall’ennesima incarnazione del conte Dracula (Historia de la meva mort [id., 2013]). Ma chi riconoscerebbe Helmut Berger, il fascinoso interprete viscontiano, nel volto malato, negli occhi sporgenti e spiritati del duca di Walken? La decadenza fisica assedia il corpo dell’attore, e Serra quasi gode ad accentuarla. I suoi libertini sono mummie rinsecchite o flaccidi obesi – il che assume inevitabilmente anche il valore d’in giudizio storico.

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morte louis xiv serraSopra: Helmut Berger in Liberté. Sotto: Jean-Pierre Léaud ne La mort de Louis XIV [id., 2016].

Storicamente, per Serra, si tratta di sconfitti. L’aristocrazia stessa è il loro peccato originale, malgrado il fatto che tentino di porsi come avanguardia d’una Rivoluzione che farà a meno di loro. Serra non li ama, li denigra, li considera fantasmi della Storia, ombre perdenti, vaganti nell’inanità di desideri il cui destino è di sfuggire alla soddisfazione d’ogni desiderio.

“Picchiatemi ancora!” invoca il duca masochista. E questo grido, questo sogno, somiglia troppo all’Encore lacaniano, per non essere destinato a svanire alle prime luci dell’alba.

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